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Editoriali

Le Sezioni Unite e “le nullità selettive” nell’ambito della prestazione di servizi di investimento. Qualche notazione problematica

4 Dicembre 2019

Giuseppe Guizzi

Professore ordinario di diritto commerciale, Università di Napoli “Federico II”

Di cosa si parla in questo articolo

1. La pronuncia del 4 novembre 2019 n. 28314 con cui le Sezioni Unite danno finalmente risposta all’interrogativo concernente i limiti entro cui – previo accertamento della nullità del contratto quadro per la prestazione dei servizi di investimento per mancanza della forma scritta imposta dall’art. 23 TUF – è possibile per l’investitore agire nei confronti dell’intermediario al fine di ottenere la declaratoria di nullità solo di alcuni, e non tutti, gli ordini di acquisto o sottoscrizione di strumenti e prodotti finanziari eseguiti a valere su tale rapporto, e più in generale solo di alcuni atti con cui siano state disposte operazioni di investimento, offre molti spunti alla riflessione.

La soluzione accolta dalla Corte costituisce espressione di quella sempre più diffusa tendenza – per usare le parole Natalino Irti – a «spostare i criteri della decisione giudiziaria al di sopra della legge». La soluzione del problema dei limiti al potere di iniziativa dell’investitore, e di converso della tipologia delle eccezioni opponibili dall’intermediario, non viene, infatti, ritrovata all’interno della disciplina che pure sarebbe coerente alla fattispecie della nullità contrattuale, ancorché declinata nella sua più eccentrica e frammentata figura della nullità di protezione. Essa si fonda, piuttosto, sui «principi di solidarietà e uguaglianza sostanziale, di derivazione costituzionale» – così si esprime la Suprema Corte – i quali vengono chiamati ad operare «in funzione di riequilibrio effettivo endocontrattuale quando l’azione di nullità, utilizzata, come nella specie, in forma selettiva, determini esclusivamente un sacrificio economico sproporzionato nell’altra parte».

Di qui, dunque, l’idea della sentenza che se il cliente ha certamente la legittimazione esclusiva – proprio perché la nullità contrattuale ha funzione protettiva della sua sfera giuridica – a selezionare tra i diversi investimenti compiuti a valere sul contratto quadro solo quelli pregiudizievoli per farli dichiarare (secondo una logica che viene ricondotta tradizionalmente alla nullità derivata) tamquam non essent, pur tuttavia, appunto in ossequio ai principi sopra richiamati, l’intermediario può vantare «un’eccezione qualificabile come di buona  fede idonea a paralizzare gli effetti restitutori dell’azione di nullità selettiva». Un’eccezione opponibile nei «limiti del petitumazionato, come conseguenza dell’azione di nullità, ove gli investimenti, relativi agli ordini non coinvolti dall’azione, abbiano prodotto vantaggi economici per l’investitore».

Il ricorso alla tecnica di decisione fondata sui principi rappresenta, oramai, lo strumento di elezione cui ricorre la giurisprudenza per trovare una composizione tra le ragioni contrapposte delle parti e che non sarebbe possibile, invece, realizzare con una soluzione adottata secondo la tecnica della fattispecie, la cui rigidità è quanto spiega, allora, il dibattito sulla sua crisi e sulla crisi del modello del giudizio sussuntivo. Ma pure ove si intenda privilegiare la logica dei principi rispetto a quella della fattispecie – nella convinzione, come scriveva del resto anche Balzac, che compito del giudice sia «adeguare i principi ai fatti», perché altrimenti non è possibile «giudicare specie che variano all’infinito» – è tuttavia indispensabile che la ricognizione dei primi avvenga in maniera coerente e rigorosa, e poi soprattutto che i secondi, a cui quei principi si devono adeguare, siano correttamente rilevati. Ebbene, pur nella necessaria e inevitabile approssimazione di un brevissimo scritto che non ha nemmeno l’ambizione di essere un primo commento, ma vuole costituire mera segnalazione di un’attesa e indiscutibilmente importante pronuncia, mi sembra che sia proprio sotto questi due profili che il ragionamento svolto dalla Corte possa dare adito a più di un dubbio e di una perplessità.

2. In primo luogo ci si può chiedere se sia davvero corretto evocare il principio di buona fede, e il suo (ritenuto) ancoraggio costituzionale, nella dimensione di regola di condotta che governa l’esecuzione del contratto. Anche ammesso – il che, com’è noto, è tuttora controverso – che la regola di buona fede possa essere davvero utilizzata come meccanismo di riequilibrio delle posizioni delle parti contrattuali, viene da chiedersi se abbia senso evocarne l’applicazione in una vicenda che in realtà con il contratto non ha a che fare, dal momento che la premessa di tutto il discorso è che un rapporto contrattuale non vi è più – ed anzi non vi è mai stato, appunto perché esso non è stato validamente concluso – e dove semmai si tratta di disciplinare l’esercizio di pretese di natura restitutoria del capitale impiegato sine titulo dall’intermediario nelle singole operazioni di investimento.

Ma soprattutto alla luce della lettura della sentenza viene da chiedersi se prima ancora dei principi, sia stato correttamente rilevato il fatto a cui gli stessi vengono applicati. Quel che intendo dire è che la ricostruzione della Corte mi sembra muovere da una percezione non chiarissima del tipo di relazione che si instaura tra cliente e intermediario e che il contratto quadro, poi dichiarato nullo, dovrebbe disciplinare.

Prospettare la questione sottolineando, come fa la Corte, la necessità di un «riequilibro endocontrattuale» e l’esigenza di evitare che l’intermediario possa essere costretto a subire un «pregiudizio economico ingiustificato», e impostarne poi la soluzione sulla base della verifica di quale sia il saldo complessivo tra investimenti selettivamente impugnati, di cui viene chiesta “la nullità”, e investimenti che il cliente non ha inteso mettere in discussione, per concludere che il cliente, ove l’intermediario sollevi la relativa eccezione, non possa ottenere in nessun caso più della differenza tra le perdite derivanti dai primi e i guadagni ottenuti dai secondi, significa accedere a una impostazione quanto meno fuorviante. Essa finisce, infatti, per assimilare la posizione di cliente e intermediario a quelle di parti contrapposte di un tipico contratto di scambio, dove la neutralizzazione degli spostamenti patrimoniali eseguiti in base al titolo dichiarato nullo si realizza attraverso reciproche partite di dare e avere, allora anche in tutto o in parte compensabili e suscettibili di essere definite tramite il pagamento di un saldo.

3. Gli è però che la natura del rapporto quadro è diversa, e più complessa. Il contratto quadro, concluso tra il cliente e l’intermediario, ossia il contratto che legittima il primo ad impartire ordini di investimento al secondo e che appunto questi si obbliga ad eseguire, è un contratto di valore essenzialmente programmatico, riconducibile, nella parte in cui demanda all’intermediario di eseguire le singole operazioni di investimento di volta in volta indicate dal cliente, allo schema del mandato. Si tratta, insomma, di un contratto con il quale il cliente si assicura la cooperazione dell’intermediario per l’esecuzione di proprie future operazioni di investimento: in questo senso, pertanto, i singoli ordini rappresentano atti (non si può qui approfondire la questione se anch’essi negoziali – come sostiene la Cassazione – o no – come a me sembra preferibile) che servonoa specificare la prestazione di cooperazione, essenzialmente indeterminata, dovuta dall’intermediario, stabilendo di volta in volta l‘operazione per il cui compimento si ricorre alla sua attività. Operazioni di acquisto o sottoscrizione di strumenti finanziari che l’intermediario esegue, allora, per conto del cliente, seppure in nome proprio, e di cui nella maggioranza dei casi – ossia almeno tutte le volte che l’investimento non riguardi strumenti di propria emissione – non è nemmeno diretta controparte .

Se si muove da questa prospettiva, mi sembra, allora, evidente che la risposta all’interrogativo sul se sia possibile, e come, all’intermediario paralizzare la pretesa del cliente che, una volta dichiarata la nullità del contratto quadro per mancanza della forma scritta (ma il discorso non dovrebbe cambiare neppure se si versasse in ipotesi di mancanza del contratto), contesti selettivamente solo alcuni e non tutti gli ordini di investimento, non debba essere cercata attingendo ai principi della buona fede come strumento di riequilibrio dei contratti di scambio, bensì vagliata alla luce dei principi che attengono alla disciplina del mandato e alla sua esecuzione.

Collocandosi all’interno di tale diverso contesto, la soluzione del problema riguardante il prospettato carattere abusivo delle iniziative del cliente volte a contestare selettivamente solo alcuni degli ordini di investimento dovrebbe essere impostato su differenti basi. Se è vero, infatti, che in via di principio alla nullità del contratto di mandato dovrebbe conseguire che tutti gli atti eseguiti dal mandatario in nome proprio restano a carico di quest’ultimo –l’assenza di un valido mandato impedisce che si realizzi l’automatico effetto acquisitivo degli strumenti finanziari in capo al cliente mandante ex art. 1706 c.c. – vero è anche che ogni attività eseguita dall’intermediario al di là dei limiti di mandato, e dunque pure in assenza dello stesso, può pur sempre formare oggetto di ratifica dal parte del cliente, e che una ratifica si può esprimere anche per fatti concludenti, e anzi persino tacitamente ex 1712 c.c. in caso di comunicazione di eseguito mandato. Movendo lungo questa direttrice la possibilità di tacciare come abusiva la selezione solo di alcuni ordini di investimento finisce, allora, obiettivamente per scolorare. Gli è, infatti, che nella prospettiva descritta la decisione di agire in giudizio contestando solo alcuni ordini sull’insieme di quelli eseguiti ben potrebbe essere obiettivamente valutata come una scelta consapevole del cliente e che riposa sulla preventiva, tacita, ratifica di tutti quelli non impugnati.

Certo, anche se si imposta il ragionamento secondo questa linea ricostruttiva resta pur sempre aperto lo spazio per il rilievo di un possibile comportamento abusivo del cliente. In assenza di un contratto quadro, ovvero in presenza di un contratto nullo per mancato rispetto della forma scritta, quest’ultimo finirebbe, infatti, – pure davanti a investimenti in via di principio tutti destinati, per le ragioni indicate, a rimanere a carico dell’intermediario – per avere la possibilità di compiere le sue determinazioni ex post, alla luce del loro esito effettivo, così ratificando, attraverso la scelta di non contestarli, solo quelli redditizi e scartando, con la successiva contestazione, quelli produttivi di perdite. E tuttavia dinanzi a una simile eventualità, il rischio di un comportamento scopertamente opportunistico può essere almeno contenuto (se non anche del tutto neutralizzato) senza dover scomodare la buona fede – che in assenza di un contratto, e comunque di un rapporto obbligatorio validamente costituito, mi sembra regola che è difficile chiamare a operare – ma semmai interpretando il comportamento tenuto dal cliente, nel tempo, in relazione all’investimento poi impugnato.

Insomma, quel che intendo dire è che soprattutto nei casi in cui gli investimenti poi contestati siano stati eseguiti anni prima dell’introduzione del giudizio con cui si è fatta valere la nullità del contratto quadro, al fine poi di denunciare selettivamente l’inidoneità solo di quelli che hanno avuto incidenza negativa sulla sua sfera patrimoniale – e a maggior ragione quando il cliente nel corso del rapporto abbia eventualmente anche beneficiato di proventi dall’investimento, solo successivamente contestato perché produttivo nel complesso di un esito insoddisfacente – non vedrei obiettivamente problemi a ritenere che un simile comportamento, in quanto protratto nel tempo, possa essere valutato come una ratifica anche di questi ultimi. Sicché l’eccezione che l’intermediario in tale evenienza è abilitato a sollevare si configura, più semplicemente, come eccezione di avvenuta ratifica da parte del cliente dell’ordine eseguito dall’intermediario appunto ai sensi dell’art. 1712 c.c., senza dover, allora, ipotizzare l’esistenza di «un’eccezione di buona fede», derivandola da incerti e perigliosi fondamenti costituzionali.

4. Indipendentemente dalle considerazioni che si sono sopra svolte – inevitabilmente rapide, considerata la funzione del presente scritto, e di cui ci si riserva semmai un più ampio sviluppo in altra sede – che investono a monte l’impostazione stessa del problema, vale la pena di segnalare come, anche per chi volesse collocarsi nel solco tracciato dalla Suprema Corte, la risposta al quesito dei limiti entro cui l’intermediario può paralizzare la pretesa resta fonte di non poche criticità da un punto di vista applicativo.

Tra i tanti problemi di ordine sostanziale e processuale che l’applicazione della regola delineata dalla Corte potrà suscitare, il più rilevante mi sembra essere rappresentato non solo dall’individuazione degli investimenti non contestati, i cui esiti dovranno essere posti a confronto con quelli selettivamente disconosciuti, ma anche del modo in cui si dovrà procedere alla verifica del risultato economico dei primi.

Quel che intendo, in particolare, sottolineare è che la regola dettata dalla Corte può risultare in concreto di assai difficile applicazione, non appena si ponga mente, in primo luogo, alla circostanza che – come nota anche la sentenza in un passaggio della motivazione –  il rapporto per la prestazione di servizi di investimento può essersi protratto, seppure in fatto attesa la nullità del contratto quadro, su base pluriennale, e talora per un arco di tempo che può arrivare persino ai limiti del decennio (che dovrebbe rappresentare il termine di prescrizione delle azioni volte ad ottenere la restituzione del capitale impiegato negli investimenti disconosciuti); il che può rendere, di conseguenza, assai articolata la ricostruzione dei “rendimenti” degli investimenti non contestati, la quale risulterà per vero tanto più complessa quanto più elevato sarà stato il grado di movimentazione di quel portafoglio. Ma soprattutto la complessità dell’accertamento è alimentata dalla stessa difficoltà che si presenta nel definire quali siano davvero gli “esiti” per gli investimenti che, alla data del giudizio, siano ancora in essere, e poi come debba conteggiarsi, nell’ambito della predetta valutazione comparativa tra esiti degli investimenti contestati e investimenti non disconosciuti, il valore degli strumenti il cui ordine di acquisto non è stato impugnato e che il cliente conserva ancora in portafoglio, di tal ché il risultato dell’operazione non risulta ancora definito.

Il problema si può porre già per gli strumenti che pure siano quotati su mercati regolamentati, e per i quali esiste almeno un termine oggettivo di valutazione: in questo caso il valore da detrarre si determina sulla base del prezzo di mercato alla data della domanda o alla data dell’eccezione? E quid iuris se poi alla data della sentenza si sia avuto un aumento o una perdita di valore, sempre in termini di prezzo di quotazione, rispetto all’investimento in questione?

Ma il problema è ancora più accentuato ove si tratti di strumenti finanziari che non siano quotati su mercati regolamentati, e che si presentino addirittura come illiquidi, e pur tuttavia l’emittente è ancora in bonis, non versando in alcuna situazione di crisi o di insolvenza. In questi casi, se lo strumento è di tipo azionario, quale sarà il valore da detrarre: il valore del capitale investito o piuttosto il valore risultante sulla base del patrimonio netto contabile? e poi a quale data? Se lo strumento è, invece, obbligazionario: sarà consentito tenere conto del valore nominale, ipotizzandolo come quello che sarà rimborsato alla scadenza, oppure tale valore dovrà essere in qualche modo attualizzato, anche al fine di scontare l’incertezza su quale sarà in futuro l’andamento dell’attività dell’emittente? Così ancora, ove l’obbligazione venga a scadenza nel futuro, si potrà tenere o no conto delle cedole che sono destinate ancora a maturare?

Problemi applicativi, come ognun vede, di tutt’altro che secondario rilievo e che dimostrano come la questione delle “nullità selettive” – per usare la formula oramai invalsa nell’uso – è tutt’altro che risolta.

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