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Approfondimenti

Il “progetto esecuzioni” della Cassazione: analisi dei primi orientamenti

10 Ottobre 2019

Tiziana Allievi, Partner e Responsabile del team Esecuzioni Immobiliari, Valentina Zamberlan, Trainee, La Scala Società tra Avvocati per Azioni

Nell’ordinamento giudiziario italiano, alla Corte di Cassazione spetta sia il compito valutare se il giudice di merito abbia correttamente interpretato la norma applicabile al caso concreto (il c.d. ius litigatoris), sia il compito di enucleare orientamenti interpretativi uniformi della legislazione vigente, nell’ottica di rafforzare e preservare l’unità dell’ordinamento giuridico (il c.d. ius constitutionis).

La natura di giudizio a carattere occasionale e successivo del giudizio di legittimità influisce sia sulla tempestività della risoluzione delle questioni sottoposte al vaglio della Cassazione, le quali emergono dopo diversi anni di latenza, sia sul numero delle cause iscritte a ruolo: la concreta possibilità di veder rovesciata una pronuncia sfavorevole spinge infatti le parti insoddisfatte ad invocare quasi automaticamente il sindacato di legittimità della Corte, nella speranza di una revisione interpretativa favorevole della quaestio iuris sottesa al singolo caso di specie.

L’esercizio della funzione nomofilattica tipica della Corte è dunque ridotto al minimo, sia in ragione del divario temporale tra le riforme legislative e la loro interpretazione, sia in ragione del carattere rapsodico delle questioni sottoposte al vaglio del giudice di legittimità.[1]

La determinazione a recuperare il compito nomofilattico attribuito alla Corte di Cassazione ha dunque spinto la Terza Sezione (competente tabellarmente in materia esecutiva) a dare vita al cosiddetto “progetto esecuzioni”, volto alla rilevazione e concentrazione, in udienze dedicate, delle questioni nuove o che presentano specifiche criticità, riferibili esclusivamente al processo esecutivo. Attraverso la selezione delle cause che offrono l’occasione di risolvere questioni rilevanti o controverse, la Corte di Cassazione si è riservata l’opportunità di emettere decisioni “capaci di orientare le future determinazioni dei giudici di merito, e non soltanto di correggere le pronunce già emesse, e, così, di assicurare tempestivamente l’uniforme interpretazione del diritto nazionale”.[2]

Il progetto prevede una fase preliminare di individuazione delle tematiche di particolare rilevanza nomofilattica, selezionate, sulla base delle segnalazioni provenienti dagli operatori del diritto tramite convegni, riviste specializzate e forum, tra le questioni utili per dirimere contrasti interpretativi nella giurisprudenza di merito, per definire l’applicazione di novità normative o per assicurare un impatto immediato sulle procedure esecutive pendenti in termini di efficacia, legalità e speditezza dell’iter processuale.

La selezione dei temi da sottoporre al vaglio della Terza Sezione è dunque il frutto di un’azione compartecipata da tutti gli operatori del diritto, indirizzata alla risoluzione uniforme delle questioni percepite come più urgenti e significative: quelle che soffrono di interpretazioni divergenti da parte dei giudici di merito o eccessivamente remote; quelle di impatto sistematico immediato, perché influenti direttamente sull’operatività delle procedure esecutive; quelle frutto di recenti innovazioni legislative; infine, quelle più rilevanti dal punto di vista della coerenza e omogeneità dell’intero sistema.

La best practice introdotta con il “progetto esecuzioni” è dunque diretta a mettere ordine nel settore dell’esecuzione forzata, nel quale lo spiccato tecnicismo delle norme e il rapido susseguirsi di interventi del Legislatore hanno dato vita a numerose ed eterogenee prassi ed interpretazioni applicative.[3]

Tanto premesso, appare opportuno soffermarsi sull’analisi delle questioni già esaminate dalla Terza Sezione.

1. Opposizioni esecutive e introduzione del giudizio di merito: la fase sommaria avanti al giudice dell’esecuzione è necessaria per la corretta instaurazione del procedimento a cognizione piena

Com’è noto, la disciplina del processo esecutivo prevede tre distinte tipologie di opposizioni: all’esecuzione (art. 615 c.p.c.), agli atti esecutivi (art. 617 c.p.c.) e di soggetti terzi, estranei alla procedura (art. 619 c.p.c.).

L’ambito applicativo di ciascuno dei procedimenti di opposizione varia a seconda della qualifica soggettiva rivestita dall’opponente (terzo o parte del procedimento) e della natura dell’atto impugnato: con l’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. il debitore può contestare il diritto del creditore di procedere in executivis, impugnando l’atto di precetto o l’atto di pignoramento; con l’opposizione agli atti esecutivi è possibile contestare la legittimità degli atti che vengono ad esistere nel corso del procedimento, siano essi provenienti dal creditore, dall’ufficiale giudiziario o dal giudice; l’opposizione ex art. 619 è invece riservata ai soggetti terzi che vogliano far valere eventuali diritti reali sul bene staggito direttamente avanti al giudice dell’esecuzione.

Nel caso in cui non sia ancora stato notificato l’atto di pignoramento, l’opposizione dovrà essere introdotta con atto di citazione, indirizzato direttamente al giudice della cognizione (trattasi di opposizione c.d. preventiva). Per converso, dal momento in cui viene notificato il pignoramento (il quale costituisce il primo atto del processo esecutivo), eventuali opposizioni dovranno essere presentate in forma di ricorso direttamente avanti al giudice dell’esecuzione.

Pertanto, l’ambito applicativo e le modalità introduttive di ciascuna delle tre species di opposizione dovranno essere individuati dagli interpreti in forza della combinazione di tali criteri oggettivi, soggettivi e cronologici.

Analizzando la disciplina codicistica in punto di opposizioni successive, emerge nitidamente la natura bipartita del giudizio incardinato dall’opponente: la prima fase si svolge avanti al giudice dell’esecuzione ed è destinata alla valutazione dell’esistenza dei presupposti per la sospensione del giudizio o per l’adozione di provvedimenti cautelari; la seconda fase, avente carattere meramente eventuale, prevede invece l’introduzione di un vero e proprio giudizio di merito, devoluto alla cognizione del giudice ordinario.

Pertanto, a seguito del deposito del ricorso in opposizione, il giudice dell’esecuzione provvederà a fissare udienza avanti a sé e a disporre la notifica del ricorso e del decreto di fissazione udienza, da parte dell’opponente, al creditore procedente e ai creditori titolati intervenuti.

All’esito di tale udienza, decisa l’eventuale istanza di sospensione del procedimento esecutivo, il giudice dell’esecuzione stabilisce un termine perentorio per l’introduzione del giudizio di merito, da compiersi secondo le regole del rito di volta in volta applicabile.[4]

Il trait d’union tra i due segmenti della procedura di opposizione successiva è costituito proprio dal provvedimento concedente tale termine perentorio, il quale, pur concludendo la fase sommaria, garantisce l’unitarietà del processo oppositivo.

La Cassazione, nell’ambito del “progetto esecuzioni”, si è interrogata circa il carattere di inderogabilità della fase sommaria, sovente elisa nella prassi mediante la subitanea introduzione del giudizio di merito (ad esempio, con l’iscrizione a ruolo degli affari civili contenziosi del ricorso in opposizione).

Nell’analizzare la questione, la Suprema Corte ha enucleato le proprie considerazioni prendendo le mosse dall’esame delle finalità perseguite attraverso la previsione della fase sommaria dei procedimenti di opposizione: incentivare la deflazione del contenzioso, inibendo il prosieguo di opposizioni meramente dilatorie; mettere a conoscenza il giudice dell’esecuzione dell’intervenuta opposizione, di modo da permettergli di esercitare i poteri di direzione del procedimento e di verifica e controllo della regolarità di svolgimento dell’azione esecutiva, il cui corretto esercizio poterebbe determinare l’emissione di provvedimenti idonei a rendere superflua l’opposizione di merito; rendere conoscibile la proposizione dell’opposizione a tutti i soggetti interessati, che siano parti effettive del giudizio o semplicemente terzi potenzialmente interessati all’acquisto dei beni pignorati, i quali verrebbero a conoscenza dell’opposizione pendente mediante la semplice consultazione del fascicolo processuale.

Pertanto, sulla base del rilievo pubblicistico riconosciuto alla fase sommaria, la Cassazione, con la sentenza n. 25170/2018, ha definitivamente obliterato l’orientamento che attribuiva carattere meramente eventuale alla fase di opposizione avanti al giudice dell’esecuzione, relegando il suo svolgimento alle sole ipotesi in cui l’opponente desiderasse ottenere l’emissione di provvedimenti cautelari urgenti.

Di conseguenza, la Cassazione ha confermato il carattere necessario della fase sommaria del procedimento di esecuzione, da introdursi con ricorso indirizzato al giudice dell’esecuzione.

L’eventuale opposizione difforme, nella ricostruzione operata dalla Corte, non potrebbe quindi che essere dichiarata improcedibile.

Infatti, nel caso in cui l’atto introduttivo dell’opposizione non rispettasse il modello legale prestabilito, non fosse indirizzato al giudice dell’esecuzione o non fosse depositato nel fascicolo dell’esecuzione pendente, scatterebbe la sanzione della nullità dell’atto ai sensi dell’art. 156 co. 2 c.p.c.

Tuttavia, continua la Corte, tale nullità è sanata in tutti i casi in cui il predetto atto abbia comunque raggiunto il suo scopo, perché tempestivamente trasmesso al giudice dell’esecuzione ed acquisito agli atti del fascicolo del processo esecutivo, su iniziativa dell’ufficio o su istanza dell’opponente stesso.

A riguardo, è opportuno ricordare come la salvezza degli effetti dell’opposizione irrituale è garantita solo nell’ipotesi in cui siano comunque rispettati i termini perentori individuati dalla legge per le tre distinte tipologie di esecuzioni. Infatti, le eventuali decadenze che possono maturare in una situazione analoga non sono ricollegabili all’erronea indicazione del giudice competente o all’errate scelta del rito processuale applicabile, ma alla circostanza che l’atto difforme rientri nella sfera di conoscibilità del giudice dell’esecuzione (mediante inserimento nel fascicolo) a termini spirati.

2. Sul criterio di imputazione delle spese di lite in caso di caducazione del titolo in pendenza di opposizione esecutiva

Con la sentenza n. 30857/2018, la Terza Sezione della Corte di Cassazione ha chiarito alcuni dubbi circa il criterio di ripartizione delle spese applicabile in caso di caducazione del titolo esecutivo ad opposizione esecutiva avviata.

Un primo orientamento giurisprudenziale riteneva infatti che, al venir meno del titolo esecutivo, l’opposizione dovesse ritenersi automaticamente fondata, indipendentemente dal tenore dei motivi dedotti in giudizio dall’opponente.

Nella sentenza citata, la Corte ha ricordato come sia indiscusso che la sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, causi il venir meno del presupposto fondamentale dell’azione esecutiva e, di conseguenza, produca l’illegittimità dell’esecuzione forzata con effetto ex tunc.

Tuttavia, da tali premesse non può derivare l’automatico accoglimento dell’eventuale opposizione esecutiva già incardinata, specialmente nei casi in cui il venir meno del titolo esecutivo dipenda da motivi diversi da quelli fatti valere in sede di opposizione.

Infatti, l’accoglimento acritico dell’opposizione, a prescindere dal tenore dei motivi di impugnazione dedotti in giudizio dall’opponente, costituirebbe un automatismo incompatibile con il generale principio della domanda che, nelle opposizioni esecutive, viene ulteriormente cristallizzato dalla presenza di diverse tipologie di opposizione, ciascuna esperibile in forza di diversi motivi e presupposti.

Pertanto, l’unico esito ammissibile di eventuali opposizioni pendenti è la definizione della causa con una pronuncia di cessazione della materia del contendere per sopravvenuta carenza di interesse: venuto meno il titolo, viene infatti meno ogni interesse alla decisione nel merito dell’opposizione.

In tal caso, la liquidazione delle spese di lite non potrà essere disposta automaticamente a favore dell’opponente (come invece accadrebbe nel caso in cui l’opposizione fosse fittiziamente accolta), ma dovrà essere ridistribuita tra le parti in forza di un giudizio prognostico di astratta fondatezza delle ragioni dell’opposizione (c.d. soccombenza virtuale).

Spetta dunque al giudice valutare se, in assenza della caducazione del titolo, l’opposizione sarebbe stata presumibilmente accolta, facendo gravare le spese di lite sulla parte virtualmente sconfitta.

Diversamente, conclude la Corte di Cassazione, la redistribuzione dei costi di lite sarebbe basata sull’inaccettabile criterio temporale della caducazione del titolo, suscettibile addirittura di incentivare utilizzi strumentali delle opposizioni esecutive.

3. Questioni di diritto intertemporale: la modifica della disciplina in punto di offerta minima

Con il d.l. n. 83/2015 (convertito nella l. 132/2015), il Legislatore ha modificato l’art. 572 del codice di procedura civile, recante disposizioni in materia di offerta minima nella vendita senza incanto.

La disposizione in parola prevede che il giudice dell’esecuzione possa accogliere anche un’offerta inferiore al prezzo stabilito nell’ordinanza di vendita, purché la differenza tra le due somme non superi la misura di un quarto, non siano state formulate istanze di assegnazione e, ovviamente, non siano pervenute offerte più vantaggiose per la procedura.

Inoltre, il novellato art. 572 c.p.c. prevede che l’offerta ribassata possa trovare accoglimento solo nel caso in cui il giudice escluda ex ante la possibilità che il bene subastato possa essere aggiudicato per un importo maggiore a seguito di una eventuale nuova vendita.

Il regime introdotto nel 2015 rappresenta un’assoluta novità per l’ordinamento esecutivo: per la prima volta, il Legislatore ha scelto di garantire una rapida conclusione delle procedure esecutive, anche a discapito dell’esigenza di ricavare la massima realizzazione economica possibile dai procedimenti di vendita forzata.[5]

Tuttavia, nell’attuazione concreta della riforma in esame, la giurisprudenza di merito ha individuato in maniera difforme la disciplina ratione temporis applicabile: il regime transitorio previsto dal d.l. n. 83/2015 prevede infatti che il nuovo art. 572 c.p.c. sia applicabile anche alle procedure esecutive pendenti alla data di entrata in vigore del decreto stesso.

Nel dettare i limiti di operatività del nuovo regime di vendita, la terza sezione della Cassazione, con la sentenza n. 24570/2018, ha quindi chiarito che la sopravvenuta modifica delle regole sull’offerta minima nella vendita senza incanto deve trovare applicazione nei procedimenti pendenti all’entrata in vigore della riforma solo se espressamente richiamata dalla singola ordinanza di vendita: quest’ultima costituisce infatti la lex specialis dello specifico subprocedimento e solo a questa deve essere data piena ottemperanza, quantomeno fino alla parziale o totale sua revoca o modifica.

Ciò significa che, in assenza di modifica d’ufficio o di opposizione da parte dei soggetti interessati, l’intervenuta modifica legislativa, anche se astrattamente applicabile, non avrebbe legittimo gioco.

Solo in questo modo, sottolinea il Supremo Collegio, può essere mantenuta non solo la parità di condizioni iniziali tra tutti i potenziali partecipanti alla gara, ma anche l’aspettativa che questa si svolga con modalità predeterminate e trasparenti.

La platea indifferenziata e indistinta dei possibili acquirenti deve infatti poter essere certa delle regole alle quali è possibile rendersi aggiudicatari del bene, confidando che tali canoni, nel rispetto dei quali abbiano deciso di non partecipare o non insistere, non siano violati da altri partecipanti alla gara.

Pertanto, la sopravvenuta modifica delle norme sull’offerta minima, applicabile anche alle procedure in corso per espressa previsione normativa, diviene parte dello specifico subprocedimento di vendita forzata solo se richiamata dall’ordinanza di vendita. Eventuali violazioni potranno essere fatte valere anche dal debitore, il quale potrà impugnare l’ordinanza di vendita difforme a tutela del proprio interesse alla diminuzione della propria, residua, responsabilità patrimoniale.

4. Rapporti tra credito fondiario e fallimento nella distribuzione del ricavato

In tema di distribuzione del ricavato, gli interpreti hanno riscontrato alcune difficoltà nel coordinare l’art. 52 l.f., che impone, in caso di fallimento del debitore, l’accertamento di ogni credito vantato nei suoi confronti in forma concorsuale, e l’art 41 T.U.B., che consente al creditore fondiario di proseguire o iniziare l’esecuzione individuale contro il debitore fallito, restituendo al fallimento le eventuali somme percepite in eccedenza rispetto all’ammontare complessivo del credito azionato in via esecutiva.

Tale privilegio, attribuito dall’ordinamento al solo creditore fondiario, ha natura squisitamente processuale: i beni esecutati non vengono sottratti alla massa fallimentare, né tantomeno il credito fondiario azionato sfugge alla quantificazione e graduazione operata in sede concorsuale.

Ciò significa che l’attribuzione ai sensi dell’art. 41 T.U.B. non può che avere carattere provvisorio, dato che solo in sede fallimentare le posizioni dei singoli creditori vengono accertate e graduate in via definitiva.

Pertanto, una volta ricevuto il prezzo della vendita dei beni pignorati, il creditore fondiario è tenuto a restituire al fallimento le somme percepite oltre la misura del credito accertato in sede concorsuale.

Ferme tali considerazioni generali, dottrina e giurisprudenza si sono a lungo interrogate circa le concrete modalità di interazione tra esecuzione individuale avviata ex art. 41 T.U.B. e procedura concorsuale.

In particolare, ci si è chiesti se fosse necessario che il creditore fondiario, per accedere alla distribuzione delle somme derivanti dall’esecuzione individuale, dovesse essere preventivamente ammesso al passivo fallimentare e, in presenza di altri crediti poziori, se il saldo prezzo ricavato dalla vendita dovesse essere ridotto già in fase di esecuzione ordinaria su espressa istanza del curatore fallimentare, onerato di intervenire nella procedura.

Un primo orientamento, in ragione della provvisorietà dell’attribuzione economica derivante dall’esecuzione individuale, sosteneva la completa indipendenza tra procedura esecutiva ordinaria ed esecuzione fallimentare: il curatore del fallimento, accertata la graduazione e l’effettivo ammontare del credito vantato dall’istituto di credito fondiario, avrebbe infatti potuto agire per la restituzione degli importi versati in eccesso per mezzo di un autonomo giudizio di cognizione.

Un secondo orientamento, in conformità a quanto previsto dall’art. 111 Cost. in tema di economia dei mezzi processuali, sosteneva invece l’opportunità di portare all’attenzione del giudice dell’esecuzione quanto eventualmente già stabilito in sede fallimentare, riservando così eventuali azioni restitutorie alle sole vicende non deducibili in sede esecutiva.

Nell’ambito del “progetto esecuzioni”, la Terza Sezione della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 23482/2018, ha aderito a tale secondo orientamento, scandendo con precisione gli adempimenti gravanti sul creditore fondiario che agisca per l’attribuzione delle somme e sul curatore fallimentare che difenda le ragioni del fallimento.

In primis, al fine di non veder frustrate le proprie pretese, il creditore fondiario deve essere ammesso al passivo fallimentare (anche con provvedimento non definitivo): infatti, l’aver sottoposto la propria pretesa creditoria alla verifica dello stato passivo ex art. 52 l.f. costituisce il fondamento del diritto del creditore fondiario ad ottenere l’attribuzione, seppur provvisoria, delle somme ricavate dalla vendita forzata.

Sicchè, l’istituto di credito procedente dovrà adeguatamente documentare l’avvenuta ammissione al passivo, anche nel caso in cui il curatore fallimentare non intervenga nella procedura esecutiva.[6]

In secundis, dato che l’esistenza di altri crediti poziori rispetto a quello fondiario rappresenta un fatto impeditivo del diritto del creditore ex art. 41 T.U.B. di ottenere l’attribuzione provvisoria del ricavato, è onere del curatore costituirsi nel procedimento esecutivo e produrre i provvedimenti formali adottati dagli organi fallimentari idonei a documentare (anche indirettamente, purché inequivocabilmente) la suddetta graduazione.

Tale soluzione, nell’interpretazione della Cassazione, è l’unica che permette di evitare duplicazioni dell’attività di accertamento, disincentivando l’avvio di dispendiose azioni di cognizione ordinarie da parte del curatore fallimentare che voglia ottenere la restituzione delle somme indebitamente percepite dal creditore fondiario.

5. La stabilità degli effetti dell’esecuzione forzata

L’epilogo naturale del procedimento esecutivo è la distribuzione delle somme ricavate dalla vendita forzata tra il creditore procedente ed eventuali creditori intervenuti, ripartite sulla base della natura e della graduazione dei crediti dedotti in giudizio da ciascuno di essi.

Tuttavia, la determinazione dell’esistenza e dell’ammontare dei crediti contenuta nel progetto di distribuzione non può mai “fare stato” tra le parti, né tra il debitore ed i suoi creditori né nei rapporti tra creditori, in ragione dell’incapacità di tale provvedimento di produrre gli effetti tipici del giudicato (sentenza n. 17371/2011).

Determinante, in tal senso, è la mancanza di contenuto decisorio del provvedimento di distribuzione: infatti, l’unico presupposto dell’azione esecutiva è l’esistenza di un titolo esecutivo valido ed efficace, portante un diritto certo, liquido ed esigibile.

Eventuali controversie circa l’esistenza o l’esigibilità del diritto incorporato dal titolo sono devolute in via esclusiva alla cognizione del giudice ordinario, naturalmente deputato a decidere dei profili cognitori insiti nell’attività di accertamento dell’esistenza di un’obbligazione (anche nel caso in cui il titolo di sia formato all’interno delle giurisdizioni speciali, cfr. Cass. SS. UU. n. 19280/2018).

In sintesi, per utilizzare la felice espressione coniata da Denti, il processo esecutivo è finalizzato ad attuare diritti certi, non all’accertamento di diritti.[7]

Pertanto, in ragione dell’incapacità del provvedimento di distribuzione di produrre appieno gli effetti del giudicato, parte della dottrina sosteneva che il debitore conservasse comunque la facoltà di agire per la ripetizione delle somme indebitamente percepite dal creditore, nonostante l’approvazione del piano di riparto ed indipendentemente dal preventivo esperimento delle azioni di impugnazione endoprocessuali previste dall’ordinamento.

Tuttavia, la giurisprudenza di legittimità, confortata dalla recente sentenza pronunciata dalla Terza Sezione della Cassazione nell’ambito del “progetto esecuzioni”, è concorde nell’attribuire al provvedimento conclusivo del procedimento esecutivo carattere di irretrattabilità: di conseguenza, dopo la chiusura dell’esecuzione, è precluso l’esperimento di eventuali azioni di ripetizione dell’indebito fondate su presunte illegittimità sostanziali del procedimento di esecuzione forzata (sentenza n. 20994/2018).[8]

Tale assunto non deriva dall’assimilazione del provvedimento di distribuzione ad un accertamento definitivo con forza di giudicato, ma piuttosto scaturisce dal concetto di preclusione, di portata ed estensione più ampie. È il debitore stesso (o il creditore insoddisfatto, o l’aggiudicatario deluso) che, non tutelando i propri interessi in corso di esecuzione per mezzo degli strumenti rimediali all’uopo previsti, manifesta il proprio disinteresse al raggiungimento di una diversa definizione del suo debito.

In conclusione, l’autosufficienza del sistema di opposizioni e rimedi previsti in ambito esecutivo non consente la sopravvivenza di pretese di tutela dagli effetti pregiudizievoli dei suoi atti, nemmeno risarcitorie, manifestate al di fuori dell’ambito applicativo delle azioni tipiche a tanto destinate (sentenza n. 6521/2014).

L’unica eccezione al principio in esame è costituita dal caso in cui il soggetto espropriato abbia fatto valere l’illegittimità dell’esecuzione mediante opposizione proposta in pendenza della procedura ma che questa sia stata accolta successivamente alla chiusura della stessa.

In tal caso, l’esecutato ben potrà avviare una separata azione di ripetizione dell’indebito, facendo valere l’illegittimità accertata della procedura esecutiva già conclusa e ottenendo la restituzione delle somme ingiustamente percepite dal creditore, nonché il risarcimento del danno patito (sentenza n. 26927/2018).

6. Espropriazione di beni indivisi

Nel caso in cui il debitore esecutato sia titolare di una quota di un diritto reale su di un bene in comunione con altri soggetti o di una frazione di un diritto soggettivo comune, l’ordinamento prevede tre distinti opzioni per addivenire alla liquidazione della singola quota pignorata: la separazione in natura, la vendita della quota pro indiviso e la divisione giudiziale del bene, da compiersi secondo le regole ordinarie (art. 600 c.p.c.).

La circostanza che il pignoramento colpisca beni indivisi non è infatti considerata ostativa alla soddisfazione delle pretese del creditore, sia nell’ipotesi in cui i comproprietari non siano debitori del procedente sia nell’ipotesi in cui quest’ultimo decida di azionare il proprio titolo esecutivo solamente nei confronti di uno soltanto tra i debitori astrattamente aggredibili.

In presenza di più comproprietari del medesimo bene staggito, la soluzione ottimale consisterebbe nel dividere il bene comune in natura, separando la cosa in parti suscettibili di autonomo e libero godimento, corrispondenti alle quote dei partecipanti alla comunione, senza causare rilevanti diminuzioni di valore delle porzioni del bene risultanti dalla divisione.

A tal fine, è necessario che il creditore pignorante (o, in alternativa, un creditore intervenuto munito di titolo esecutivo o uno dei comproprietari) formuli specifica istanza di separazione in natura, non potendo il giudice dell’esecuzione procedere in tal senso in assenza di espressa manifestazione di volontà delle parti interessate.

Tuttavia, la strada della divisione in natura non è percorribile nei casi in cui ragioni materiali, economiche o giuridiche che rendano impossibile il porzionamento del bene comune.[9]

Al contrario, nell’ipotesi di vendita della quota pro indiviso, il terzo acquirente acquisterebbe una quota ideale della comunione indivisa, subentrando nella posizione giuridica precedentemente rivestita dal debitore esecutato, mantenendo integra la comproprietà.

Tuttavia, la vendita pro indiviso può essere ordinata solo se si ritiene che la collocazione sul mercato della quota indivisa possa avvenire ad un prezzo pari o maggiore rispetto a quello indicato in sede di stima del valore del compendio pignorato, costituito dalla percentuale del valore dell’intero corrispondente alla parte pignorata.[10]

In mancanza di indizi sufficienti a garantire la convenienza della vendita della quota indivisa e nell’impossibilità di addivenire alla divisione in natura del bene, al giudice dell’esecuzione non rimane che disporre l’avvio del giudizio di divisione, sia d’ufficio che su istanza delle parti interessate.

Il giudizio di divisione è un procedimento di cognizione a carattere incidentale, devoluto in via esclusiva alla competenza del giudice dell’esecuzione, la cui introduzione si perfeziona attraverso tre distinti momenti: il pignoramento, inteso come atto d’impulso allo scioglimento della comunione; l’avviso ai comproprietari ed ai creditori iscritti, idoneo a comunicare la pendenza del procedimento; l’ordinanza del giudice dell’esecuzione che dispone la divisione, pronunciata all’esito dell’udienza di cui all’art. 600 c.p.c., contenente la fissazione dell’udienza di trattazione del processo di cognizione avanti al giudice dell’esecuzione in veste di giudice istruttore.

Il momento perfezionativo dell’introduzione del giudizio di divisione endoesecutivo coincide quindi con la pronuncia della suddetta ordinanza o, nel caso in cui all’udienza ex art. 600 c.p.c. non siano presenti tutti gli interessati, con la notifica agli assenti dell’ordinanza stessa.

Pertanto, come chiarito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 20817/2018, non è necessario notificare e iscrivere a ruolo un apposito atto di citazione.

Tuttavia, nel caso in cui sia il Giudice dell’esecuzione stesso a prevedere formalità più gravose per l’instaurazione del giudizio di merito, la parte interessata sarà tenuta a darvi ottemperanza, pur nella consapevolezza che le conseguenze derivanti dal mancato adempimento delle disposizioni del giudice non potranno che limitarsi al piano della mera irregolarità formale.

7. Le spese dell’esecuzione forzata

All’esito dell’opposizione di un decreto ingiuntivo portante le somme liquidate a titolo di spese legali dal giudice dell’esecuzione, rimaste impagate a causa dell’incapienza delle somme ricavate, la Terza Sezione della Corte di Cassazione ha escluso la possibilità che la liquidazione delle spese processuali effettuata dal giudice dell’esecuzione (pur non costituendo titolo spendibile come tale al di fuori del relativo processo), integri una ragione di credito azionabile separatamente dal creditore insoddisfatto.

Con la sentenza n. 24571/2019, la Suprema Corte ha dunque sciolto il nodo interpretativo sulla questione, stabilendo che, nel caso in cui le suddette spese non siano corrisposte, divengano successivamente irripetibili.

Sul punto, il quadro normativo di riferimento è costituito dall’art. 95 c.p.c., il quale prevede che “le spese sostenute dal creditore procedente e da quelli intervenuti che partecipano utilmente alla distribuzione sono a carico di chi ha subito l’esecuzione, fermo il privilegio stabilito dal codice civile”. In passato, la giurisprudenza si è interrogata se la disposizione in parola costituisse una specificazione del criterio generale della soccombenza, così come stabilito dall’art. 91 c.p.c. in tema di condanna alle spese, oppure, in ragione dell’esito obbligato del processo di esecuzione, fosse esclusa la possibilità di configurare un soccombente nel senso proprio del termine.

Infatti, le spese sostenute dai creditori restano a carico dell’esecutato in quanto soggetto del procedimento che ha cagionato, data l’assenza di qualsivoglia statuizione sulla fondatezza della posizione sostanziale presupposto del giudizio di esecuzione.

Le spese rappresentano il costo obiettivo del processo, costituendo un onere che viene a gravare sul ricavato (c.d. principio della tara sul ricavato), la cui liquidazione costituisce uno degli elementi (oltre capitale ed interessi) che compongono il diritto del creditore. Pertanto, queste saranno corrisposte nella misura in cui troveranno collocazione, interamente o parzialmente, sulla massa attiva ricavata dall’espropriazione.

Da tali considerazioni deriva la conclusione che il giudice dell’esecuzione non possa procedere alla liquidazione delle spese in assenza di ricavato o, in caso diverso, disporrà la liquidazione solo ai descritti fini endoesecutivi. Pertanto, le spese impagate per incapienza parziale del ricavato dell’esecuzione forzata diventeranno irripetibili per il creditore che le ha sostenute.

 


[1] SPIRITO, Il “progetto esecuzioni” della terza sezione civile della Corte di Cassazione, in Rivista dell’esecuzione forzata n. 1/2019, Wolter Kluwer Italia.

[2] FANTICINI, Il “progetto esecuzioni” della terza sezione civile della Suprema Corte, in Massimario della Corte di Cassazione, anno 2018, volume 3, Rassegna della giurisprudenza di legittimità – gli orientamenti delle Sezioni Civili.

[3] SPIRITO, ibidem.

[4] Ad esempio, se il credito azionato in via esecutiva deriva da un rapporto di lavoro dipendente, a trovare applicazione per la seconda fase del giudizio di opposizione sarà il rito del lavoro e, di conseguenza, l’opposizione andrà introdotta non con atto di citazione ma con ricorso (CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile, vol. 1, Giappichelli Editore, Torino, 2015, p. 333).

[5] SOLDI, Manuale dell’esecuzione forzata, 2017, Milano, p. 1373.

[6] La Cassazione specifica inoltre che “non incide sulla validità della esposta ricostruzione la possibilità che in concreto l’istanza di ammissione al passivo sia stata proposta ma su di essa gli organi della procedura non abbiano ancora avuto modo di pronunziarsi. Specie nell’attuale regime delle procedure concorsuali, che impongono all’uopo stringenti termini, in tal caso sarà infatti sufficiente attendere l’emissione del provvedimento in sede fallimentare, pur non definitivo, anche soltanto, ad esempio, con il semplice differimento dell’udienza di distribuzione davanti al giudice dell’esecuzione a data presumibilmente successiva a tale emissione” (Cass. Civ. Sentenza n. 23482 del 28.09.2018).

[7] Così DENTI, L’esecuzione e opposizioni di merito nel processo esecutivo, Roma, 1963, p. 321 e seguenti; LUISO p. 159-160; BOVE p. 271

[8] Cass. 17371/2011 e Cass. 12242/2016 – in dottrina, Merlin, p. 149; ARIETA – DE SANTIS, L’esecuzione forzata, in Trattato di diritto processuale civile a cura di MONTESANO e ARIETA, Padova, 2007, p. 781; SOLDI, Manuale dell’esecuzione forzata, 2017, Milano, p. 812-813

[9] SOLDI, Manuale dell’esecuzione forzata, 2017, Milano, p. 1577.

[10] SOLDI, Ibidem, p. 1579.


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