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Editoriali

La strada stretta della flat tax

18 Giugno 2018

Alessandro Giovannini

Professore ordinario di diritto tributario, Università degli studi di Siena

Di cosa si parla in questo articolo

In linea di principio, nessuno si può dire contrario alla riduzione delle imposte. La flat tax o tassa piatta, ripresa nel contratto di governo, vuole andare, proprio, in questa direzione. Cos’è, anzitutto? È una forma di tassazione del reddito ad aliquota costante e molto bassa (15, 20 o 25 per cento), resa lievemente progressiva da una deduzione universale alla base. Il funzionamento è semplice: stabilita l’esenzione a 10, un reddito complessivo di 500 sconterebbe l’imposta su 490; di 1000 su 990; un reddito di 2000 su 1990 e così via. Su 490, 990, su 1990, poi, si applicherebbe sempre la stessa aliquota, poniamo del 25 per cento. Affiancando l’esenzione all’aliquota fissa, l’imposta diventerebbe lievemente progressiva.

Il primo ordine di problemi che solleva questa forma di tassazione è concreto. Per struttura e moderazione dell’aliquota, essa determina una forte riduzione delle entrate, nell’immediato difficilmente sopportabile per fronteggiare la gigantesca montagna di spesa pubblica. Tant’è che, di fronte a questa certezza, le exit strategy indicatesono molte. Si propone, ad esempio, la vendita dei gioielli di famiglia o la concessione di condoni, la cui resa finanziaria, però, è difficilmente misurabile con l’attendibilità richiesta dalle regole sul bilancio dello stato, le quali vogliono che le coperture delle spese siano certe e strutturali, non una tantum, come sarebbero quelle della vendita dei gioielli e dei condoni. Oppure si propone di ridurre il sistema di assistenza, specialmente sanitario, o di eliminare detrazioni, agevolazioni, deduzioni e altre forme di riduzione della base imponibile. Per fare un esempio, se oggi un’aliquota media del 30 per cento si applica su 1000 di reddito, domani potremmo avereun’aliquota del 20, ma applicata su una base di 1500. Oppure e ancora, si propone di finanziare l’operazione in deficit, con il conseguente aumento del debito, contando su un successivo innalzamento del PIL. Ma anche questa soluzione, senza specifiche deroghe, non è percorribile per le regole dei Trattati U.E. perché aleatoria.

Si osserva che la flat tax èin grado di incoraggiare l’emersione del sommerso. Diventerebbe, in sostanza, uno strumento di contrasto all’evasione perché renderebbe sconveniente sottrarsi all’obbligo contributivo. Si autofinanzierebbe, per dirlo in parole semplici. Può darsi che le cose vadano in questa direzione, ma non è affatto sicuro perché l’emersione del sommerso dipende da molti fattori e l’entità dell’aliquota è soltanto uno di questi. Senz’altro importante, ma non decisivo, come dimostrano recenti studi economici. Chi oggi evade con l’aliquota media del 24 per cento – gli imprenditori e il 50 per cento dei contribuenti totali dichiarano un reddito medio lordo di 20 mila euro, al quale corrisponde l’aliquota indicata – perché dovrebbe diventare un contribuente modello con l’aliquota fissa al 20?

Se il nostro ipotetico contribuente-evasore dichiarasse tutto o parte del reddito finora occultato, potrebbe finire, a parità di ogni altra condizione, per sopportare lo stesso carico impositivo di oggi: aliquota più lieve, ma maggior reddito dichiarato. Se a questo si dovesse aggiungere l’eliminazione delle detrazioni e deduzioni, la rimessa si potrebbe dare per certa. Del resto, fino a quando la percentuale dei controlli rimarrà da prefisso telefonico, neanche le sanzioni, pure se minacciate come misure severissime di privazione della libertà, sarebbero in grado di persuadere al virtuosismo. L’evasione, anche per questo motivo e pure con la flat tax, potrebbe continuare ad essere un’autentica leccornìa, anzi una leccornìa che si aggiunge a quella assicurata dalla flat tax.

L’altro ordine di problemi che solleva la tassa piatta è costituzionale, problemi davanti ai quali non si può fare spallucce.

Muoviamo dalla questione sulla progressività della tassa in sé, sulla quale si è finora concentrata, sbagliando, l’attenzione.

Rimane essenziale, per me, la definizione che nel 1934 dette Antonio De Viti De Marco della forma di progressività – progressività per deduzione alla base – alla quale si ispira la flat tax: questa forma di progressività, dimostrò,è degressiva perché opera per “sottrazione”, decresce progressivamente ed è tanto più lieve quanto più alto è il reddito, fino ad arrivare ad un punto in cui si arresta, svanisce.

Riprendo l’esempio formulato all’inizio e chiedo un atto di fede nei numeri che seguono: nella prima ipotesi – reddito complessivo di 500 e imposta su 490 – l’aliquota, ipotizzata al 25 per cento, arriverebbe al 24,5; nella seconda ipotesi – reddito complessivo di 1000 e imposta su 990 – l’aliquota sarebbe del 24,75; nella terza ipotesi – reddito di 2000 e tassazione su 1990 – l’aliquota si fermerebbe al 24,87 per cento. Immaginiamo di proseguire nell’ascesa del reddito e della base imponibile con un reddito di 3000 e un’imposta calcolata su 2990, eun reddito di 4000 e un’imposta su 3990. Avremo, rispettivamente, le aliquote del 24,91 e del 24,93. Tra 500 e 1000 l’imposta cresce dello 0,25 per cento; tra 1000 e 2000 dello 0,12; tra 2000 e 3000 dello 0,04; tra 3000 e 4000 solo dello 0,02. E poi, se proseguissimo nella dimostrazione numerica, arriveremmo a un incremento pari a zero, ossia a un non incremento.

La tassa piatta, dunque, è progressiva, perché l’aliquota da costante si trasforma in variabile ed aumenta all’aumentare dell’imponibile, ma la sua variabilità sale con forza sempre minore, si piega su se stessa, fino al raggiungimento di una soglia oltre la quale si ferma. Tra un intervallo e l’altro – anche se l’intervallo è solo ideale – non cresce più che proporzionalmente, ma la sua crescita è decrescente rispetto alla crescita dell’intervallo precedente. La sua crescita, cioè, non è costante.

La questione costituzionale, allora, se analizzata solo in relazione alla flat tax, non riguarda tanto la sua progressività, quanto il rispetto dell’uguaglianza sostanziale in senso verticale. A questo tipo di uguaglianza probabilmente non basta che “chi più ha” paghi solo “un po’ di più”, non basta una qualsiasi forma di progressività. Vuole, forse, che la progressività non decresca tra gli intervalli, ma cresca anche qui, e lo faccia, appunto, più che proporzionalmente, magari costantemente o linearmente, ma comunque in misura più che proporzionale.

La questione costituzionale della progressività prende una diversa piega, invece, se riportata al sistema considerato nella sua totalità.

Il punto, per la Costituzione, non è se una singola imposta sia progressiva, ma se lo sia il sistema. Il nocciolo del problema, allora, diventa questo: una progressività degressiva di entità lievissima, per come descritta finora, è in grado di garantire la progressività dell’intero sistema o almeno di non peggiorare la situazione attuale?

Il sistema, oggi, è tutto incentrato, al di là dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, su tributi in misura fissa o con aliquote costanti, alcuni dei quali, però, regressivi in ragione della loro struttura, com’è l’IVA, che da sola vale quasi un terzo delle entrate tributarie, circa 130 miliardi. Con l’innesto della flat tax, il sistema rischierebbe di trasformarsi in regressivo.

Certo, l’attuale ordinamento, nei fatti, è proporzionale o tutt’al più lievemente progressivo e quindi anch’esso scarsamente conforme al principio costituzionale. Però, delle due, l’una: o si potenzia la progressività, come in una considerazione sostanzialistica e non leguleia è doveroso auspicare per il rispetto dovuto alla Carta; oppure si confessa chiaramente di volerla uccidere una volta per tutte. Ma non si può pensare di utilizzare un albero per sua natura storto – la flat tax – per raddrizzare l’intera foresta. Due storture si sommano, non si annullano.

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