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Attualità

La pronuncia della Court of Appeal sui derivati del Comune di Venezia

19 Gennaio 2024

Andrea Maria Garofalo, Ricercatore di diritto privato, Università di Trento

Di cosa si parla in questo articolo

Il presente contributo analizza la pronuncia della Court of Appeal sul caso dei contratti derivati conclusi dal Comune di Venezia, che si sofferma su alcuni profili rilevanti in materia, tra cui quello della natura speculativa o meno del contratto di swap.


1. Introduzione

Il caso dei derivati conclusi dal Comune di Venezia, già deciso in primo grado dalla High Court of Justice (Giudice Foxton), torna oggi all’attenzione di una Corte inglese: su di esso si è pronunciata, in grado di appello, la Court of Appeal, con la decisione [2023] EWCA Civ 1482 (Giudici Flaux, che ne ha pure redatto il testo, Males e Falk, di opinioni pienamente concordi)[1].

La pronuncia, ben più stringata rispetto a quella, estremamente analitica e precisa, di prime cure (articolata in ben 465 paragrafi)[2], accoglie l’impugnazione e ribalta la decisione del Giudice su alcuni profili rilevanti anche per l’interprete del diritto italiano, tra cui quello della natura speculativa, o meno, di un contratto di swap.

2. I fatti di causa

Prima di tutto, però, una breve sintesi dei fatti[3].

Nel 2002 il Comune di Venezia aveva emesso alcuni titoli obbligazionari (“Rialto bond”) e aveva perfezionato con Bear Stearns un interest rate swap correlato ai debiti così contratti. Nel 2007 il Comune aveva ristrutturato il Rialto bond e aveva concluso, con Banca Intesa e Dexia, due derivati associati alla nuova esposizione debitoria. Più precisamente, i due istituti di credito avevano pagato – ciascuno per una quota – a Bear Stearns il mark to market negativo dell’interest rate swap, pari al valore negativo che lo strumento finanziario aveva in quel momento in relazione alle prospettive sui tassi di interesse, per poi chiudere tale derivato, ormai decorrelato rispetto alle caratteristiche della esposizione debitoria, e concludere con il Comune di Venezia due swap allineati ai nuovi debiti dell’ente locale. I due derivati con Banca Intesa e con Dexia prevedevano, in estrema sintesi, il pagamento del tasso EURIBOR aumentato di alcuni punti base da parte degli istituti di credito su un nozionale pari al debito dell’ente locale, a fronte del pagamento, da parte del Comune, dello stesso tasso, ma con previsione di un floor e di un cap.

Gli swap da ultimo richiamati non erano par: al contrario, essi erano fortemente sbilanciati a favore delle banche (detto in altri termini: i flussi di pagamento a carico degli istituti di credito e dell’ente locale, che costituivano le due gambe degli swap, non erano attesi come pari, ma piuttosto come più onerosi dal lato del Comune). La ragione è semplice: da un lato, ovviamente gli swap introiettavano un compenso a favore degli istituti di credito, coincidente proprio con questa maggiore onerosità per il Comune; da un altro lato, i derivati dovevano consentire agli istituti di credito – di nuovo, per mezzo di questa asimmetria tra le due gambe – di recuperare l’upfront versato al Comune (o, per meglio dire, a Bear Stearn, per chiudere l’interest rate swap già in essere in precedenza).

Il resto è storia: la caduta dei tassi di interesse dal 2008 rendeva economicamente disastrosi gli swap veneziani, obbligando l’ente locale a versare somme determinate applicando al nozionale l’elevatissimo tasso fissato con il floor (pari a oltre il 5%). Ne derivava un contenzioso, giacché il Comune di Venezia riteneva invalidi gli swap così conclusi.

3. La decisione della High Court

Conviene, a questo punto, descrivere i profili principali della decisione di prime cure[4].

Gli swap contestati erano soggetti al diritto inglese: il quale, però, per risolvere le questioni di capacity rinvia all’ordinamento in seno al quale l’ente, della cui capacità si discute, ha assunto la sua soggettività. Ne deriva che i profili inerenti alla capacity (intesa in senso ampio) del Comune di Venezia di concludere gli swap dovevano essere disciplinati, secondo il Giudice Foxton, dal diritto italiano: il quale già nel 2007 poneva diversi limiti alla facoltà degli enti locali di perfezionare derivati (limiti per l’appunto da intendersi, nella prospettiva del diritto inglese, come questioni di capacity[5]).

In particolare, secondo il Giudice Foxton nel 2007 non era permesso agli enti locali italiani di concludere derivati “speculativi”. Il che, in linea generale, imponeva di tracciare una linea di confine tra derivati “speculativi” e di “copertura” e, in concreto, di verificare a quale gruppo ascrivere quelli conclusi dal Comune di Venezia. Gli interrogativi venivano risolti richiamando la comunicazione Consob n. DI/99013791 del 26 febbraio 1999, secondo cui un derivato può considerarsi di copertura essenzialmente se persegue in modo esplicito tale scopo e se vi è una “forte correlazione” tra il derivato e il debito sottostante, e notando come i derivati del Comune di Venezia oggetto di causa, siccome connotati da un mark to market fortemente negativo e soprattutto da un collar (somma di floor e cap) che per forza di cose doveva assorbire gli implied costs, senz’altro assai cospicui, fossero giocoforza speculativi, con conseguente lack of capacity dell’ente locale e, secondo il diritto inglese, voidness dei contratti.

Ad ogni modo, proseguiva il Giudice Foxton, i derivati sarebbero stati nulli anche perché all’ente locale era concesso – secondo il diritto italiano del tempo – di concludere operazioni di finanziamento solo se relative a spese di “investimento” (ex art. 119, comma 6 – ora 7 –, Cost.). Pur con taluni dubbi, secondo il Giudice Foxton già nel 2007 il diritto italiano (anche per come interpretato dalle Sezioni Unite con la nota sentenza 8770/2020, “Cattolica”[6]) vedeva nell’upfront un indebitamento: che, se volto a finanziare spese non “di investimento”, comportava la voidness dei contratti stante il lack of capacity del contraente. Quanto al caso di specie, gli swap presentavano senz’altro un upfront, pari a quanto pagato a Bear Stearns per chiudere l’interest rate swap già in essere: e questo upfront veniva considerato, dal Giudice Foxton, un finanziamento relativo a una spesa non di investimento, con tutte le conseguenze già indicate.

Nonostante le premesse, la decisione finale non era però più di tanto favorevole al Comune di Venezia. Il Giudice riteneva, in effetti, non estinte per prescrizione le pretese restitutorie dell’ente locale (perché «the decision of the Supreme Court in Cattolica represented a fundamental change in the interpretation of the relevant legislative and regulatory provisions» e, quindi, «exercising reasonable diligence, Venice could not have discovered that it had a «worthwhile claim» prior to the Cattolica decision in the Supreme Court»); tuttavia, accoglieva la change of position defence sollevata dalle banche, ossia un’eccezione che il diritto inglese conosce e per mezzo della quale l’accipiens di buona fede di un pagamento non dovuto può rifiutarne la restituzione ove, a causa di un cambiamento di circostanze (per l’appunto, change of position), la restituzione porrebbe il destinatario del pagamento in una situazione peggiore di quella in cui si sarebbe trovato se nemmeno avesse ottenuto il pagamento (il che avviene, ad esempio, quando il pagamento ha spinto l’innocent recipient a porre in essere una spesa che altrimenti non avrebbe sostenuto)[7]. Questa eccezione veniva ritenuta fondata alla luce del fatto che i due istituti di credito, non appena conclusi i nuovi swap con il Comune, avevano perfezionato altrettanti back-to-back hedging swap al fine di coprirsi dai rischi derivanti dai nuovi contratti: secondo il Giudice Foxton, poiché Banca Intesa e Dexia al tempo non potevano essere consapevoli della voidness degli swap con il capoluogo veneto, le pretese restitutorie del Comune dovevano essere rigettate onde evitare (e nei limiti in cui ciò fosse necessario per evitare) che il perfezionamento di questi ulteriori swap ridondasse a detrimento degli istituti di credito.

4. La pronuncia della Court of Appeal: a) natura di hedging degli swap, mark to market negativo e previsione di un floor elevato

Il Collegio della Court of Appeal, chiamato a decidere dell’impugnazione della sentenza, ha accolto i primi due motivi di appello delle banche, così dando vita a una decisione che, nella prospettiva dell’interprete di diritto e di cultura giuridica italiani, suscita molte più perplessità di quella di primo grado: e, soprattutto, segna un ritorno all’orientamento, decisamente dominante prima del 2022 nella giurisprudenza inglese, contrario alla tutela degli locali italiani e all’invalidità dei (numerosissimi) swap conclusi da questi ultimi nei primi anni Duemila (per mezzo di contratti disciplinati dalla legge inglese e soggetti alla stessa giurisdizione)[8].

Anzitutto, la Court of Appeal ha escluso che gli swap oggetto di lite fossero speculativi, argomentando a partire dal fatto che la presenza di un upfront non rende speculative uno swap che nasce per finalità di hedging, come quelli conclusi dal Comune di Venezia (che, da un lato, erano stati perfezionati per uno scopo di copertura condiviso e che, da un altro lato, dovevano comunque necessariamente – stante la normativa pubblicistica vigente – essere conclusi per realizzare tale scopo).

Più nel dettaglio, già in primo grado era stato riconosciuto che gli swap erano corrispondenti, quanto al nozionale e ai flussi di pagamento dovuti dagli istituti di credito, all’esposizione debitoria dell’ente locale, il che li rendeva adeguati rispetto allo scopo di copertura perseguito (e che doveva essere perseguito); tuttavia, il Giudice Foxton aveva ritenuto che l’incorporazione negli swap del mark to market negativo, pagato dagli istituti di credito a Bear Stearns per acquistare l’interest rate swap già in essere (e poi immediatamente chiuso), aveva reso speculative le transazioni con Banca Intesa e Dexia. Viceversa, secondo la Court of Appeal il fatto che proprio lo stesso «negative MTM» accumulato dall’interest rate swap di Bear Stearns già gravasse le finanze del Comune di Venezia impedisce di ritenere che la sua incorporazione nei nuovi derivati li rendesse speculativi: anche questo elemento, infatti, corrispondeva a una «exposure» già sussistente, che semplicemente veniva trasferita in un nuovo strumento finanziario[9].

Tali considerazioni non sono interamente convincenti. Non v’è dubbio che in molti casi – quelli più semplici: plain vanilla – un nuovo swap che ingloba il mark to market negativo di un vecchio swap (che viene così “rinegoziato” o addirittura chiuso e sostituito dal nuovo derivato) non diventa per ciò stesso speculativo: ma esistono anche casi in cui, invece, l’esito è opposto[10].

Pensiamo a un esempio, per l’appunto, semplice[11]: Alfa si impegna a pagare a Beta, su un nozionale di 100 euro, interessi calcolati su un tasso variabile che chiameremo EX, a cadenza annuale per tre anni; si prevede che il tasso EX in parola aumenti dall’1% al 2% e poi al 3%. Beta, che conclude lo swap perché ha in essere un mutuo che prevede la corresponsione di interessi conteggiati sul tasso EX a cadenza annuale per tre anni, promette di pagare ad Alfa interessi calcolati su un tasso fisso del 2%. Come si vede, lo swap è perfettamente par ed è concluso, da parte di Beta, per finalità di hedging. Ora aggiungiamo un elemento: Alfa, nel concludere lo swap, dà a Beta 3 euro; di conseguenza, perché lo swap resti par Beta si impegna a pagare interessi calcolati su un tasso fisso del 3%. In questa ipotesi, in qualsiasi modo evolvano i tassi variabili Beta si troverà a restituire ad Alfa esattamente i 3 euro che ha ricevuto. Di conseguenza, l’upfront pagato viene senz’altro restituito; e se questo fosse servito per chiudere un vecchio swap, con upfront negativo, si potrebbe dire che il debito accumulato si è semplicemente trasferito nel nuovo strumento. La finalità di hedging dello swap non viene per nulla esclusa: semplicemente, vi si aggiunge (senza sconfessarla) un finanziamento, veicolato strutturalmente dall’upfront.

Immaginiamo però un caso diverso, in cui Beta promette di pagare ad Alfa interessi calcolati sul tasso EX, con un floor dell’1% e un cap del 3%. Aggiungiamo, poi, un upfront di 1 euro e ipotizziamo che esso incida su floor e cap (ossia, sul collar), aumentandoli rispettivamente al 2% e al 4%. Lo swap resta par al momento della sua conclusione: ma cosa succederà ove i tassi si eveolvano in modo discordante rispetto alle previsioni, ad esempio diminuendo fin da subito all’1%? Beta dovrà pagare, anziché (come previsto) 2, 2 e 3 (ossia 7) euro, a fronte di 6 euro da ricevere, 2, 2 e 2 (ossia 6) euro, ma a fronte di soli 3 euro da ricevere: come si vede, l’aver ottenuto un upfront di 1 euro le è costato 3 euro[12]. Evidentemente, l’upfront che incide sul collar, spostandolo verso l’altro, inserisce nello swap un rischio ulteriore, che va ben oltre la finalità di hedging dello swap e che quindi, inevitabilmente, lo rende (o per lo meno può renderlo) poco correlato ai rischi alla copertura lo swap sarebbe (o dovrebbe essere) finalizzato (dovendosi valutare, alla luce della già citata comunicazione Consob n. DI/99013791 del 26 febbraio 1999[13], se residua una correlazione “forte” e dunque “sufficiente”).

Questo è quanto è avvenuto nel caso dei derivati veneziani: un collar fissato in misura molto alta per assorbire gli implied cost (tra cui la somma di denaro pagata a Bear Stearns); un’improvvisa, e non prevista, crisi dei tassi, crollati ai minimi storici per diversi anni; di conseguenza,e un’esplosione dl costo del finanziamento tramite upfront, che non si è riversato in modo proporzionale nei flussi di pagamento dovuti dal Comune di Venezia, ma piuttosto è stato ripagato dall’ente locale in modo esponenziale[14].

Non averlo riconosciuto, e non aver riconosciuto che gli swap avevano perso la loro forte correlazione con le finalità di copertura, costituisce una criticità della sentenza d’appello, in cui la pronuncia di primo grado opportunamente non era incorsa. Né vale a qualcosa richiamare – come ha fatto il Collegio inglese – quella giurisprudenza italiana secondo cui un mark to market iniziale negativo non rende lo swap speculativo (ma semmai non par, salvo che sia pagato un upfront volto a ristabilire la parità delle due gambe dello strumento): come si è visto, ciò non è sempre vero. Per verificare se, in una certa ipotesi, così è, bisogna procedere a un’analisi della situazione concreta, che nel caso di specie è senz’altro mancata[15].

5. (segue) b) swap e indebitamento

Soffermandosi sul secondo punto dell’appello, il Collegio ha ritenuto che i pagamenti posti in essere da Banca Intesa e da Dexia a favore di Bear Stearns non costituissero un upfront e che, anche se così fosse stato, ai nuovi swap dovesse essere attribuita natura di copertura, sicché il loro perfezionamento nel complesso avrebbe comunque costituito un indebitamento non contrario all’art. 119, comma 6 (ora 7), Cost.

Anche questo capo della decisione suscita qualche perplessità. In particolare, è ben vero che le somme pagate dagli istituti di credito a Bear Stearns non rientravano in una definizione formale di upfront, non rappresentando somme che una delle parti di uno swap paga all’altra, nel momento della conclusione del contratto, per riequilibrare il suo mark to market negativo: in questo caso, piuttosto, il mark to market negativo si giustificava in virtù dei costi impliciti, che comprendevano (oltre alla remunerazione dell’intermediario) anche e soprattutto il sacrificio economico cui le banche erano andate incontro versando diversi milioni di euro a Bear Stearns. Tuttavia, è altrettanto vero che l’adozione, nel caso di specie, di una definizione rigorosa di upfront non era in alcun modo giustificata: da un canto, perché in una chiave sostanziale il fenomeno concreto era esattamente identico a quello che si ha allorché l’intermediario versa l’upfront alla controparte; da un altro canto, perché una lettura rigida, e formale, dei tratti della vicenda non era imposta da alcuna norma di legge (semmai, le disposizioni vigenti nel 2007 potevano rendere dubbia l’inclusione dell’upfront stesso – inteso come somma direttamente o indirettamente ottenuta da una parte di uno swap a fronte del suo mark to market negativo – nel concetto di “indebitamento” rilevante ai fini dell’art. 119 Cost.: ma tali dubbi erano già stati affrontati e superati dal Giudice Foxton[16]).

Quanto, poi, al secondo punto, stando al quale ai due swap doveva comunque essere attribuita natura di copertura, con la conseguenza al loro perfezionamento nel complesso non avrebbe fatto seguito un indebitamento contrario all’art. 119, comma 6 (ora 7), Cost., è da ribadire che, tutto al contrario, gli swap veneziani non avevano finalità di copertura (o, per meglio dire, non erano sufficientemente correlati ai rischi preesistenti in capo al Comune) e che, in ogni caso, lo scopo (speculativo o di hedging) di uno swap non ha mai nulla a che fare con l’esistenza e, soprattutto, con le finalità (di investimento o meno) dei debiti derivanti dall’ottenimento di un upfront. Piuttosto, la Corte inglese avrebbe dovuto, a tal riguardo, far leva su altri profili: e, in particolare, avrebbe dovuto indagare lo specifico motivo dell’operazione, una volta riconosciutane la natura (sostanziale) di “indebitamento” (quanto all’upfront versato a Bear Stearns da Banca Intesa e Dexia). In linea generale, potrebbe in effetti dubitarsi che ristrutturare un finanziamento in essere voglia dire contrarre nuovi debiti o comunque contrarli per spese (non di investimento, e quindi) correnti: si potrebbe ritenere che così sia solo e soltanto ove la ristrutturazione imponga nuovi oneri (e limitatamente a tali nuovi oneri)[17]. Ne deriva che, accedendo a un concetto ampio (e, anche qui, sostanziale) di “rinegoziazione”, tale da estendersi pure al pagamento del vecchio debito da parte di un nuovo creditore (o di più nuovi creditori), si potrebbe ritenere che nel 2007 l’art. 119 Cost. consentisse agli enti locali di concludere uno swap con upfront, ove tale upfront fosse stato diretto a chiudere un vecchio debito e sostituirlo con uno nuovo.

Certo, a voler così ragionare resterebbero poi da indagare tutti i profili relativi allo strumento del nuovo indebitamento, ossia – nel caso a giudizio – al collar che era stato previsto nei nuovi swap e che rendeva, come si è visto, assai aleatoria l’esposizione contratta dal Comune di Venezia. Tutto ciò, però, rimanda al tema, già discusso, della natura eventualmente speculativa dello swap, più che a una frattura tra i vecchi e i nuovi debiti, in ipotesi troppo profonda perché si potesse parlare di “rinegoziazione” degli primi tramite l’assunzione dei secondi.

Da un punto di vista ancora diverso, ci si sarebbe potuti chiedere se, già nelle pieghe dell’ordinamento vigente nel 2007, fosse possibile riscontrare un divieto specificamente volto a precludere agli enti locali il perfezionamento di finanziamenti tramite strumenti così rischiosi come quello perfezionato dal capoluogo veneto. A tal proposito si sarebbe potuto valorizzare l’art. 3, d.m. 389/2003, secondo cui «un eventuale sconto o premio da regolare al momento del perfezionamento delle operazioni [derivate, anche finalizzate alla ristrutturazione del debito] non [poteva essere] superiore a 1% del nozionale», a sua volta necessariamente pari alla «sottostante passività» effettivamente dovuta dall’ente locale. Tale disposizione, che a rigore vietava la conclusione di swap con upfront particolarmente alti, non è stata però invocata dal Comune di Venezia nel contenzioso di fronte ai Giudici inglesi, benché, a quanto pare, l’upfront fosse ben più elevato dell’1% del nozionale[18].

6. Conclusione: una netta, e forse troppo sbrigativa, chiusura a ogni tutela del Comune di Venezia

Accogliendo i primi due motivi d’appello, i Giudici hanno ribaltato la decisione di prime cure, ritenendo perfettamente validi, e vincolanti, gli swap oggetto di lite.

Gli altri motivi d’appello (degli istituti di credito e del Comune di Venezia) sono stati esaminati, dunque, solo incidenter, tra l’altro per escludere che le pretese del Comune andassero nella loro totalità esenti da prescrizione: secondo il Collegio non è vero che la prescrizione (di sei anni, decorrente dal momento in cui «the claimant discovered, or could with reasonable diligence have discovered, his mistake, in the sense of recognising that a worthwhile claim had arisen or that he had been mistaken with sufficient confidence to justify embarking on the preliminaries to the issue of a writ, such as submitting a claim to the proposed defendant, taking advice and collecting evidence») fosse decorsa solo dal 2020 e, precisamente, dalla sentenza Cattolica, giacché già nel 2010 molti enti locali italiani avevano agito facendo valere un titolo analogo a quello dell’ente locale veneto e, inoltre, poiché è irrilevante che quelle prime cause avessero avuto esito negativo per le pubbliche amministrazioni coinvolte (del resto, «Venice did not need to know that its claim would succeed, just that it was able to plead a proper case, which it could have done in 2010»). Di conseguenza, secondo il Collegio le pretese pecuniarie del Comune di Venezia maturate sino a sei anni prima dell’introduzione del giudizio si sarebbero comunque dovute considerare prescritte.

Nondimeno, come anticipato, questo motivo d’appello è risultato assorbito dall’accoglimento delle prime due ragioni dell’impugnazione: accoglimento che ha portato a rovesciare la pronuncia della High Court e, soprattutto, che ha immediatamente chiuso quello spiraglio, a suo tempo aperto dal Giudice Foxton, in cui gli interpreti avevano ravvisato una virata della giurisprudenza inglese sugli swap degli enti locali italiani[19].

Commentando la decisione di prime cure, chi scrive aveva notato come la stessa evidenziasse molte bene la diversa mentalità del giurista di common law rispetto a quella dell’interprete di civil law. Di fronte alla pronuncia d’appello, la distanza tra la sensibilità d’oltremanica e quella italiana appare ancora più netta: la Court of Appeal ha voluto troncare ogni discussione, anche a rischio di una certa sbrigatività, in nome di un principio – mai invocato per espresso, ma sempre sotteso all’argomentazione dei Giudici – di sanctity del contratto, elevato a unica, reale, ratio decidendi. Le sponde del Tamigi restano lidi accoglienti per le banche: molto meno per gli enti locali, che continuano a pagare – e a far pagare ai contribuenti – l’inesperienza di quanti, nei primi anni Duemila, hanno deciso di concludere interest rate swap e altri contratti derivati.

 

[1] La si può leggere integralmente a questo indirizzo: https://www.bailii.org/ew/cases/EWCA/Civ/2023/1482.html.

[2] Si tratti di Banca Intesa San Paolo and Dexia Crediop v Comune di Venezia [2022] EWHC 2586 (Comm). La decisione è stata commentata, o comunque illustrata, da D. Maffeis, I derivati in Italia e a Londra: la change of position e la perdurante distanza tra giurisprudenza italiana e inglese, in giustiziacivile.com, 21 dicembre 2022; F. Delfini, Nullità contrattuale, restituzioni e change of position defence, in NLCC, 2022, p. 495 ss. (specialmente sui profili di diritto delle restituzioni affrontati dalla sentenza, che nell’attuale sede però hanno minore rilievo); Id., Derivative contracts, anticipatory reliance and remedies in English and Italian law of restitution, in ECCL, 2023, p. 205 ss.; E. Grossule, Speculatività dei derivati. Considerazioni a partire da High Court of Justice (Comm) del 14 ottobre 2022, in Riv. dir. banc., 2023, p. 288 ss.; M. de Pamphilis, La questione della validità dei contratti derivati IRS conclusi dai comuni italiani nello specchio della giurisprudenza inglese, in Pactum, 5 aprile 2023; C. Magli, La violazione degli obblighi informativi e la discussa nullità del contratto di interest rate swap, in Accademia, 2023, p. 672, nt. 119. V. inoltre, volendo, il mio A.M. Garofalo, La High Court e i derivati del Comune di Venezia (ovvero: il problema degli swap degli enti locali e la mentalità del giurista di common law), in Riv. dir. banc., 2023, p. 311 ss.

[3] Un riassunto più analitico nella decisione di primo grado (§§ 17 ss.) e, se si vuole, in A.M. Garofalo, La High Court, cit., p. 314 ss.

[4] Anche qui, per maggiore analiticità v. la decisione di primo grado (§§ 128 ss.), nonché, volendo, A.M. Garofalo, La High Court, cit., p. 323 ss.

[5] Lo ribadisce anche la Court of Appeal, nel pronunciarsi brevemente sul terzo motivo d’appello delle banche: §§ 177 ss.

[6] Cass., Sez. Un., 12 maggio 2020, n. 8770, in Giur. it., 2020, p. 2397.

[7] Anche questo punto è ribadito dalla Court of Appeal, nella motivazione relativa al secondo motivo d’appello del Comune (§§ 189 ss.): motivazione assai stringata, che avrebbe avuto ben diverso peso, se il motivo non fosse stato assorbito dall’accoglimento delle prime due ragioni di impugnazione delle banche.

[8] La sentenza del Giudice Foxton brillava, tra l’altro, per la poderosa opera di ricostruzione dei precedenti giurisprudenziali inglesi: v. §§ 153 ss.

[9] Cfr. § 162: «The second and more fundamental error in [229] is that the suggestion in (vi) that, in entering the Transactions with the significant difference between the cap and the floor, Venice was taking on a significant new risk, is just wrong. The difference constituted the rolling over of the negative MTM to which Venice was already exposed under the Bear Stearns swap. Since that exposure did not render what was a valid hedging swap speculative, it is difficult to see how rolling over of the exposure into the Transactions could render them speculative. In any event, the existence of an initial negative MTM in the Transactions does not in itself amount to speculation, as Cattolica recognised».

[10] Si consenta il rinvio ad A.M. Garofalo, La High Court, cit., p. 338 ss., anche per riferimenti giurisprudenziali.

[11] E semplificato: non considereremo, appositamente, l’attualizzazione dei flussi di cassa.

[12] Nel caso inverso (tassi da subito aumentati al 4%), invece, il finanziamento finirebbe per non essere ripagato. Il fatto è che in casi del genere l’upfront incide sul mark to market iniziale (infatti floor e cap vengono per così dire “prezzati”), ma non dà vita a un obbligo di pagamento certo nell’an e nel quantum (come invece avviene nelle ipotesi prima indicate nel testo). Di conseguenza, il mark to market si modificherà a seconda dell’andamento del mercato e il costo del finanziamento (ossia, l’upfront) potrà ridursi a una cifra inferiore all’upfront stesso o, al contrario, aumentare a dismisura.

[13] Nella sintesi di E. Grossule, Speculatività, cit., p. 299 s., «la Determinazione individua tre precisi criteri di valutazione, stabilendo che uno strumento derivato si considera di copertura quando: 1) le operazioni siano esplicitamente poste in essere al fine di ridurre la rischiosità di altre posizioni detenute dal cliente; 2) sia elevata la correlazione tra le caratteristiche tecnico-finanziarie dell’oggetto della copertura e dello strumento finanziario utilizzato a tal fine; 3) siano adottate procedure e misure di controllo interno idonee ad assicurare che le condizioni di sui sopra ricorrano effettivamente».

[14] Secondo il Giudice Foxton, nella sintesi che della pronuncia di prime cure fa M. de Pamphilis, La questione, cit., p. 9, «a fronte della dichiarata volontà del Comune di concludere il contratto per ristrutturare il Rialto Bond, i termini e le condizioni della nuova transazione (segnatamente, l’imposizione di un collar favorevole alle banche, tale da rendere probabile una perdita in capo all’ente locale) avevano innovato la struttura del bond, addossando sul Comune di Venezia nuovi e non desiderabili rischi». A ciò va aggiunto quanto rileva E. Grossule, Speculatività, cit., p. 302, ossia che, «se il MTM del cap – posto in favore di chi in teoria vuole gestire un rischio di crescita eccessiva dei tassi, ad esempio un’impresa commerciale o un ente pubblico – alla data dello swap si presenta molto più basso del MTM del floor – stabilito invece a tutela di chi sta vendendo la protezione e quindi tipicamente dell’intermediario finanziario – significa che, in concreto, il derivato “inverte” le posizioni delle parti, aggravando, anziché attenuare, il rischio del soggetto che cerca protezione». Conclude l’autore: «se, in concreto, il meccanismo dello swap è tale da invertire le posizioni» (proprio come accade, per usare il lessico della Court of Appeal, in ipotesi di «significant difference between the cap and the floor»), «ci si trova necessariamente di fronte ad un derivato speculativo che non svolge più la sua funzione di trasferimento del rischio dalla parte che cerca una copertura alla controparte finanziaria capace di gestire quel rischio in modo più efficiente».

[15] Come, del resto, è riconosciuto dalla stessa giurisprudenza italiana: v., peraltro con riferimento proprio a un caso non troppo distante da quello veneziano, App. Milano, 28 settembre 2020 n. 2393, in ilcaso.it.

[16] §§ 233 ss. della sentenza di primo grado.

[17] La sentenza Cattolica non è chiara a tal riguardo, anche se (specialmente al § 10) sembrerebbe accedere a un concetto di “spese di investimento” assai rigoroso (inidoneo a ricomprendere gli upfront volti a rinegoziare, o comunque ristrutturare, posizioni debitorie già in essere). Tuttavia, l’allegato n. 4/2 al d.lgs. 118/2011, denominato “Principio contabile applicato concernente la contabilità finanziaria”, al punto 3.22 afferma – apparentemente andando in senso opposto – che, «in caso di rinegoziazione dei prestiti, eventuali indennizzi o penalità dell’operazione» non possano essere considerati «spese finanziate con il nuovo indebitamento», in quanto trattasi di «oneri da registrare nella spesa corrente connessi all’atto e al momento temporale in cui si realizza l’operazione di rinegoziazione»: dal che sembrerebbe potersi desumere che, per gli altri oneri, non si possa parlare di spese correnti (ma solo di spese di investimento o di un tertium genus, ossia di semplice riproposizione di oneri già esistenti, che solo vengono diversamente regolati).

[18] In realtà, la previsione in parola non è chiarissima; ma l’interpretazione sostenuta nel testo è stata proposta, ad esempio, da G. Astegiano, Enti territoriali e strumenti finanziari derivati: margini di utilità e rischi, in Azienditalia, inserto n. 5/2008, XI, e almeno all’apparenza da C. Conti, sez. contr. Lombardia, 26 ottobre 2007, n. 596, oltre che, con ancora maggior rigore, da S. Vesentini, Il giudice civile si pronuncia sui derivati utilizzati dagli enti locali: l’upfront nei contratti di interest rate swap, in Resp. civ., 2010, 829. Addirittura, nel senso dell’inammissibilità di un upfront in caso di operazioni di ristrutturazione di preesistenti derivati, M. Cognolato, Componenti derivative e causa di finanziamento, in Le operazioni di finanziamento, diretto da F. Galgano e curato da E. Panzarini, A.A. Dolmetta e S. Patriarca, Bologna, 2016, p. 1712, nt. 39.

[19] Virata che, anzi, era inattesa dopo le decisioni – successive a Cattolica, ma entrambe di segno negativo – Deutsche Bank v Busto di Arsizio [2021] EWHC 2706 (Comm) e Dexia Crediop SpA v Provincia di Pesaro e Urbino [2022] EWHC 2410 (Comm).

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