Con la pronuncia che si allega, la Suprema Corte di Cassazione conferma il prevalente orientamento giurisprudenziale secondo cui ogni ipotesi di sistematica e reiterata omissione dei versamenti di imposte e contributi previdenziali può integrare la fattispecie di bancarotta per operazioni dolose.
In estrema sintesi, all’odierno imputato veniva – tra le condotte oggetto di imputazione – contestato di aver sistematicamente omesso di versare tributi diretti ed indiretti, contributi INPS e relative sanzioni dal 2003/2004, circa una decina di anni prima del fallimento della Società in cui l’odierno imputato rivestiva la carica di Legale Rappresentante.
Ciò posto, in conformità con le conclusioni raggiunte dalla sentenza di merito qui impugnata, la Suprema Corte precisa in prima battuta il perimetro entro cui circoscrivere la nozione di “operazioni dolose”: “va subito sgombrato il campo dal dubbio che nel concetto di operazioni dolose rientrino solo operazioni materiali che si concretano in un facere, sulla base della etimologia della parola “operazione”, implicante l’attività di chi opera. Invero, anche gli inadempimenti reiterati e sistematici in violazione dei doveri imposti dalla legge all’organo amministrativo nell’esercizio della carica ricoperta risultano sussumibili nel concetto di “operazioni dolose”, laddove integrino una sistematica elusione dei doveri dell’organo gestorio, comportante il fallimento della società, anche se non concretantesi in una diminuzione algebrica dell’attivo patrimoniale, ma determinante, comunque, un depauperamento del patrimonio, non giustificabile in termini di interesse per l’impresa (Sez. 5, n. 40998 del 20/05/2014 Rv. 262188)”.
Peraltro, prosegue poi la Corte, i contorni di tale nozione non sembrano essere incompatibili con la struttura omissiva tipica dell’inadempimento fiscale: “più volte questa Corte ha evidenziato, infatti, che il profilo strutturale “omissivo” della condotta non impedisce la configurabilità del reato (v., ad es., Sez. 5, n. 3506 del 23/02/1995, Rv. 201057) e le operazioni dolose di cui all’art. 223, comma 2, n. 2, legge fall. possono consistere anche nel sistematico inadempimento delle obbligazioni fiscali e previdenziali, frutto di una consapevole scelta gestionale da parte degli amministratori della società, da cui consegue il prevedibile aumento della sua esposizione debitoria nei confronti dell’erario e degli enti previdenziali”.
Sotto il profilo dell’elemento soggettivo, poi, la sentenza precisa infine “che nel fallimento conseguente ad operazioni dolose, esso è solo l’effetto – dal punto di vista della causalità materiale – di una condotta volontaria, ma non intenzionalmente diretta a produrre il dissesto fallimentare, anche se il soggetto attivo dell’operazione ha accettato il rischio dello stesso. La fattispecie in questione è, dunque, a dolo generico (cfr. RV n. 167401; 167402; RV184359; RV 214856); in particolare, di operazione dolosa si parla quando il fallimento, pur essendo ricollegabile in termini causali ad una condotta volontaria non è voluto né previsto dall’agente, sicché il dolo investe la condotta. In tale contesto la Corte territoriale senza illogicità ha ritenuto del tutto verosimile che al momento delle condotte omissive in contestazione l’imputato versasse appunto in una situazione quantomeno di dolo eventuale (accettazione del rischio che la propria condotta omissiva avrebbe cagionato il fallimento della società), stante la sistematicità di tale condotta nel corso degli anni, che ha indebolito progressivamente la struttura patrimoniale dell’impresa ed ha necessariamente determinato, unitamente alle altre cause di dissesto, non determinabili con precisione, in assenza della documentazione contabile, un aumento dei debiti sociali, determinante il fallimento della società”.