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Editoriali

La web tax divide il mondo: il G7 prova a ricucire

2 Settembre 2019

Alessandro Giovannini

Professore ordinario di diritto tributario, Università degli studi di Siena

Di cosa si parla in questo articolo

Al recente G7 di Biarritz, in Francia, si è parlato di web tax, ossia di tassazione delle grandi imprese del web: Google, Facebook, Apple, Amazon e molte altre. L’incontro ha anzitutto impresso un’accelerazione ai lavori dell’OCSE, in seno al quale da tempo si discute di una piattaforma normativa comune ai paesi aderenti. A Biarritz i sette grandi hanno infatti confermato le decisioni già prese a Osaka, in Giappone, all’ultimo G20, dove si fissò la conclusione di quei lavori al 2020. Vi è però da dire che, al di là dei princìpi solennemente enunciati dai capi di stato e di governo, il lavorio delle diplomazie non ha ancora portato a risultati generalmente condivisi. Il contrasto principale continua ad affondare le sue radici nell’individuazione del paese legittimato a tassare: da un lato si pongono alcuni Stati europei – Spagna, Francia, Italia – che ritengono di dover privilegiare il luogo in cui le “ricchezze” nascono, dall’altro quelli che lo individuano nello stato dove le company hanno sede, con capofila gli Stati Uniti d’America. La web tax, insomma, continua a dividere il mondo.

Il boccino, ancora oggi, è tenuto saldamente in mano dagli Stati Uniti, che nei fatti rallentano l’adozione di una soluzione stabile per strappare, così, più vantaggi possibili: “America first”. Che questo sia il loro spirito è testimoniato dalla guerra dei nervi recentemente dichiarata alla Francia. Alla scelta dei nostri cugini d’oltralpe, consacrata in una legge del luglio scorso, di colpire i ricavi delle multinazionali dell’economia digitale con un’imposta del 3 per cento, gli USA hanno immediatamente risposto con la minaccia di restringere le importazioni di vino e champagne.

Il G7 è venuto in soccorso: Trump e Macron si sono stretti la mano, ponendo bensì fine alle ostilità, ma alle condizioni dettate dal primo. Questi ha rinunciato ai dazi solo perché l’altro si è impegnato ad abrogare la legge nazionale quando l’OCSE avrà approvato la convenzione e a rimborsare alle multinazionali americane la differenza tra il 3 per cento e l’imposta determinata coi criteri convenzionali.

Ora, spogliando il discorso dai tecnicismi, la vicenda sulla web tax offre il destro a due riflessioni. La prima è questa. La costante e profonda erosione del potere normativo dei singoli paesi a favore di una regolamentazione globale incide specialmente sulla sovranità di quelli più piccoli, con minore forza economica e politica. Gli stati economicamente e politicamente forti subiranno, paradossalmente, conseguenze di segno opposto, rafforzandosi ulteriormente: la globalizzazione delle politiche fiscali consegnerà loro la vera conduzione delle danze anche per determinare le scelte interne degli altri stati. E la mediazione degli organismi internazionali sarà in grado di bilanciare questa influenza solo marginalmente, stante sia i loro meccanismi operativi, sia la potenza di fuoco che quei paesi sono in grado di esercitare sulle economie reali.

Si avvera, ancora una volta, l’iconica rappresentazione utilizzata da Winston Churchill per spiegare i rapporti fra i grandi stati del mondo e i piccoli stati della vecchia Europa: davanti al bisonte, gli Stati Uniti, e all’orso, la Russia, noi siamo degli asinelli. Per non continuare a ragliare, la strada della piena integrazione europea rimane la sola seriamente percorribile. Uniti potremo forse assumere le sembianze, almeno, di un toro.

La seconda riflessione attiene all’irrilevanza dell’Italia. Non sembri un’affermazione irriguardosa o frutto di cinismo speculativo. Il fatto è che il nostro paese, pur avendo già la sua web tax e pur avendola introdotta prima della Francia, non ha avuto spazio, né lasciato traccia nella discussione.

Nel 2017 e nel 2018 il Parlamento approvò due leggi con le quali disciplinò la tassazione dei giganti del web. L’ultima, la n. 145 del 2018, abrogativa della precedente, prevede l’applicazione di un’imposta del 3 per cento sui ricavi ottenuti dalla prestazione di servizi resi con interfaccia digitale, e precisamente su quelli conseguiti: a) con la veicolazione di pubblicità mirata agli utenti dell’interfaccia; b) con la messa a disposizione di interfaccia digitali multilaterali che consentano agli utenti di interagire tra loro, anche al fine di facilitare la fornitura diretta di beni e servizi; c) con la trasmissione di dati raccolti da utenti, generatisi tramite l’utilizzo dell’interfaccia digitale.

La legge, pur formalmente in vigore, non ha mai trovato applicazione. Il motivo è semplice: i regolamenti attuativi non sono stati adottati. Intendiamoci, la negligenza dell’apparato amministrativo non c’entra. La scelta di mettere la legge sotto naftalina è politica. Strappate le prime pagine di qualche quotidiano e i titoli d’apertura dei telegiornali, nessun governo ha mai creduto seriamente di darle attuazione senza che gli altri paesi europei e la stessa Unione avessero prima approvato uno schema comune di imposizione.

Il re fisco è nudo, ancora una volta.

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