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Attualità

Licenziamento nullo se basato su dati raccolti da investigatore non legittimato

15 Novembre 2023

Davide Maria Testa, DLA Piper

Di cosa si parla in questo articolo

Il presente contributo analizza la recente sentenza della Cassazione del 11 ottobre 2023, n. 28378, che ha dichiarato nullo il licenziamento per inutilizzabilità dei dati raccolti dall’investigatore non legittimato.


1. Introduzione

Con la Sentenza 11 ottobre 2023, n. 28378, la Corte di Cassazione si è pronunciata in merito ad un’interessante vicenda incentrata sull’utilizzabilità di dati raccolti per via investigativa e posti – da parte di un datore di lavoro – alla base di una contestazione disciplinare (e del conseguente licenziamento per giusta causa irrogato).

Il fulcro della questione è rappresentato da una tematica prevalentemente “privacy” secondo cui, nel mandato investigativo, v’è l’obbligo di indicare i nominativi degli investigatori che svolgono – personalmente – le indagini.

Cosa che non è stata fatta nella vicenda in esame. Ed è per questo che la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso di un dipendente licenziato dopo che la Società aveva accertato – tramite indagini investigative – lo svolgimento di altre (e ulteriori) attività lavorative da parte del dipendente stesso, il quale avrebbe anche ecceduto nell’indicare il numero di ore effettivamente lavorate.

2. I fatti

Procedendo con ordine, la vicenda de qua – come detto – vede sullo sfondo il licenziamento per ragioni disciplinari irrogato da una società ad un proprio dipendente che svolgeva la propria attività lavorativa “sul campo” e, dunque, sempre all’esterno dei locali aziendali.

In particolare, egli svolgeva mansioni di tecnico “on field” e non faceva riferimento a una specifica sede di lavoro, “ma partiva dal proprio domicilio e dalla centrale di ricovero dell’automezzo sociale e poi iniziava l’attività presso il cliente o sul primo impianto sul quale era chiamato ad operare”.

In tal contesto, la società ha dato vita ad un procedimento disciplinare nei confronti del dipendente, basando la contestazione disciplinare su (i) falsa attestazione di tempi e modi di esecuzione delle attività lavorative a lui assegnate; (ii) svolgimento di un complessivo orario di lavoro inferiore a quello contrattualmente dovuto senza alcuna riduzione corrispondente della retribuzione; (iii) incombenze legate alla sfera personale di interessi e comunque estranee all’attività lavorativa durante l’orario di lavoro.

Al termine del procedimento la società ha irrogato il licenziamento disciplinare.

Il dipendente ha impugnato tale licenziamento, asserendone la natura ritorsiva e deducendone, di conseguenza, la nullità.

Il Tribunale di Milano, a conclusione della fase sommaria, ha accolto il ricorso e ha ordinato la reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro. Il Tribunale ha confermato tale decisione anche in fase di opposizione.

Di contro, la Corte d’Appello ha accolto il gravame proposto dalla società datrice di lavoro e, avverso tale decisione, il dipendente ha proposto ricorso per cassazione affidato a 12 motivi.

3. Focus motivazionale della corte di Cassazione, tra tutela dei dati personali e utilizzabilità dei dati

Per quel che è d’interesse in questa sede, è necessario concentrarsi sui motivi quarto e quinto del ricorso per cassazione del dipendente, i quali sono stati ritenuti fondati dai Giudici della Suprema Corte.

In particolare, con il quarto motivo, il dipendente “addebita alla Corte territoriale l’omessa considerazione della mancata indicazione, nel mandato investigativo, dei nominativi degli investigatori delegati all’esecuzione delle indagini” e, con il quinto motivo, il dipendente lamenta la “violazione e falsa applicazione” degli artt. 2119 c.c., 2, 3, 4, 8 e 18 L. n. 300/1970, 11 e 12 d.lgs. n. 196/2003, 8 del relativo allegato A.6, 2, 3, 13, 14 e 15 Cost. sul diritto alla riservatezza, nonché degli artt. 115 e 116 c.p.c., come conseguenza dell’omesso esame oggetto del quarto motivo”.

Nel caso di specie, invero, è emerso dalle risultanze processuali che la società aveva incaricato una determinata agenzia per le investigazioni “disciplinari” e nel relativo mandato v’era, da un lato, la clausola 1.4 che autorizzava l’agenzia incaricata ad “avvalersi della collaborazione operative di agenti” di un’altra società (sempre investigativa), “mantenendo sempre la governance, il coordinamento operativo e l’attività di reporting finale” e, dall’altro, la successiva clausola 2 che prevedeva che qualora l’agenzia si fosse avvalsa di altri collaboratori esterni alla propria struttura, avrebbe dovuto indicare specificamente i relativi nominativi in calce all’atto di incarico. Indicazione, questa, omessa del tutto.

Orbene, di norma, l’indicazione del nominativo dei soggetti che in concreto hanno eseguito le indagini investigative, se non riconducibili alla società di investigazione che ha ricevuto formalmente l’incarico, è un requisito per la validità e la legittimità di tali indagini e, dunque, per l’utilizzabilità dei relativi esiti.

Dunque, ai sensi della normativa sulla protezione dei dati personali (applicabile), l’agenzia formale mandataria dell’incarico investigativo avrebbe dovuto indicare i nominativi degli investigatori cui è stato sub-appaltato l’incarico.

Tale omissione, a parer dei Giudici della Suprema Corte, ha inficiato il mandato con la conseguente inutilizzabilità dei dati raccolti da soggetti non legittimati a farlo ai sensi, appunto, dell’art. 11 co. 2 del d. Lgs. n. 196 del 2003, per come vigente ratione temporis (norma abrogata dal d. Lgs. 10 agosto 2018, n. 101, che, con l’art. 2, l’ha sostituita con l’art. 2-decies contenente medesima formulazione).

Ed è proprio questo lo snodo centrale dell’analisi su cui si è focalizzata la Cassazione.

Infatti, una volta tracciata la prima riflessione in tema di (in)utilizzabilità degli elementi risultanti dalle investigazioni ai fini disciplinari, i Giudici hanno proseguito la propria disamina normativa e giurisprudenziale al fine di ben ricostruire il perimetro normativo entro cui muoversi ai fini della propria decisione.

Il punto di partenza è rappresentato dal vaglio dei provvedimenti dell’Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali, la quale ha previsto espressamente che (autorizzazione n. 6/2016) “l’investigatore privato deve eseguire personalmente l’incarico ricevuto e non può avvalersi di altri investigatori non indicati nominativamente all’atto del conferimento dell’incarico oppure successivamente in calce a esso qualora tale possibilità sia stata prevista nell’atto di incarico”.

Nello stesso senso, l’art. 8 del provvedimento del Garante n. 60/2008, allegato A.6 al d.lgs. n. 196/2003[1] che dispone, tra le altre, che “l’atto d’incarico deve menzionare in maniera specifica il diritto che si intende esercitare in sede giudiziaria, ovvero il procedimento penale al quale l’investigazione è collegata, nonché i principali elementi di fatto che giustificano l’investigazione e il termine ragionevole entro cui questa deve essere conclusa. L’investigatore privato deve eseguire personalmente l’incarico ricevuto e può avvalersi solo di altri investigatori privati indicati nominativamente all’atto del conferimento dell’incarico, oppure successivamente in calce a esso qualora tale possibilità sia stata prevista nell’atto di incarico”.

La portata c.d. “normativa” del codice deontologico può dirsi conferita dall’art. 12 d.lgs. n. 196/2003 (che ne prevede anche un regime di pubblicità sulla Gazzetta Ufficiale) ove prescrive che il rispetto dei codici deontologici debba considerarsi come “condizione essenziale per la liceità e correttezza del trattamento dei dati personali effettuato da soggetti privati e pubblici”.

Proseguendo la propria analisi in tema privacy, la Cassazione ha ritenuto opportuno citare anche le seguenti norme:

  • 11, co. 2, d.lgs. n. 196/2003, vigente ratione temporis: “i dati personali trattati in violazione della disciplina rilevante in materia di trattamento dei dati personali non possono essere utilizzati”. Tale norma è stata poi abrogata dal d.lgs. 10/08/2018, n. 101, che, con l’art. 2, l’ha sostituita con l’art. 2-decies contenente identica formulazione, con l’unica aggiunta della salvezza di quanto previsto dall’art. 160 bis d.lgs. n. 196 cit.
  • 160 bis cit.: “la validità, l’efficacia e l’utilizzabilità nel procedimento giudiziario di atti, documenti e provvedimenti basati sul trattamento di dati personali non conforme a disposizioni di legge o di Regolamento restano disciplinate dalle pertinenti disposizioni processuali”.

La ricostruzione fatta dai Giudici sembra dunque condurre a un unico risultato: la conferma dell’inutilizzabilità dei dati raccolti.

Infatti, non essendo stati indicati neppure successivamente i nominativi degli investigatori cui è stato subappaltato l’incarico dall’agenzia originariamente incaricata, a parer della Cassazione viene meno l’utilizzabilità (in senso assoluto) della relazione investigativa e dei dati da essa evincibili.

Quali le conseguenze sul piano sostanziale?

Ebbene, se è vero che le risultanze investigative debbano considerarsi inutilizzabili in senso assoluto, tale inutilizzabilità, proprio perché “assoluta” (ratione temporis), non può che spiegare i propri effetti già in fase ante-processuale e, quindi, “sul piano sostanziale nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato come limite al potere datoriale.

Semplificando, ciò si traduce nel fatto che:

  • il datore di lavoro non poteva utilizzare tali risultanze investigative a fini disciplinari; e
  • dal momento che non potevano essere utilizzate, viene meno anche la possibilità di raffronto con le condotte tenute dal dipendente; ossia, viene meno la possibilità, ad esempio, ai fini della falsata registrazione degli orari di lavoro da parte del dipendente (che è stato motivo di contestazione disciplinare), di raffrontare tali risultanze investigative con e le dichiarazioni fatte dal dipendente medesimo.

E … sul piano procedurale?

Fermo restando tutto quanto sopra, nelle proprie riflessioni, i Giudici si sono spinti anche su valutazioni procedurali, mettendo a confronto il rito civile ed il rito penale del nostro ordinamento.

Invero, affermano i Giudici, a differenza del codice di procedura penale, il codice di rito civilenon prevede espressamente la categoria giuridica della inutilizzabilità della prova o di un atto processuale”.

Ciò, rischierebbe di aprire un varco al potere discrezionale del giudice (civile) nel decidere, di volta in volta e caso per caso, se utilizzare o meno mezzi di prova oppure no, “prescindendo del tutto dalla illiceità della formazione del dato e del suo trattamento”.

In senso contrario, tuttavia, “potrebbe obiettarsi che, sebbene non espressamente prevista, la categoria della “inutilizzabilità” della prova o dell’atto processuale sarebbe comunque evincibile dal complessivo sistema processuale civile, in quanto desumibile sia dal regime delle preclusioni istruttorie (art. 183 c.p.c. nella formulazione anteriore alla riforma di cui al d.lgs. n. 149/2022), sia più in generale da quello della nullità degli atti processuali ex art. 157 c.p.c. (secondo cui l’atto nullo non può produrre alcun effetto e, pertanto, non può essere utilizzato Cass n. 23352/2022, secondo cui nel giudizio di cassazione la procura speciale deve essere rilasciata a margine o in calce al ricorso o al controricorso, atteso il tassativo disposto dell’art. 83, comma 3, c.p.c., che implica necessariamente “l’inutilizzabilità” di atti diversi da quelli suindicati)”.

A conforto di questa seconda ricostruzione sarebbe possibile invocare recente giurisprudenza civile (e.g. Cass. n. 22915/2023; Cass. n. 2397/2022).

Ne deriverebbe dunque che, sul piano processuale, dovrebbe operare la preclusione di avvalersi dei citati dati (inutilizzabili di per sé già nelle determinazioni datoriali nel corso del rapporto di lavoro) come mezzo di prova, con conseguente impossibilità per il giudice di fondare il proprio convincimento su fatti dimostrati da evidenze acquisite contra legem.

Al termine dell’ampia e trasversale portata riflessiva (dal diritto sostanziale ai riti procedurali), la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso del dipendente e ha rinviato alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione per la decisione di merito e regolamentazione delle spese.

Nel far ciò, però, i Giudici di Cassazione hanno inteso anche condividere espressamente alcuni principi di cui la Corte Territoriale dovrà tener conto nella decisione di merito e, tra gli altri, che “l’inutilizzabilità dei dati raccolti in violazione dei codici deontologici di cui al d.lgs. n. 196/2003, nel periodo anteriore alla novella introdotta dal d.lgs. n. 101/2018, è da intendersi come “assoluta”, quindi rilevante in sede sia processuale che extra processuale; tale inutilizzabilità “assoluta” determina l’impossibilità sia per il datore di lavoro di porli a fondamento di una contestazione disciplinare e poi di produrli in giudizio come mezzo di prova, sia per il giudice di merito di porli a fondamento della sua decisione”.

 

[1] Regole deontologiche relative ai trattamenti di dati personali effettuati per svolgere investigazioni difensive o per fare valere o difendere un diritto in sede giudiziaria.

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