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Dossier

La Cassazione ribadisce che l’imposta sui vincoli di destinazione è una “nuova imposta” (osservazioni a Cass. 7 marzo 2016, n. 4482)

30 Marzo 2016

Daniele Muritano

La sentenza in commento, che giudica in merito alla tassazione di un trust, si inserisce nel solco delle ordinanze n. 3735/15, 3737/15 e 3886/15 e conferma che l’art. 2, comma 47, del d.l. n. 262/06, introdotto dalla legge di conversione n. 286/06, oltre ad avere re-istituito l’imposta sulle successioni e donazioni ha altresì istituito una “nuova imposta”, quella sui “vincoli di destinazione”. Conseguentemente, vincolare beni in trust costituisce di per sé un presupposto impositivo autonomo rispetto a quello proprio delle imposte di successione e donazione, prescindendo quindi dal trasferimento dei beni in favore di un beneficiario. In ogni caso l’aliquota applicabile varierà in dipendenza del rapporto (coniugio, parentela, affinità, estraneità) esistente tra disponente e beneficiario.

La decisione, pur essendo stata pubblicata il 7 marzo 2016, è stata pronunciata l’8 luglio 2015, quindi antecedentemente alle sentenze della medesima corte del 18 dicembre 2015, n. 25478 e n. 25479, che, pur se riferite a trust istituiti in un periodo in cui l’imposta sulle successioni e donazioni era stata soppressa, affermano il principio – valevole a nostro avviso anche per i trust istituiti dopo il 3 ottobre 2006 (data di entrata in vigore del d.l. che re-istituisce le imposte sulle successioni e donazioni) – per cui è “illogico”applicare subito le imposte proporzionali, visto che non c’è trasferimento di ricchezza a favore di alcuno. Queste sentenze, peraltro, riproducono passaggi argomentativi letteralmente identici a quelli contenuti in una sentenza della Commissione Provinciale di Lucca del 17 novembre 2015 (presieduta dallo stesso relatore delle sentenze della Corte di Cassazione), che ha deciso in relazione a un trust istituito nel 2015, ciò che conferma come trattasi di principio applicabile anche post-2006 (e senza che si ponga neanche per un attimo il dubbio che il d.l. 262/06 abbia introdotto una “nuova imposta” sui vincoli di destinazione).

Tanto premesso, esaminiamo il caso oggetto della sentenza n. 4482/16. La semplice lettura della parte in “fatto” dimostra una certa superficialità con cui esso è stato trattato dalla Corte, forse preoccupata di confermare la propria tesi (ammantandosi anche di valutazioni di natura “politica”, là dove afferma, apoditticamente, che la “nuova imposta” sui vincoli di destinazione è stata istituita “in una visione di sfavore nei confronti dei vincoli negoziali di destinazione, scoraggiati attraverso la leva fiscale” – ma su ciò torneremo).

La sentenza contiene inoltre alcuni passaggi argomentativi che meritano di essere “scandagliati” letteralmente, per dimostrarne l’assoluta inconsistenza.

Torniamo al fatto.

Si dice che l’intimata (dall’AE, riteniamo) costituiva nel 2008, assieme al coniuge, un trust denominato “Trust Kilometro Lanciato”, di cui si nominava trustee. Fermiamoci un attimo. Che struttura ha questo trust? La sentenza non lo dice espressamente. Pare evidente, però, che si tratta di un trust il quale, con riguardo a uno dei disponenti assume la struttura del trust c.d. autodichiarato mentre con riguardo all’altro è certamente un trust c.d. traslativo. Il coniuge disponente infatti, ha certamente trasferito propri beni al trustee (= l’altro coniuge). Nulla si dice nella sentenza in merito a quali siano i beni oggetto di trust.

Nel trust sono previsti due “sottofondi”: del primo sono beneficiari (la sentenza non lo dice, ma il riferimento dovrebbe essere ai beneficiari c.d. finali, cioè gli aventi diritto al fondo in trust al termine del medesimo), i disponenti medesimi se in vita e in mancanza i loro discendenti; del secondo sono beneficiari (anche in questo caso “finali”), i disponenti medesimi, la madre di uno dei disponenti e il fratello, se in vita, in mancanza i loro eredi legittimi.

L’amministrazione tassava l’atto con l’aliquota dell’8%. Nel prosieguo della sentenza si comprende come tale aliquota sia stata applicata in ragione della coincidenza tra disponenti e beneficiari finali, non essendo i disponenti compresi in alcuna delle categorie previste dall’art. 2, comma 49 del d.l. 262/06, che alla lettera a) prevede il coniuge e i parenti in linea retta, alla lettera a-bis) fratelli e sorelle, alla lettera c) altri parenti fino al quarto grado, affini in linea retta, nonché affini in linea collaterale fino al terzo grado e, infine, alla lettera d), gli altri soggetti.

Tuttavia, se si analizza il trust (per come è descritto nella sentenza) si ricava una situazione ben diversa.

Il trust prevede due disponenti, marito e moglie, uno dei quali è il trustee (la posizione del trustee è irrilevante dal punto di vista fiscale).

Il trust ha due sottofondi, A e B. Del primo sono beneficiari i disponenti medesimi se in vita e in mancanza i loro discendenti. Ora, poiché in un trust la coincidenza tra disponente, trustee e beneficiario non è consentita (salvo che vi sia pluralità di beneficiari), per cui un trust siffatto è radicalmente invalido, nel caso concreto si potrebbe anzitutto ritenere che il trust, riguardo al sottofondo A è: a) nullo per la parte di beni di cui uno dei coniugi si è dichiarato trustee (essendo coincidenti le figure di disponente, trustee e beneficiario); b) valido per la parte di beni trasferita da un coniuge all’altro coniuge trustee (essendo di questi beni beneficiario finale il medesimo disponente). Se del caso, quindi, l’aliquota dell’8% sarebbe stata applicabile solo a quota dei beni trasferiti e non all’intero.

Si potrebbe tuttavia ritenere, in via interpretativa, che, sempre con riguardo al sottofondo A, siano stati costituiti due trust reciproci. Un trust per la parte di beni di cui un coniuge si è dichiarato trustee, di cui è beneficiario l’altro, se in vita al termine del trust e in mancanza i discendenti, nel qual caso allora i beneficiari sono certamente ricompresi tra i soggetti menzionati nell’art. 2, comma 49, lett. a) del d.l. 262/06, per cui l’applicabilità dell’aliquota dell’8% è da escludersi. Altro trust per la parte di beni che un coniuge ha trasferito all’altro quale trustee nominando il medesimo trustee beneficiario finale se in vita al termine del trust e in mancanza i discendenti, e anche in questo caso l’applicabilità dell’aliquota dell’8% è da escludersi, essendo i beneficiari certamente ricompresi tra i soggetti menzionati nell’art. 2, comma 49, lett. a) del d.l. 262/06 (tralasciamo la considerazione – di stampo civilistico – per cui un trust che preveda il trustee quale unico beneficiario finale non è valido).

Passiamo al sottofondo B. Di esso sono beneficiari finali i disponenti medesimi, la madre di uno dei disponenti e il fratello, se in vita, in mancanza i loro eredi legittimi.

Anche riguardo al sottofondo B può ripetersi, per quel che riguarda il rapporto tra coniugi disponenti e beneficiari finali e alla configurabilità di due trust reciproci, ciò che si è sopra scritto riguardo al sottofondo A, cui quindi si rinvia. Tuttavia del sottofondo B sono beneficiari anche altri soggetti, di cui uno – la madre di uno dei disponenti – ricompreso tra i soggetti menzionati nell’art. 2, comma 49, lett. a) del d.l. 262/06, l’altro – il fratello di uno dei disponenti – tra i soggetti menzionati nell’art. 2, comma 49, lett. a-bis) del d.l. 262/06 (la sentenza non chiarisce bene i soggetti di riferimento, perché usa il plurale – “i disponenti” – poi il singolare – “la propria madre e il fratello” – e poi di nuovo il plurale – “i loro eredi legittimi”).

Ciò conduce sicuramente all’inapplicabilità dell’aliquota dell’8%. Erano invece applicabili – pro-quota – le aliquote del 4% (riguardo alla madre) e del 6% (riguardo al fratello), e sempre per la parte di valore superiore alle rispettive franchigie di euro 1.000.000 e euro 100.000. Anche rispetto all’apporto eseguito dall’altro coniuge era da escludere l’applicabilità dell’aliquota dell’8%, essendo invece applicabile l’aliquota del 6%, prevista per gli affini in linea retta (tale è la madre del coniuge) e in linea collaterale fino al terzo grado (il fratello del coniuge è affine di secondo grado).

L’analisi dell’atto istitutivo, con le conseguenti alternative interpretative del medesimo è del tutto assente nella sentenza. E abbiamo dimostrato che la presenza di una pluralità di beneficiari appartenenti a categorie diverse influisce sulle aliquote applicabili. La sentenza invece, molto sbrigativamente, fa di tutta un’erba un fascio, omettendo l’analisi concreta dell’atto e appiattendosi sulle deduzioni dell’Agenzia delle Entrate, la quale erroneamente riconduce l’intera operazione nell’ambito dell’aliquota massima dell’8% (per semplificare…?).

Venendo alla parte in diritto, è anzitutto sorprendente l’affermazione della ricorrente Agenzia (come sintetizzata nella sentenza) secondo cui “il trust è istituto che determina in ogni caso un arricchimento del beneficiario”. Dovrebbe però spiegare l’Agenzia – anzitutto – di quale beneficiario si tratti: di quello indicato nell’atto istitutivo? O di quello cui verrà trasferito il fondo in trust al termine del medesimo? E se il beneficiario indicato nell’atto istitutivo fosse già morto al termine del trust? E se il fondo in trust fosse pari a zero? Chi – e di quali beni – si arricchisce? E se è vero che c’è sempre un arricchimento del beneficiario, perché si pretende l’imposta dal trustee, in totale spregio all’art. 5 del d. lgs. 31.10.1990, n. 346 il quale prevede che l’imposta è dovuta dai donatari per le donazioni e dai beneficiari per le altre liberalità tra vivi? E come può concepirsi una “nuova imposta” (quella sui vincoli di destinazione) senza che esista una norma che ne individui precisamente il soggetto passivo, letteralmente “inventato” dall’Agenzia e dalla giurisprudenza della Suprema Corte?

In ogni caso, la Corte dichiara di confermare la sua pregressa giurisprudenza anzitutto argomentando sulla base della ratio dell’intervento legislativo che nel 2006 ha re-introdotto le imposte sulle successioni e donazioni nonché (a suo dire) “introdotto” una nuova imposta, quella che colpisce “tuout curt” (sic!) gli atti che costituiscono vincoli di destinazione. Tale nuova imposta si fonderebbe, secondo la Corte, su una “visione di sfavore nei confronti dei vincoli negoziali di destinazione, scoraggiati attraverso la leva fiscale”. Questa, in realtà, pare essere una “visione” propria della Corte, non certo del legislatore. Va infatti ricordato che il d.l. 262/06 prevedeva un inasprimento delle imposte ipotecaria e catastale, nonché l’applicazione dell’imposta di registro (con specifiche franchigie e aliquote differenziate a seconda della tipologia di bene e di soggetto beneficiario) per i trasferimenti di immobili, aziende, azioni, obbligazioni e altri titoli o quote sociali per donazione o successione mortis causamentrefu solo in sede di conversione in legge del decreto che venne introdotta la disciplina prevista dai commi 47-53. Si tratta quindi della “invenzione” da parte della Corte di una voluntas legis di cui non c’è traccia nei lavori preparatori.

Quasi a mo’ di giustificazione si aggiunge che sopravvivrebbe (“ovviamente”, dice la Corte…), nell’ordinamento, lo spazio per sostenere che alcuni vincoli di destinazione per i quali è prevista una specifica disciplina o mirati a effetti espressamente approvati dal legislatore non ricadano nell’ambito impositivo dell’art. 2, comma 47, del d.l. 262/06. Esempi di tali vincoli sarebbero quelli necessari per “la definizione dei rapporti delle imprese in crisi”. Ora, a parte l’oscurità dell’espressione “definizione dei rapporti delle imprese in crisi”, che non si comprende bene cosa voglia dire, la verità vera è che di tali vincoli non c’è traccia alcuna nell’ordinamento. Né il ragionamento convince quanto all’esito finale sotto il profilo tributario: una volta ammesso, infatti, che l’imposta sui vincoli di destinazione è un’imposta “nuova” che colpisce tutti i vincoli, non ha alcun senso distinguere, per escluderli dall’imposizione, i vincoli di destinazione espressamente previsti dal legislatore rispetto al vincolo di destinazione che nasce per effetto della stipula di un trust. Il discrimine, infatti (ammesso che sia legittimo discriminare), dovrebbe trovare la sua fonte nel diritto tributario, non certo nel diritto civile o commerciale. O la Corte ci vuole dire che, ad esempio, poiché il fondo patrimoniale è un vincolo di destinazione previsto dalle legge esso sfugge all’imposizione prevista dall’art. 2, comma 47, del d.l. 262/06? E che quindi l’espressione “vincoli di destinazione” prevista da tale norma sarebbe riferibile soltanto ai vincoli non disciplinati dalla legge, tra cui non rientrerebbe il vincolo di destinazione che nasce a seguito della stipula di un trust? La fallacia argomentativa è evidente, tanto più che proprio nella giurisprudenza richiamata dalla Corte si ritengono compresi nell’ambito impositivo dell’art. 2, comma 47, del d.l. 262/06 i vincoli di destinazione ex art. 2645 ter, c.c., cioè vincoli espressamente previsti dal legislatore.

La sentenza prosegue ribadendo le affermazioni delle pregresse ordinanze, quali il fatto che la tassazione dell’atto non presuppone l’identificazione di un “utile” o un “vantaggio” percepito da un soggetto e che l’atto negoziale esprime di per sè una capacità contributiva ancorchè non determini (o non determini ancora) alcun vantaggio economico diretto per qualcuno. L’assoluta erroneità giuridica di tali affermazioni (che conduce pacificamente all’incostituzionalità della norma che prevede la tassazione del mero vincolo) è stata ampiamente dimostrata dalla dottrina specialistica, cui si rinvia[1].

Ciò che colpisce, invece, è l’esempio di operazione negoziale che la Corte propone per dimostrare come nell’ordinamento vi siano casi di tassazione che colpiscono una manifestazione di ricchezza ma non necessariamente l’arricchimento.

L’esempio proposto è quello della compravendita, in cui l’imposta di registro, dice anzitutto la Corte, coinvolge la manifestazione di ricchezza delle parti. (Errore: nella compravendita l’imposta di registro colpisce la manifestazione di ricchezza di una sola delle parti, cioè l’acquirente, a carico del quale è posto l’obbligo del pagamento dell’imposta).

L’imposta di registro è dovuta, continua la Corte, prescindendo dalla valutazione circa l’effettiva acquisizione di un vantaggio economico, che potrebbe non sussistere se il bene è venduto a prezzo di mercato. Se abbiamo ben inteso il ragionamento della Corte, quindi, il fatto che l’imposta di registro sulla compravendita sia dovuta anche se il costo di acquisto del bene è uguale o superiore al prezzo di mercato, dimostrerebbe che essa, appunto, prescinde dall’arricchimento, che si avrebbe, al contrario, se il costo di acquisto del bene fosse inferiore al valore di mercato del bene, eventualità che però non rileva[2].

Ora, a parte l’inconsistenza giuridica del mettere a confronto norme dettate per tassare gli atti gli atti gratuiti con le norme in tema di imposta di registro, dettate per tassare gli atti onerosi, sfugge decisamente alla Corte come la logica delle due imposte sia completamente diversa, colpendo l’imposta di registro sulla compravendita una manifestazione di capacità contributiva reale e – soprattutto – visibile, il pagamento del prezzo, l’imposta di successione e donazione gli “arricchimenti senza sforzo”. Tassare il vincolo di destinazione in quanto tale determina invece l’applicazione di un’imposta che non ha ad oggetto né una manifestazione di ricchezza né un arricchimento. Infatti: a) nel caso di vincolo non traslativo si avrebbe una tassazione legata alla diminuzione delle utilità ritraibili dal bene, essendo appunto il bene vincolato; b) nel caso di vincolo traslativo dove il bene persino fuoriesce dal patrimonio senza alcun corrispettivo, la tassazione di una diminuzione patrimoniale. Una tassazione – la conclusione è ovvia – del tutto incompatibile con il principio di capacità contributiva e quindi palesemente incostituzionale.

Aggiunge ancora la Corte che, nel caso della compravendita, “l’arricchimento vero e proprio potrà se mai essere inciso sotto il profilo della plusvalenza”. Sfugge tuttavia alla Corte, a tacer d’altro, che l’imposta sulla plusvalenza riguarda il venditore e non l’acquirente (l’esemplificazione dell’imposta dovuta “a prescindere dall’arricchimento” aveva quest’ultimo come punto di riferimento soggettivo) e che essa è un’imposta diretta e non indiretta. Ancora una volta si mettono a confronto fatti imponibili e imposte del tutto eterogenei (anche sul piano soggettivo), certamente inidonei a costituire validi argomenti a supporto della soluzione data dalla Corte al caso concreto.

Riconosce infine la Corte che l’applicazione della norma ai vincoli di destinazione ha “indubbie difficoltà tecniche” ma che tali difficoltà non possono consentire di sfuggire al pagamento. Ancora, che le imposte di successione e donazione da un lato e quella sui vincoli di destinazione, dall’altro, sono intrinsecamente diverse ma disciplinate dallo stesso testo normativo e ciò suscita “notevoli difficoltà”. Infine, che la disciplina dell’imposta di successione è “poco adatta a una imposta sui vincoli di destinazione” (notiamo, di passata, che i vincoli di destinazione si costituiscono con atti tra vivi, quindi il richiamo all’imposta di successione è inconferente, se mai il richiamo corretto sarebbe dovuto essere all’imposta di donazione).

Quali siano le difficoltà la Corte non lo dice ma esse sono evidenti: di questa “nuova imposta” manca tutto: presupposto imponibile, criteri di determinazione della base imponibile, soggetto passivo, aliquote.

Il testo normativo è poco adatto, dice la Corte. Certo che è poco adatto! Si avrebbe infatti un’imposta sulla “modulazione” del diritto inserita in un contesto impositivo, quello del testo unico delle imposte sulle successioni e donazioni, che tassa solo i trasferimenti.

Però si deve pagare egualmente, e l’onere fiscale andrà “parametrato sui criteri di cui alla imposta sulle successioni e donazioni”, espressione contenuta nel “principio di diritto”, ma del tutto priva di significato concreto.

Alla fin fine, pur di fare cassa (meglio, pur di dare ragione al fisco), si è “inventata” un’imposta monstre, priva di un presupposto economico compatibile con l’art. 53 Cost., senza soggetti passivi individuati, con insormontabili problemi di determinazione della base imponibile e dell’aliquota; insomma, un’imposta impossibile e ingestibile, prima ancora che incostituzionale.

La sentenza cassa con rinvio a una diversa sezione della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, che ci si augura vorrà esaminare con attenzione l’atto istitutivo di trust applicando quantomeno aliquote e franchigie in modo corretto.

Concludiamo sperando nel “nuovo corso” inaugurato dalle sentenze di dicembre 2015, coerenti con i principi di giustizia tributaria che dovrebbero informare uno Stato di diritto quale dovrebbe essere quello italiano.

Ormai troppe volte, infatti, negli ultimi anni, il ragionamento giuridico ha ceduto il passo a valutazioni fondate su criteri di tipo macroeconomico, che in fattispecie come queste vengono giuridificati, a logiche in cui i principi scolorano e perdono rilevanza, in cui, in definitiva, conta soltanto che lo Stato possa in qualche modo “fare cassa”. Con buona pace dei principi costituzionali.



[1] Cfr. D. Stevanato, La Suprema Corte istituisce una nuova imposta indiretta sui trust – La “nuova” imposta su trust e vincoli di destinazione nell’interpretazione creativa della Cassazione, in GT – Rivista di giurisprudenza tributaria, n. 5/2015, 397; T. Tassani, La “nuova” imposizione fiscale sui vincoli di destinazione, in Giur. Comm., 2015, 1026/I.

[2] Sembra quasi che la Corte voglia dire che, se l’imposta (di registro) colpisse solo gli arricchimenti essa sarebbe dovuta solo se l’acquirente “avesse fatto un affare”, acquistando il bene a prezzo inferiore al suo valore. E poiché così certamente non è, ecco dimostrato che nell’ordinamento esistono imposte indipendenti dall’arricchimento di un soggetto e che quindi è ammissibile un’imposta (quella sui vincoli di destinazione) che da esso ne prescinda.


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