Massima
Un contratto di mutuo fondiario non è nullo per difetto di forma scritta ove ad esso sottostia un contratto di provvista in valuta estera stipulato dalla sola Banca mutuante, essendo nel contratto di mutuo già interamente definiti l’accordo delle parti ed il suo oggetto, a nulla rilevando il rischio di cambio da regolare alla scadenza della rata, che, semplicemente, presuppone l’esistenza dello stesso contratto di provvista.
Inoltre, il principio di specialità soggettiva dell’ipoteca non richiede, tra gli altri, anche la specificazione del contenuto del credito, specie per l’eventualità del rischio di cambio, essendo sufficienti l’indicazione del limite massimo garantito, che non si identifica con l’importo del credito garantito, ed il titolo del credito.
Inoltre, sempre sul rischio di cambio, non può ritenersi violato il principio per cui l’ipoteca vale anche per crediti futuri dipendenti da un rapporto già esistente, ove la relativa clausola di accettazione del rischio sia stata espressamente convenuta e, quindi, essa costituisca un’obbligazione accessoria del contratto di mutuo.
Infine, nel caso di un mutuo fondiario stipulato anteriormente all’entrata in vigore del TUB, gli interessi di mora si applicano sull’intera rata scaduta e, quindi, inclusa anche la parte che rappresenta gli interessi scaduti di ammortamento.
Commento
Il Supremo Collegio torna ad esprimersi in tema di mutuo fondiario, sollecitato da un ricorso nel quale vengono articolano cinque motivi (non tratteremo del quarto, giudicato inammissibile per vizi di formulazione).
Con il primo motivo, la ricorrente si doleva del fatto che la Banca avesse stipulato un contratto di provvista in valuta estera (per potere erogare la somma a mutuo) ed avesse – diciamo così – “scaricato” sulla parte mutuataria il rischio di cambio, da regolarsi alla scadenza della rata semestrale. Considerato che la parte mutuataria non aveva sottoscritto il contratto di provvista, il contratto di mutuo, stipulato nel 1988, sarebbe stato nullo per difetto della forma scritta. La Corte, correttamente, ha ritenuto il motivo infondato. La Corte ha preso le mosse dai principi generali in materia di contratto e, in particolare, ha riscontrato che nel contratto di mutuo erano stati rispettati tutti i requisiti di cui all’art. 1325 cod. civ., specie l’accordo delle parti e l’oggetto. Nessun dubbio sussisteva, infatti, sulla volontà negoziale delle parti, né tantomeno sull’oggetto del contratto, vale a dire la somma da erogarsi a titolo di mutuo e le condizioni economiche stabilite per la sua restituzione. Neppure sul c.d. “rischio di cambio” sussisteva dubbio, perché anch’esso espressamente convenuto. Poco importava, quindi, che nel contratto di mutuo fosse menzionato anche il contratto di provvista, che costituiva appena il presupposto per l’applicazione del rischio di cambio, volta che quest’ultimo era ancorato a parametri oggettivi.
Con il secondo ed il terzo motivo, invece, la ricorrente si doleva del fatto che, in sede di iscrizione ipotecaria, il credito garantito sarebbe risultato “indeterminabile” e non – come avrebbe dovuto essere – esattamente determinato, in quanto gli interessi sarebbero stati determinati soltanto in via provvisoria, dovendo questi calcolarsi secondo un tasso variabile; la provvisorietà, inoltre, sarebbe stata aggravata dal rischio di cambio, pure esso “indeterminabile”. Ciò avrebbe, complessivamente, comportato sia la violazione del principio di specialità di cui all’art. 2809 cod. civ. sia del principio della necessaria dipendenza di eventuali crediti futuri da un rapporto già esistente di cui all’art. 2852 cod. civ..
La Corte ha rigettato, ancora una volta molto correttamente, entrambi i motivi. La Corte compie un ragionamento deduttivo lineare, ripercorrendo la duplice accezione della specialità dell’ipoteca: oggettiva, con il che deve intendersi il bene determinato su cui essa grava, e soggettiva, con il che deve intendersi non – come ritiene la ricorrente, errando – il contenuto del credito garantito (e così anche il rischio di cambio), bensì il fatto che debbano essere precisati “il limite massimo della garanzia” ed “il titolo del credito, cioè la fonte dell’obbligazione cui è riferita la garanzia ipotecaria” (che, nel caso di specie, risultano sufficientemente descritti). In questo senso, la Corte rinvia alla propria giurisprudenza, che qui si riporta: “[…] essa [la specialità soggettiva] è un naturale completamento del principio della determinatezza, che attiene all’individuazione sostanziale del credito garantito e sta a significare che la legge non consente al creditore di estendere il vincolo ipotecario a un credito diverso da quello garantito” (Cass. civ., Sez. I, 06.11.2006, n. 23669). Ma la Corte compie anche un passo ulteriore. E lo compie, nella misura in cui vanno letti, in combinato disposto, questi due passaggi: “[…] entro questo limite [e cioè il limite massimo della garanzia] comprende tutte le obbligazioni, principali ed accessorie, risultanti da un determinato rapporto, anche quelle a carattere non sinallagmatico”; e, poi: “[…] la somma determinata per la quale l’ipoteca è iscritta […] non si identifica affatto con l’importo del credito garantito, dal quale va tenuta distinta”.
Dal che deve dedursi che il limite massimo garantito deve non tanto corrispondere all’importo del credito garantito, quanto, piuttosto, costituire la traduzione numerica (o, se si preferisce, la quantificazione prudenziale) di tutte le obbligazioni, sia quelle principali sia quelle accessorie, assunte dalla parte mutuataria, l’adempimento delle quali viene ad essere adeguatamente presidiato. Conseguentemente, il detto limito massimo, non dovendo coincidere, può anche superare l’importo del credito garantito, senza che ciò integri alcuna violazione della specialità soggettiva.
Quanto, poi, alla presunta violazione dell’art. 2852 cit., la doglianza era priva di qualunque pregio, volta che la corresponsione degli interessi, anche in forza del rischio di cambio, era stata oggetto di un’espressa clausola contrattuale e, per l’effetto, costituiva senz’altro un credito futuro in forza di rapporto già esistente, nel rispetto della suddetta norma.
Con l’ultimo motivo, infine, la ricorrente si doleva del fatto che gli interessi di mora fossero stati calcolati sull’intera rata scaduta e non pagata e, quindi, anche sulla quota degli interessi corrispettivi scaduti, con inammissibile anatocismo. La Corte ha rigettato il motivo sulla scorta della normativa ratione temporis applicabile, e cioè a dirsi l’art. 14 D.P.R. 21 gennaio 1976, n. 7, essendo stato il contratto stipulato e l’ipoteca iscritta nel 1988. Non è questa la sede per affrontare questo annoso tema. Basti osservare (ormai fuori tempo massimo) che, se, nel 1976, il Legislatore, ammetteva l’anatocismo sugli interessi corrispettivi scaduti in materia di mutuo fondiario; se, sempre negli stessi anni, la giurisprudenza della Suprema Corte era granitica nel legittimare l’anatocismo anche nei rapporti di conto corrente, ebbene, ritenere che, nonostante tutto questo, non sussistesse alcuno dei presupposti dell’uso normativo, e che, insomma, tutto si esaurisse soltanto sul piano negoziale, per effetto di uno squilibrio contrattuale e psicologico tra Banca e cliente, ecco, forse, ritenendo ciò, si è avallata una ricostruzione unilaterale e parziale della storia dell’anatocismo in materia di diritto bancario. Ma – come detto – siamo, ormai, fuori tempo massimo.