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Giurisprudenza

Opzione put con esclusione del socio dalle perdite e violazione del divieto di patto leonino

31 Marzo 2021

Federica De Gottardo, Dottoranda in diritto commerciale presso l’Università di Trento, Avvocato in Trento

Tribunale di Milano, 23 luglio 2020 n. 4628 – Pres. Rel. Riva Crugnola

Di cosa si parla in questo articolo

Mediante la sentenza de qua il Tribunale di Milano ha confermato il proprio recente orientamento (v. Trib. Milano 27 marzo 2020, n. 2213) in ordine (i) alla natura transtipica del divieto di patto leonino sancito dall’art. 2265 c.c., tale da essere applicabile anche alle società di capitali e (ii) alla nullità per violazione di tale dell’opzione put a prezzo fisso che abbia l’effetto di escludere il socio dalle perdite della società partecipata. Nella specie, il giudizio ha avuto ad oggetto i profili di possibile invalidità del contratto di opzione put che prevedeva il diritto di vendita di un pacchetto azionario a prezzo determinato in una finestra temporale di 10 mesi, decorsi cinque anni dalla stipula del contratto medesimo. In particolare, l’attrice preponente ha lamentato la strumentalità dell’opzione in quanto la stessa sarebbe stata finalizzata unicamente ad escludere il titolare dell’opzione dalle perdite della società partecipata; in ragione di ciò, è stato chiesto al Tribunale di Milano di dichiarare : (i) in via principale, la nullità dell’opzione perché in contrasto con il divieto di patto leonino; (ii) in via subordinata, la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta.

Con riguardo ai profili di liceità o meno di opzioni put a prezzo predefinito a fronte della nullità del patto leonino di cui all’art. 2265 c.c., il Tribunale di Milano ha individuato in giurisprudenza due posizioni contrapposte: (i) un primo orientamento (v. Cass. n. 8927/1994) che, ritenuta la natura di norma transtipica dell’art. 2265 c.c., ha sancito la rilevanza del divieto di patto leonino anche nelle società di capitali, evidenziando la necessità che lo stesso sia “riguardato in senso sostanziale, e non formale”; (ii) un secondo orientamento (v. Cass. n. 17498/2018) che, di contro, ha stabilito la liceità dell’accordo negoziale con il quale un socio “si obblighi a manlevare l’altro dalle eventuali conseguenze negative del conferimento effettuato in società, mediante l’attribuzione del diritto di vendita (cd. put) entro un termine dato ed il corrispondente obbligo di acquisto della partecipazione sociale a prezzo predeterminato, pari a quello dell’acquisto”. Tale secondo orientamento – come riportato dal Tribunale di Milano – si fondasul rilievo per cui la ratio del divieto di patto leonino risiede nella causa del contratto di società, vale a dire nell’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili e, simmetricamente, le perdite. A fronte di tale elemento, il contratto di opzione put a prezzo prefissato sarebbe lecito – ad avviso della Suprema Corte – in quanto, trattandosi di mero “trasferimento del rischio puramente interno fra un socio ed un altro socio o un terzo”, lascerebbe inalterata la causa societatis del rapporto partecipativo.

Il Tribunale di Milano ha contestato gli argomenti portati dalla Corte di Cassazione a sostegno della liceità dell’opzione put a prezzo fisso, evidenziando come gli stessi si risolvano “in definitiva, nella negazione della configurabilità di un effetto leonino indiretto”, giacché il ragionamento della Suprema Corte condurrebbe al paradosso per cui, mentre sarebbe illecita l’esclusione di un socio dalle perdite prevista a livello statutario, sarebbe di contro perfettamente lecita l’ipotesi in cui a tale risultato si pervenisse “attraverso negozi che, regolando il diverso momento della circolazione delle quote tra i soci, assicurino comunque al socio «leone» una posizione sostanzialmente indifferente rispetto agli esiti dell’impresa sociale e, dunque, una posizione in contrasto con la causa societatis e, appunto, con la regola ex art. 2265 c.c. che ne è diretta espressione”.

In ragione di ciò, il Giudice di prime cure ha pertanto ritenuto di confermare integralmente il principio già espressa dalla Corte d’Appello di Milano la quale, dichiarando la nullità ex art. 2265 c.c. dell’opzione put a prezzo predeterminato, ha rilevato che “l’ampia facoltà concessa al socio di uscire dalla compagine sociale con un alto margine di profitto, a prescindere dalla situazione patrimoniale in cui versa la società, non va a intaccare solo gli equilibri interni tra i soci”, poiché, soprattutto in una società di capitali a struttura personalistica (come si pone la s.r.l. nell’attuale contesto societario), tale facoltà “è in grado di provocare soprattutto una grave lesione dell’interesse della società ad essere gestita mediante il contributo e l’apporto di ogni socio, nessuno escluso, ai fini del suo buon governo” (Corte d’Appello di Milano, 17 settembre 2014).

 

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