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A.C.E.: profili di elusività

24 Aprile 2015

Avv. Giancarlo Marzo, Leo e Associati Studio Legale e Tributario

Di cosa si parla in questo articolo
ACE

1. Normativa e prassi di riferimento

L’articolo 1 del decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201[1], rubricato “Aiuto alla crescita economica” (breviter, “D.L. ACE”), al fine di riequilibrare il trattamento fiscale tra le imprese che si finanziano con debito e quelle che si finanziano con capitale proprio, ha introdotto un incentivo alla capitalizzazione.

I “versamenti in conto capitale”, come noto, rappresentano apporti di nuove risorse da parte dei soci a titolo di capitale di rischio, senza obbligo di restituzione in capo alla Società, se non nel limite del patrimonio residuante all’eventuale liquidazione[2]. I “finanziamenti dei soci”[3], al contrario, sono prestiti di denaro che attribuiscono ai soci il diritto alla restituzione delle somme (seppure postergata rispetto a quella degli altri debitori[4]) e che possono, altresì, prevedere, una remunerazione sotto forma di interessi (“finanziamenti fruttiferi”). Dal punto di vista contabile, l’OIC 28 (“Patrimonio netto”) colloca: i) i “versamenti in conto capitale” nella voce “VII – Altre riserve” del patrimonio netto[5]; ii) i “finanziamenti soci”, diversamente, nell’ambito dei debiti, nella posta “Debiti verso soci per finanziamenti” (voce D) numero 3)[6].

Il decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze, del 14 marzo 2012[7] (breviter, “decreto ACE”), ha dato attuazione all’articolo 1 del D.L. ACE prevedendo, per le imprese che si finanziano con capitale di rischio, una riduzione della relativa imposizione sui redditi. L’agevolazione, in pratica, consiste nell’ammettere in deduzione dal reddito complessivo netto dichiarato dal beneficiario, un importo corrispondente al cd. rendimento nozionale del nuovo capitale proprio che, se superiore al reddito complessivo netto, può anche essere riportato nei periodi d’imposta successivi, senza alcun limite quantitativo e temporale[8].

L’Agenzia delle Entrate ha chiarito che: “(…) la variazione in aumento di capitale proprio che assume rilevanza agli effetti della disciplina è l’incremento rispetto al patrimonio netto esistente alla chiusura dell’esercizio in corso al 31 dicembre 2010, con esclusione dell’utile di esercizio” (cfr. Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 12/E del 23 maggio 2014, breviterCircolare Ace”)[9].

Mentre gli incrementi patrimoniali derivanti da conferimenti in denaro rilevano solo dalla data del versamento e a condizione che la delibera di aumento del capitale sia stata assunta post esercizio in corso al 31 dicembre 2010; quelli derivanti da accantonamento di utili a riserva, rilevano dall’inizio dell’esercizio in cui le relative riserve sono formate (cfr. articolo 5, quarto comma del decreto ACE)[10]. E’, inoltre, previsto che i decrementi patrimoniali assumono rilevanza, per il loro intero ammontare, a partire dall’inizio dell’esercizio in cui si sono verificati.

2. Disposizioni antielusive “specifiche”

L’articolo 10 del decreto ACE, dando attuazione a quanto previsto dall’ottavo comma dell’articolo 1 del D.L. ACE, ha previsto alcune disposizioni antielusive specifiche, finalizzate ad evitare, soprattutto nell’ambito dei Gruppi societari, effetti moltiplicativi del beneficio.

Come precisato dalla Relazione illustrativa al D.M. 14 marzo 2012 (breviter, “Relazione”), con riferimento all’agevolazione in parola, si è ritenuto insufficiente richiamare le disposizioni antielusive cd. generali dettate dagli artt. 37, terzo comma, e 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (breviter, “d.P.R. n. 600”), comunque applicabili in via residuale[11] e, in considerazione della potenziale pericolosità dell’istituto, si è scelto di introdurre alcune regole specifiche in grado di assolvere, in modo più incisivo, la funzione di cautela fiscale.

Ciò, come precisato dall’Agenzia delle Entrate (cfr. Circolare Ace, pagina 17), al fine di: “evitare che a fronte di una sola immissione di denaro possa essere moltiplicata la base di calcolo dell’ACE mediante una reiterazione di atti di apporto a catena all’interno delle società del gruppo”. In particolare nelle disposizioni antielusive specifiche sono ricomprese “quelle operazioni che potrebbero prestarsi al raggiungimento di fini elusivi nel presupposto che la direzione unitaria e la pluralità soggettiva presente all’interno del gruppo favoriscono capitalizzazioni di comodo” (cfr. Relazione).

Con le disposizioni antielusive specifiche, in conclusione, sono state individuate alcune specifiche operazioni, effettuate prevalentemente tra società appartenenti al medesimo Gruppo, al verificarsi delle quali, opera in modo automatico un meccanismo di neutralizzazione della base di calcolo dell’ACE[12].

Mentre la disciplina antielusiva generale (dettata dagli artt. 37, terzo comma, e 37-bis del d.P.R. n. 600)prescindedagli eventuali effetti moltiplicativi ed è applicabile in presenza di qualsiasi comportamento teso a creare, con artifici, la base di calcolo ACE e quindi a generare un vantaggio fiscale “indebito”[13], le disposizioni antielusive specifiche si applicano solo in presenza di effetti moltiplicativi del beneficio a fronte di un’unica immissione di capitale (nel qual caso il beneficio è sterilizzato automaticamente a prescindere dalle motivazioni economiche a supporto dell’operazione).

Come chiarito nella Circolare Ace, il meccanismo di neutralizzazione agisce sulle società che operano gli investimenti idonei a generare la moltiplicazione del beneficio, conservando la rilevanza in capo alla società ricevente[14].

Le operazioni individuate dalsecondo e terzo comma del richiamato articolo 10 del decreto ACEcome potenzialmente idonee a moltiplicare la base di calcolo dell’agevolazione, per le quali è stata espressamente prevista l’immediata sterilizzazionedell’ACE, sono rappresentate da:

i) Conferimenti in denaro effettuati in favore di soggetti residenti
Il secondo comma dell’art. 10, del Decreto ACE ha, in primo luogo, previsto la sterilizzazione dalla base ACE (della società che beneficia dell’agevolazione) di un importo pari ai conferimenti in denaro effettuati a favore di società del Gruppo[15]. Per evitare tale sterilizzazione, è prevista la possibilità per la conferitaria di chiedere la disapplicazione della disciplina antielusiva, con la presentazione di un’istanza di interpello disapplicativo, ai sensi dell’ottavo comma dell’art. 37-bis, del d.P.R. n.600, dimostrando che l’incremento di capitale proprio non è stato preceduto da un’immissione di denaro “rilevante”[16] che ha aumentato, in precedenza, il capitale proprio di un altro soggetto del Gruppo[17].
ii) Conferimenti in denaro provenienti da soggetti domiciliati in Paesi cd. white list[18] controllati da soggetti residenti (terzo comma, lettera c).
Il terzo comma, lettera c), dell’art. 10, coerentemente con l’impostazione della disciplina antielusiva, ha previsto l’irrilevanza per il conferitario dei conferimenti in denaro ricevuti da un soggetto estero controllato da un residente. Come precisato nella Relazione, considerato il potenziale pericolo che l’apporto sia stato veicolato da una controllante residente ad un soggetto non residente, lo stesso è stato ritenuto inidoneo ad incrementare la base di calcolo dell’ACE della società conferitaria residente[19]. 
iii) Conferimenti in denaro provenienti da soggetti domiciliati in Paesi black list[20]. 
La lettera c) del terzo comma dell’art. 10 del Decreto prevede la sterilizzazione della base ACE di un importo pari ai conferimenti in denaro provenienti da soggetti non residenti domiciliati in Paesi che non consentono lo scambio di informazioni ai fini tributari. La Circolare Ace, richiamando la rigida posizione espressa dall’Agenzia delle entrate in occasione della DIT (i.e. dual income tax, in vigore dal 1998 al 2003[21]), ha negato la possibilità di chiedere la disapplicazione della norma antielusiva tramite istanze di cui all’art. 37-bis, comma ottavo, del d.P.R. n. 600[22]. Ciò in quanto, secondo l’Agenzia, “non sarebbe possibile verificare se le prove fornite dal contribuente sono sufficienti a dimostrare che l’effetto antielusivo contrastato dalla norma può in concreto non verificarsi” (cfr. Risoluzione Agenzia delle Entrate n. 26/E del 29 gennaio 2002)[23]. 
iv) Acquisizione di aziende e partecipazioni di controllo.
Le lettere a) e b) del terzo comma dell’art. 10 del decreto, hanno disposto, altresì, la sterilizzazione dell’incremento di capitale proprio per l’ammontare pari ai corrispettivi erogati per l’acquisizione (o l’incremento della quota detenuta) delle partecipazioni di controllo ovvero a quelli per l’acquisizione di aziende o di rami di aziende da società del Gruppo. Anche in questo caso, la finalità della disposizione è quella di evitare effetti duplicativi del beneficio ACE che si verificherebbero, ad esempio, nel caso in cui i mezzi finanziari acquisiti a seguito della cessione d’azienda o partecipazioni siano utilizzati per capitalizzare altre società del Gruppo. L’effetto duplicativo, evidentemente, potrebbe verificarsi solo laddove il soggetto acquirente (le aziende o partecipazioni infragruppo) sia stato precedentemente capitalizzato, beneficiando dell’ACE. 
v) Incremento dei “crediti da finanziamento”[24].
L’ultima fattispecie ritenuta potenzialmente idonea a moltiplicare la base di calcolo dell’agevolazione, è rappresentata dall’ipotesi in cui la società che riceve il conferimento in denaro di capitale “nuovo” finanzi, con la altre società del gruppo e queste realizzino, a loro volta, conferimenti in denaro utili per generare ulteriore base di calcolo dell’ACE (articolo 10, terzo comma 3, lett. e). La circostanza che un soggetto abbia incrementato i propri crediti di finanziamento per effetto di un prestito a favore di altro soggetto, peraltro, potrebbe non determinare nessuna duplicazione del beneficio ACE, laddove quest’ultimo non operi un conferimento in denaro in capo a un terzo soggetto[25]. 

3. Disposizioni antielusive “generali”

Come correttamente rilevato nella Relazione, a prescindere dal principio di specialità[26], le cd. norme antielusive generali (compresa la clausola generale antiabuso) e quelle cd. specifiche, non si pongono in rapporto di genere a specie, trattandosi di disposizioni strutturalmente diverse.

Conseguentemente, è evidente, che anche laddove una certa operazione non rientri in una delle ipotesi antielusive specifiche, non è detto che la stessa non sia censurabile dal punto di vista della norma antielusiva generale, specie considerando che le norme specifiche, in quanto rigide, possono essere agevolmente oggetto di aggiramento.

Appare opportuno, conseguentemente, analizzare, in via generale, gli istituti dell’elusione fiscale, disciplinata dall’art. 37-bis del d.P.R. n. 600 e dell’abuso del diritto.

3.1. L’elusione fiscale

Nell’ordinamento tributario italiano, come noto, non esiste una disposizione antielusiva generale che disponga l’inopponibilità al fisco di tutte le operazioni di natura elusiva.

L’art. 37-bis del d.P.R. n. 600, pur non predisponendo una disciplina analitica delle fattispecie interessate, limita il proprio ambito di applicazione alle situazioni tipiche individuate, puntualmente, dal terzo comma, che subordina l’operatività della disposizione, in primo luogo, alla circostanza che il presunto risparmio d’imposta indebito sia stato realizzato mediante una o più delle seguenti operazioni: i)trasformazioni, fusioni, scissioni, liquidazioni volontarie e distribuzioni ai soci di somme prelevate da voci del patrimonio netto diverse da quelle formate con utili; ii) conferimenti in società (di beni o diritti), nonché negozi aventi ad oggetto il trasferimento (a titolo oneroso o gratuito) o il godimento di aziende o complessi aziendali (e.g., affitto di azienda o usufrutto); iii) cessioni di crediti; iv) cessioni di eccedenze d’imposta; v) fusioni, scissioni, conferimenti d’attivo e scambi di azioni intracomunitari ex D.Lgs. n. 544 del 1992, nonché trasferimento della residenza fiscale all’estero da parte di una società; vi) operazioni, da chiunque effettuate, incluse le valutazioni e le classificazioni di bilancio, aventi a oggetto i beni e i rapporti di cui all’art. 67, comma 1, lett. c)-quinquies , del Tuir (e.g., cessioni a titolo oneroso di partecipazioni, valori mobiliari, valute estere, etc.); vii) cessioni di beni e prestazioni di servizi effettuate tra i soggetti ammessi al regime del consolidato fiscale nazionale (art. 117 e ss. del TUIR); viii) pagamenti di interessi e canoni in regime di esenzione da ritenuta ex art. 26-quater del d.P.R. n. 600, qualora detti pagamenti siano effettuati a soggetti controllati, direttamente o indirettamente, da uno o più soggetti non residenti in uno Stato UE; ix) pattuizioni intercorse tra società controllate e collegate, una delle quali abbia sede legale in un paradiso fiscale, aventi ad oggetto il pagamento di somme a titolo di clausola penale, multa, caparra confirmatoria o penitenziale.

Ai sensi dei primi due commi dell’art. 37-bis cit., in applicazione dell’istituto dell’elusione sopra descritto in via generale, “Sono inopponibili all’Amministrazione finanziaria gli atti, fatti e negozi, anche tra loro collegati” che siano:

i. privi di valide ragioni economiche;

ii. diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento;

iii. volti ad ottenere risparmi di imposta o rimborsi, altrimenti indebiti[27].

Perché si possa avere una fattispecie elusiva è necessario che tali condizioni sussistano congiuntamente.

Presupposto imprescindibile per siffatta contestazione antielusiva è l’esistenza di un risparmio d’imposta per il contribuente, ovvero di un carico fiscale inferiore rispetto a quello che sarebbe conseguito dall’attuazione degli atti qualificabili come “fisiologici”. In altri termini, dalla concatenazione anomala e inconsueta di negozi giuridici, concretamente posta in essere dal contribuente (fattispecie elusiva), deve conseguire, per quest’ultimo, un livello d’imposizione complessivamente inferiore a quello cui sarebbe incorso il soggetto passivo del tributo nell’ipotesi di adozione della soluzione o concatenazione “tipica” o “normale” (fattispecie elusa). In assenza di tale condizione, mancherebbe, del resto, il fine o vantaggio che il contribuente avrebbe inteso perseguire con il proprio comportamento[28].

3.2. L’abuso del diritto

Come premesso, l’operatività dell’art. 37-bis del d.P.R. n. 600 è subordinata alla circostanza che il presunto risparmio d’imposta indebito sia stato realizzato mediante almeno una delle operazioni tassativamente elencate[29]. La questione della tassatività di tali ipotesi, tuttavia, ha perso d’interesse a fronte degli ultimi approdi della giurisprudenza di legittimità, la quale, dal 2008, ha progressivamente consolidato il proprio orientamento circa la facoltà, per l’Amministrazione finanziaria, di invocare, tutte le volte in cui l’art. 37-biscit. non trovi applicazione, la cd. “clausola generale antiabuso”. La Corte di Cassazione[30], infatti, ha ritenuto immanente al nostro ordinamento (tributario), in quanto applicativo dei principi costituzionali di capacità contributiva e progressività dell’imposizione (art. 53 Cost.), un principio generale anti-abuso, in forza del quale sono inefficaci nei confronti dell’Amministrazione finanziaria gli atti (o le concatenazioni di atti), adottati servendosi in modo improprio degli strumenti e degli istituti messi a disposizione dall’ordinamento giuridico, per conseguire un vantaggio fiscale, ma in assenza di valide ragioni economiche. Il divieto di abuso del diritto è, infatti, “il principio secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale” (Cass., SS.UU., sentenza n. 30055/2008).

I concetti di elusione e abuso del diritto sono, analoghi o, comunque, compatibili[31], perché accomunati dalla finalità di arginare l’utilizzo distorto delle norme fiscali, in contrasto con lo spirito delle norme stesse. Non a caso la recente legge delega 11 marzo 2014, n. 23 (di seguito, la “legge delega”) tende a qualificare il divieto anti-elusivo come species del più ampio genus del divieto di abuso del diritto, il quale ultimo si distingue dal primo unicamente per la portata applicativa generale e per l’assenza, allo stato, di una disciplina positiva.

La materia dovrebbe essere interessata, nel prossimo futuro, da un incisivo intervento riformatore, in conseguenza dell’attuazione dell’art. 5 della legge delega, recante principi e criteri direttivi di“revisione delle vigenti disposizioni antielusive al fine di uniformarle al principio generale dell’abuso del diritto”.

Quanto ai contenuti, la delega definisce l’abuso del diritto in termini conformi a quelli emersi nella giurisprudenza del Supremo Collegio e, dunque, in linea di assoluta continuità con i criteri interpretativi sin qui analizzati. Il legislatore, infatti, nel definire la condotta abusiva come “uso distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta, ancorché tale condotta non sia in contrasto con alcuna specifica disposizione”, utilizza – già sul piano lessicale – espressioni che si pongono in una logica di assoluta continuità con il diritto vivente della Cassazione, autorizzando, dunque, un’interpretazione della norma in commento pienamente conforme a quella consolidatasi.

Il legislatore della delega indica, altresì, taluni criteri definitori del confine tra abuso del diritto e legittimo risparmio d’imposta. In particolare, l’art. 5 cit. prevede che la “causa prevalente” dell’operazione costituisca elemento cruciale di giudizio: è, infatti, abusivo (del diritto) un atto (o una concatenazione di atti) il cui movente primario è rintracciabile nella riduzione del carico fiscale; si ha, invece, legittimo risparmio d’imposta in presenza di “non marginali” ragioni extra-fiscali, con tali intendendo “anche quelle che non producono necessariamente una redditività immediata dell’operazione ma rispondono ad esigenze di natura organizzativa e consistono in un miglioramento strutturale e funzionale dell’azienda del contribuente”.

In altri termini, l’abuso del diritto (e l’elusione) non discendono sic et simpliciter dalla verifica di un risparmio d’imposta, se sussistono valide ragioni economiche dell’operazione, diverse ed ulteriori, nella gerarchia di obiettivi preordinati dal contribuente, rispetto al risparmio fiscale medesimo, che costituisce un mero elemento “accidentale”.

Il legislatore ha inteso valorizzare precipuamente le “esigenze di natura organizzativa”, destinate a consentire “un miglioramento strutturale e funzionale dell’azienda del contribuente”, anche ove “non produc[a]no necessariamente una redditività immediata”.

In definitiva, anche in attesa che il Governo possa dare attuazione alla legge delega, mediante l’emanazione dei relativi decreti delegati[32], l’art. 5 cit. fissa criteri che l’interprete non può trascurare, vista la natura del testo normativo in commento, ampiamente ricognitivo del diritto esistente in materia di abuso/elusione fiscale.

 


[1] Convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214.

[2] In altre parole, rappresentano una più flessibile alternativa ad un “formale” aumento di capitale sottoscritto dai soci, in quanto evitano le formalità e gli oneri legati ad un aumento di capitale.

[3] Inquadrabili, giuridicamente, nell’ambito del contratto di mutuo.

[4] L’art. 2647 del codice civile, introdotto dalla riforma societaria del 2003, ha previsto che i finanziamenti soci sono postergati agli altri debitori sociali.

[5] Stessa collocazione prevista dal principio contabile per i “Versamenti in contro futuro aumento di capitale”.

[6] Con indicazione specifica nella scadenza in Nota Integrativa (art. 2427, n. 19 del codice civile).

[7] Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 66 del 19 marzo 2012.

[8] Il meccanismo di funzionamento, incentrato sulla riportabilità illimitata delle eccedenze di rendimento nozionale, impone l’uso obbligatorio dell’ACE fino a concorrenza del reddito complessivo netto del periodo d’imposta cui si riferisce. Conseguentemente, nei predetti limiti, eventuali quote di ACE non utilizzate non potranno essere riportate nei periodi d’imposta successivi.

[9] L’incremento di capitale proprio cui applicare il rendimento figurativo è determinato, ai sensi dell’articolo 5 del decreto ACE, da: A. “incrementi”: conferimenti in denaro e utili accantonati a riserva, ad esclusione di quelli destinati a riserve non disponibili; B. “decrementi”: riduzioni di patrimonio netto con attribuzione ai soci, a qualsiasi titolo effettuate.La relazione illustrativa al decreto ha precisato, inoltre, che il meccanismo di calcolo dell’agevolazione prevede la somma algebrica degli elementi che concorrono a formare l’incremento di capitale proprio rilevante e cioè “gli accantonamenti di utili e gli apporti in denaro, da un lato (lett. A), e le attribuzioni ai soci, dall’altro (lett. B), senza alcuna rilevanza effettiva del dato concernente il capitale proprio esistente alla chiusura dell’esercizio in corso al 31 dicembre 2010”.

[10] Vale a dire dall’inizio del periodo d’imposta nel corso del quale l’assemblea delibera di destinare, in tutto o in parte, a riserva l’utile di esercizio. Inoltre, mentre i conferimenti in denaro assumono rilievo dal momento dell’effettivo versamento, gli accantonamenti di utili, come precisato nella relazione illustrativa, assumono rilievo dall’inizio del periodo d’imposta in cui viene assunta la relativa delibera.

[11] Per espressa previsione della Relazione.

[12] Il decreto, in particolare, ha ristretto l’ambito di vigilanza alle operazioni infragruppo, in quanto si tratta proprio di quelle fattispecie che potrebbero prestarsi al raggiungimento di fini elusivi (quali, ed esempio, capitalizzazioni di comodo) in considerazione della direzione unitaria e della pluralità soggettiva presente all’interno del gruppo. 

[13] Ottenuto tramite l’aggiramento di una norma o un insieme di norme da cui consegua un risultato finale contrario ai principi dell’ordinamento tributario.È bene precisare sin da ora che la qualifica del risparmio di imposta come “indebito” rappresenta l’elemento cruciale distintivo tra l’elusione ed il legittimo risparmio d’imposta; se così non fosse verrebbe meno qualsiasi linea di demarcazione tra il legittimo risparmio d’imposta ed il risparmio indebito, e verrebbe meno la facoltà per il contribuente di effettuare scelte dettate esclusivamente dalla convenienza fiscale.

[14] Come chiarito dalla Circolare n. 12/E, infatti, sterilizzazione del beneficio ACE, di regola, opera sul soggetto conferente che ha operato: “gli investimenti idonei a generare la moltiplicazione del beneficio, conservando la rilevanza dell’apporto in capo alla società ricevente, in coerenza con la posizione di utilizzatrice dell’apporto medesimo e, solo in alcuni casi, direttamente a detrimento degli incrementi di patrimonio netto delle società che ricevono gli apporti”.

[15] Soggetti controllati o sottoposti al controllo del medesimo controllante, ovvero divenuti tali a seguito del conferimento.

[16] Conferimenti in denaro o finanziamenti provenienti da altri soggetti del gruppo.

[17] Come espressamente affermato dall’Agenzia delle Entrate nella Circolare n. 12: (…)la norma antielusiva potrà essere disapplicata – in quanto non si sono potuti verificare gli effetti disapprovati dal legislatore e contrastati con l’articolo 10 del decreto ACE – qualora il contribuente dimostri, in sede di interpello disapplicativo, che l’incremento di capitale proprio ACE non è stato preceduto da un’immissione di denaro che ha aumentato, in precedenza, il capitale proprio di un altro soggetto del gruppo (…)”.

[18] Che consentono lo “scambio d’informazioni”.

[19] I conferimenti in denaro a favore di soggetti esteri del Gruppo, al contrario, non determinano alcuna sterilizzazione del beneficio.

[20] Che non consentono lo scambio d’informazioni.

[21] Che prevedevano l’assoggettamento ad aliquota ridotta del 19% di una parte del reddito, calcolata applicando all’incremento di patrimonio una percentuale stabilita di anno in anno dal Ministero.

[22] Ne deriva, pertanto, che un conferimento proveniente da una società residente in un Paese black list non rileva mai in capo alla società residente anche se i mezzi finanziari utilizzati dalla società non residente per la capitalizzazione della società italiana sono “autogenerati”.

[23] Come affermato dalla stessa Agenzia delle Entrate (cfr. Circolare n. 12/E del 23 maggio 2014), le norme sull’Ace presentano analogie con quelle già previste per la DIT. Secondo l’Agenzia delle Entrate, conseguentemente, sarebbero ancora attuali i chiarimenti forniti in merito alle fattispecie assimilabili per le due discipline di riferimento (in primis, cfr. circolare n. 76/E del 6 marzo 1998 del Ministero delle finanze). La Dit premiava non solo gli aumenti formali di capitale, ma tutti gli apporti in denaro dei soci, come pure l’accumulo di utili non distribuiti (oggi non agevolato).

[24] Rispetto a quelli risultanti dal bilancio relativo all’esercizio in corso al 31 dicembre 2010. lettera e.

[25] Tale assenza di moltiplicazione del beneficio può, anche in questo caso, essere dimostrata mediante istanza di disapplicazione presentata ai sensi dell’ottavo comma dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600.

[26] Che non consentirebbe alle prime di derogare alle seconde.

[27] Dalla formulazione normativa dell’art. 37-bis cit. si desume che la possibilità conferita all’Amministrazione finanziaria di disconoscere eventuali vantaggi tributari per operazioni ritenute elusive non pregiudica gli effetti civilistici di dette operazioni, qualora esse siano reali e non simulate.

[28] Risulterebbe nullo qualsivoglia recupero fiscale, tenuto conto che l’art. 37-bis. cit. prevede expressis verbis il disconoscimento dei “vantaggi tributari”, ove esistenti, mediante riconduzione del trattamento fiscale dell’operazione elusiva a quello previsto per la fattispecie elusa, sul presupposto dell’esistenza di un differenziale d’imposta non nullo o, comunque, positivo.

[29] L’elencazione è stata ritenuta tassativa dalla giurisprudenza di merito (cfr. CTR Venezia, 20 settembre 2007 – 18 ottobre 2007, n. 32; CTP Milano, 7 aprile 2009, n. 118), a fronte di una posizione non uniforme in sede dottrinale.

[30] Cfr., ex plurimis, Cass., Sez. tributaria, n. 21221/2006; Cass., Sez. tributaria, n. 8772/2008; Cass., Sez. tributaria, n. 10257/2008; Cass., Sez. tributaria, n. 23633/2008; Cass., Sez. tributaria, n. 27646/2008; Cass., Sez. tributaria, n. 25374/2008; Cass., SS.UU., nn. 30055/2008, 30056/2008 e 30057/2008; Cass., Sez. tributaria, n. 1465/2009; Cass., Sez. tributaria, n. 12042/2009; Cass., SS.UU., n. 15029/2009; Cass., n. 26723/2011, Cass., n. 7739/2012.

[31] Capo L. (2010), Abuso del diritto: il contratto inopponibile all’Erario, in “Obbligazioni e Contratti”, n. 7/2010; Deotto D., Gli inutili particolarismi dell’abuso del diritto, in Corriere Tributario n. 39/2012.

[32] A ben vedere, a dicembre il Consiglio dei Ministri ha approvato una prima bozza di decreto legislativo (attuativo delle disposizioni ex art. 5 della legge delega), recante, oltre a previsioni confermative del diritto esistente, talune novità pro-contribuente, che sembrerebbero, prima facie (e salvo possibili modifiche nel successivo iter parlamentare), rafforzare le conclusioni del presente parere. Il Governo ha dichiarato, però, di voler ritirare il testo di dicembre, modificando alcune disposizioni aspramente criticate dai primi commentatori, tuttavia riferite – sembrerebbe – ad ambiti diversi da quello della regolazione dell’elusione/abuso del diritto.

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