Il presente contributo si sofferma sul coordinamento tra l’articolo 425 del codice di procedura penale, novellato dalla Riforma Cartabia che ha introdotto un nuovo parametro di giudizio per la pronuncia del non luogo a procedere nei confronti delle persone fisiche, con l’articolo 61 del d. lgs. n. 231/2001 che disciplina l’udienza preliminare nei procedimenti per responsabilità degli enti.
1. Premessa
Il d. lgs. n. 150/2022 (c.d. “Riforma Cartabia”), con la dichiarata finalità di ridurre i tempi del processo e, al tempo stesso, scongiurare la celebrazione di dibattimenti “inutili”, ha parzialmente modificato l’art. 425 del codice di rito introducendo un nuovo parametro di giudizio per la pronuncia della sentenza di non luogo a procedere.
In tal senso, il legislatore è intervenuto sul terzo comma dell’art. 425 c.p.p., prevedendo che il Giudice dell’Udienza Preliminare debba pronunciare sentenza di non luogo a procedere ogniqualvolta «gli elementi acquisiti non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna».
In questo contesto, se, per un verso, la Riforma Cartabia ha introdotto una nuova regola di giudizio per l’udienza preliminare a carico delle persone fisiche, per altro verso, il legislatore ha omesso qualsivoglia intervento di coordinamento con le regole che disciplinano l’udienza preliminare a carico degli enti. Difatti, l’art. 61 del d. lgs. n. 231/2001 – ancora oggi – riproduce quasi pedissequamente l’originaria versione dell’art. 425 c.p.p., prevedendo che il Gup debba emettere sentenza di non luogo a procedere se «gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere in giudizio la responsabilità dell’ente».
Orbene, seguendo una interpretazione meramente letterale del dettato normativo, il Giudice dell’Udienza Preliminare, chiamato a pronunciarsi sia sul reato contestato ad un soggetto interno alla società sia sull’illecito amministrativo (dipendente dal medesimo fatto di reato) addebitato alla persona giuridica, dovrà adottare due criteri valutativi differenti.
La scollatura normativa tra la regola di giudizio dell’udienza preliminare a carico della persona fisica e il criterio valutativo che governa l’udienza preliminare a carico dell’ente necessita di un intervento chiarificatore da parte del legislatore.
2. Considerazioni giuridiche
Anzitutto, è bene prendere le mosse dall’art. 34 del d. lgs. n. 231/2001, ai sensi del quale, nell’ambito del procedimento penale a carico degli enti si applicano, in primo luogo, le norme contenute nel Capo III del decreto e, ove compatibili, le disposizioni contenute nel codice di procedura penale.
Sussiste pertanto un rapporto gerarchico tra le norme che regolano il processo a carico degli enti contenute nel decreto e le disposizioni contenute nel corpus del codice di procedura penale[1].
Tuttavia, l’art. 61 del d. lgs. n. 231/2001, almeno fino all’intervento riformatore, non poteva certamente considerarsi una norma prevista ad hoc per i procedimenti a carico degli enti, in quanto mera riproduzione dell’art. 425 c.p.p. (testo ante riforma), salvo alcuni correttivi terminologici.
Infatti, il legislatore del 2001, conformandosi alla precedente regola di giudizio che governava l’udienza preliminare a carico delle persone fisiche, ha previsto che il Giudice dell’Udienza Preliminare è tenuto a pronunciare la sentenza di non luogo a procedere laddove il Pubblico Ministero non riesca a dimostrare l’esistenza di elementi idonei a sostenere in giudizio la responsabilità dell’ente.
A seguito della riforma, la discrepanza normativa tra l’articolo 425 c.p.p. e l’art 61 del d. lgs. n. 231/2001 impone una riflessione circa la sussistenza o meno di un sopravvenuto rapporto gerarchico tra le predette disposizioni. In particolare, è opportuno verificare se l’art. 61 del menzionato decreto assuma ora un significato proprio per i procedimenti a carico delle persone giuridiche.
A tal proposito, una interessante soluzione interpretativa è offerta dalla Relazione Ministeriale sull’art 61, dalla quale si evince la chiara volontà del legislatore del 2001 di accogliere in toto i principi sottesi al terzo comma dell’art. 425 c.p.p.[2]. In altre parole, il legislatore del 2001, pur introducendo una norma ad hoc per i procedimenti a carico degli enti, ha inteso trasferire il canone di giudizio proprio dell’art. 425 c.p.p. nell’art. 61 del decreto.
Alla luce di quanto rappresentato, non appare come una forzatura interpretativa ritenere che il disallineamento tra le predette disposizioni sia frutto di un mero difetto di coordinamento e che, pertanto, la precedente regola di giudizio prevista dall’art. 61 del d. lgs. n. 231/2001 possa essere considerata tacitamente abrogata.
Un’ulteriore riflessione deve muovere dal parametro offerto dall’art. 3 della Costituzione. Seguendo tale criterio, appare, infatti, evidente che un’interpretazione restrittiva dell’art. 61 determinerebbe una irragionevole disparità di trattamento tra la persona fisica imputata del reato presupposto e l’ente accusato ex d. lgs. n. 231/2001.
Non vi è chi non veda come un simile approccio risulterebbe sintomatico di un tanto singolare quanto irragionevole favor actionis del legislatore nei confronti delle persone giuridiche.
Sul punto, preme evidenziare la paradossale situazione che si verrebbe a determinare ove, nel caso di un simultaneus processus nei confronti della persona fisica e della persona giuridica, il Gup dovesse ritenere il medesimo compendio probatorio sul fatto di reato insufficiente per rinviare a giudizio la persona fisica e, al tempo stesso, bastevole per disporre il giudizio nei confronti dell’ente.
In questo modo, il dibattimento finalizzato ad accertare la sola responsabilità della persona giuridica potrebbe diventare il luogo in cui accertare in via incidentale la sussistenza anche del reato-presupposto ovvero concludersi con l’assoluzione dell’ente per insussistenza del fatto come già pronosticato dal Giudice dell’Udienza Preliminare nel giudizio a carico della persona fisica definitosi con il proscioglimento di quest’ultima.
In ultima analisi, risulta evidente che l’attuale assetto normativo rischia di tradire la stessa ratio legis della Riforma Cartabia[3]. Difatti, un’interpretazione restrittiva dell’art. 61 del d. lgs. n. 231/2001 produrrebbe effetti diametralmente opposti rispetto a quelli sperati dal legislatore, vale a dire la celebrazione di dibattimenti “inutili” nei confronti degli enti, a fronte di elementi probatori che già in fase di udienza preliminare non consentivano di formulare una ragionevole previsione di condanna.
3. Il primo arresto giurisprudenziale
Il 15 febbraio 2023 il Gup presso il tribunale di Milano si è pronunciato[4] sulla regola di giudizio per l’udienza preliminare a carico delle persone giuridiche offrendo un’interpretazione estensiva della novella di cui all’art. 425, 3 comma, c.p.p.
In particolare, l’organo giudicante ha rigettato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 61 del decreto per contrasto con l’art. 3 della Costituzione ritenendo che il disallineamento fra le due regole di giudizio possa essere superato in chiave interpretativa.
Ad avviso del Gup di Milano, la discrasia normativa tra l’art. 61 del decreto e l’art. 425, 3 comma, del codice di rito non sarebbe frutto di una scelta consapevole del legislatore bensì di un mero difetto di coordinamento tra le due disposizioni. Il Giudice, in assenza di indici chiari desumibili dalla relazione illustrativa al d. lgs. n. 150/2022, perviene a questa conclusione esaminando la Relazione Ministeriale al d. lgs. n. 231/2001, dalla quale emerge la chiara volontà del legislatore di accogliere nell’art. 61 i medesimi principi posti a fondamento della regola di giudizio per i procedimenti a carico delle persone fisiche[5]. Invero, laddove il legislatore del 2001 ha voluto differenziare la disciplina prevista per gli enti rispetto a quella delle persone fisiche, come avvenuto, ad esempio, per l’art. 408 c.p.p., ha adottato una previsione ad hoc (art. 58 del decreto)[6].
L’organo giudicante, una volta chiarite le ragioni per le quali l’attuale discrepanza normativa deve essere ritenuta il frutto di un mero difetto di coordinamento, ha inteso superare l’impasse «rammentando come la regola di giudizio prevista dal previgente testo dell’art. 425 c.p.p. per il processo nei confronti della persona fisica, sostanzialmente sovrapponibile all’attuale che presiede al testo dell’art. 61 d. lgs. 231, sia stata interpretata, in chiave evolutiva, da alcune decisioni della Suprema Corte di Cassazione, fra cui si segnala Cassazione Sez. 5, n. 32023, del 4/6/2017, che già aveva schiuso alla possibilità che il giudice dell’udienza preliminare verificasse, ai fini del rinvio a giudizio, “che la piattaforma degli elementi conoscitivi, costituiti dalle prove già raccolte e da quelle che potranno essere verosimilmente acquisite nello sviluppo processuale – secondo una valutazione prognostica ispirata a ragionevolezza – sia munita di una consistenza tale da far ritenere probabile la condanna e da dimostrare, pertanto, l’effettiva, seppur potenziale, utilità del passaggio alla fase dibattimentale”».
L’ordinanza conclude puntualizzando che il suddetto criterio ermeneutico, già adottato dalla giurisprudenza, «può ben costituire base di riferimento ai fini dell’interpretazione attuale della regola di giudizio di cui all’art. 61 d. lgs. 231/2001, in termini sostanzialmente equiparabili, dunque, a quella introdotta dal d. lgs. 150/2022 nel procedimento nei riguardi dell’imputato persona fisica – in linea con i principi ispiratori di tale riforma e senza che alcuna disparità di trattamento si possa determinare fra le valutazioni riservate agli imputati persone fisiche o giuridiche di questo simultaneo giudizio».
4. Considerazioni conclusive
Appaiono senza dubbio condivisibili le argomentazioni utilizzate dal Giudice dell’Udienza Preliminare presso il Tribunale di Milano per affermare che la scollatura normativa tra l’art. 61 del decreto e l’art. 425 del codice di rito è il risultato di un mero difetto di coordinamento.
Al tempo stesso, è d’obbligo precisare che la pronuncia[7] cui ha fatto riferimento l’organo giudicante per superare in via interpretativa la discrasia tra le due disposizioni riguardava un procedimento penale a carico di un imputato persona fisica.
Circostanza, quest’ultima, che potrebbe rappresentare un limite dell’efficacia persuasiva dell’ordinanza passata in rassegna, così da rendere verosimile il rischio di future pronunce di senso contrario.
Alla luce di quanto rappresentato, appare indispensabile un intervento chiarificatore da parte del legislatore che ponga fine ad ogni dubbio interpretativo.
[1] Secondo la dottrina sussiste un rapporto gerarchico tra i due sistemi normativi con prevalenza delle statuizioni processuali dettate ad hoc per le persone giuridiche coinvolte: così Varraso, Le fonti della procedura penale degli enti, in Responsabilità da reato degli enti, a cura di Lattanzi – Severino, II, Diritto processuale, Torino, 2020, p. 3 e ss.; Giarda, Un sistema ormai a triplo binario: la giurisprudenza penale si amplia, in AA.VV., La responsabilità amministrativa degli enti, Milano, 2002, p. 195; Luparia Donati-Centorame, Le fonti normative della procedura penale d’impresa, in Responsabilità degli enti ex D.lgs. 231/2001 tra diritto e processo, a cura di D. Piva, Torino 2021, p. 716.
[2] Relazione ministeriale al d. lgs. n. 231/2001, sub art. 61.
[3] Relazione del Massimario della Cassazione, 5 gennaio 2023, p. 89.
[4] Trib. di Milano, sez. Gip/Gup, Ordinanza del 15 febbraio 2023, dott. Domenico Santoro.
[5] Relazione ministeriale al d. lgs. n. 231/2001, sub art. 61, cit.
[6] Relazione ministeriale al d. lgs. n. 231/2001, sub art. 58.
[7] Cass. Pen., sez. V, n. 32023 del 4 giugno 2017.