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Attualità

Contratti di lavoro a tutele crescenti: un cantiere ancora aperto

31 Luglio 2024

Giuseppe Merola, Associate Partner, Pirola Pennuto Zei & Associati

Di cosa si parla in questo articolo

Il presente contributo analizza il tema dei contratti a tutele crescenti alla luce dell’ultima sentenza della Corte Costituzionale del 16 luglio 2024 che, intervenendo nuovamente sulla disciplina del Jobs Act, ha riconosciuto il diritto alla reintegrazione per il lavoratore licenziato per fatto insussistente.


È una vera e propria opera demolitoria quella attuata nel corso del tempo dalla Corte Costituzionale in riferimento alla disciplina dei contratti di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti.

È di qualche giorno fa infatti l’ultima pronuncia della Consulta che emenda, ancora una volta, le disposizioni contenute nel d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23, attuativo del c.d. Jobs Act. Ma andiamo con ordine partendo dalla normativa introdotta dal Jobs Act e ripercorrendo i vari interventi della Corte Costituzionale che ne ha modificato, quanto meno in parte, l’assetto originario.

Come noto, con l’approvazione del Jobs Act e l’entrata in vigore del d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23, il legislatore aveva strutturato le tutele applicabili ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 limitando a specifiche ipotesi tassative l’ambito di operatività della tutela reintegratoria in caso di illegittimità del licenziamento, che, sino a quel momento, era la tutela comune a tutti i licenziamenti disposti da aziende con più di 15 dipendenti.

In particolare, secondo l’impianto originario voluto dal legislatore del Jobs Act, al dipendente spetta una tutela reintegratoria “piena” (vale a dire la reintegra nel posto di lavoro con condanna del datore a pagare tutte le retribuzioni e i contributi dalla data del licenziamento a quello dell’effettiva reintegra) nei casi in cui il licenziamento presenti vizi particolarmente gravi (si tratta cioè dei casi di licenziamento nullo, discriminatorio e intimato in forma orale), mentre spetta una tutela reintegratoria “attenuata” (vale a dire la reintegra nel posto di lavoro con condanna del datore a pagare un’indennità risarcitoria massima di 12 mensilità, oltre al versamento dei contributi) nei casi in cui il licenziamento sia intimato per motivi disciplinari (giustificato motivo soggettivo o giusta causa) e il Giudice ritenga insussistente il fatto materiale contestato al lavoratore, a prescindere dalla proporzionalità della sanzione irrogata.

In tutti gli altri casi di licenziamento, inclusi anche i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, quelli cioè intimati per motivi “economici”, al dipendente non spetta la tutela reintegratoria (né piena, né attenuata), ma solo il pagamento di un’indennità risarcitoria.

Senonché, l’impianto di tutele così voluto ed attuato dal legislatore del Jobs Act ha dovuto, sin da subito, fare i conti con il vaglio di legittimità costituzionale promosso da vari Tribunali di merito.

Ed è così che già nel 2018 la Consulta, con sentenza n. 194 del 2018, dichiara l’illegittimità costituzionale del meccanismo automatico previsto nell’art. 3 del d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23, che legava l’indennità risarcitoria (quella dovuta per i vizi meno gravi del licenziamento) al solo elemento dell’anzianità di servizio del dipendente.

In particolare, la norma veniva dichiarata illegittima nella parte in cui fissava l’indennità risarcitoria in misura pari ad un importo pari a due mensilità per ogni anno di servizio maturato dal dipendente illegittimamente licenziato.

Per effetto di tale pronuncia, l’indennità risarcitoria deve ora essere quantificata dal Giudice tenendo conto, non solo dell’anzianità di servizio del lavoratore, ma anche degli altri criteri tradizionalmente applicati per la quantificazione del danno da licenziamento illegittimo, come il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’impresa, il comportamento e le condizioni delle parti.

Il secondo intervento demolitorio operato dalla Corte Costituzionale alla disciplina del Jobs Act arriva nel 2020, questa volta in riferimento ai vizi formali e procedurali del licenziamento.

Nello specifico, con sentenza n. 150 del 2020, la Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale della norma di cui all’art. 4 del d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23 nella parte in cui prevede, per il licenziamento intimato in violazione del requisito di motivazione o della procedura disciplinare di cui all’art. 7 della Legge n. 300/1970, la condanna del datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria di importo pari ad una mensilità per ogni anno di servizio.

Tale meccanismo di tutela, anch’esso parametrato esclusivamente all’anzianità di servizio del dipendente, viene quindi giudicato iniquo, dovendosi tenere in considerazione, nella determinazione dell’indennità risarcitoria, anche altri fattori, quali la gravità del vizio, il numero degli occupati, le dimensioni dell’impresa, ecc.

A inizi 2024, la Corte Costituzionale torna nuovamente a pronunciarsi sulla disciplina del contratto a tutele crescenti, dichiarando, con sentenza n. 22 del 2024, l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 del d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23 nella parte in cui limita l’applicazione della tutela reintegratoria agli “altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge”.

Questa volta i Giudici delle leggi hanno ritenuto che l’avverbio “espressamente” debba ritenersi incostituzionale, in quanto il regime del licenziamento nullo – che come sopra visto comporta in favore del lavoratore licenziato una tutela reintegratoria piena – è lo stesso, a prescindere dal fatto che nella disposizione normativa violata sia espressamente prevista o meno la sanzione della nullità.

Ed ecco che a luglio 2024, qualche mese dopo la suddetta pronuncia di incostituzionalità, la normativa di legge sul contratto a tutele crescenti viene nuovamente interessata dall’ennesimo intervento della Consulta.

Ad essere impattati questa volta sono i licenziamenti per motivi economici.

In particolare, con sentenza n. 128 del 16 luglio 2024, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23, nella parte in cui non prevede l’applicabilità della tutela della reintegrazione del lavoratore anche nelle ipotesi in cui il fatto materiale posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia dichiarato insussistente dal Giudice.

Nella stessa sentenza, la Corte ha, altresì, precisato che la reintegrazione non si applica all’ipotesi in cui l’illegittimità del licenziamento derivi dall’inosservanza dell’obbligo di ricollocamento del lavoratore (c.d. repêchage), rispetto alla quale continua ad applicarsi la tutela indennitaria.

La pronuncia apre, quindi, alla reintegra parificando, di fatto, il regime di tutele previsto per i vizi del licenziamento disciplinare a quello previsto per i vizi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

In entrambi i casi, infatti, il Giudice dovrà disporre la tutela reintegratoria attenuata (quella in cui il risarcimento del danno non può eccedere le 12 mensilità) ove sia dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale posto alla base del licenziamento.

Così, per fare un esempio, se l’azienda dispone un licenziamento per soppressione del posto di lavoro ma, all’esito della causa di impugnazione di quel licenziamento, dovesse essere accertato che il posto in realtà non è stato soppresso, il Giudice dovrà adesso disporre la reintegra del lavoratore licenziato nel posto di lavoro.

Diversamente, laddove si accerti che l’azienda ha veramente soppresso il posto di lavoro ma ha tuttavia omesso di ricollocare il dipendente in posizioni alle quali avrebbe potuto essere assegnato, con ciò violando l’obbligo di repêchage, il lavoratore licenziato non potrà ottenere la reintegra, ma unicamente un’indennità risarcitoria compresa fra 6 e 36 mensilità.

Con la sentenza di luglio viene quindi confermato il trend riformista della giurisprudenza costituzionale rispetto all’impianto normativo voluto dal legislatore del Jobs Act.

E ciò avviene quasi in concomitanza con un altro fatto che va nella stessa direzione. Lo scorso 19 luglio sono infatti state consegnate alla Corte di Cassazione le 4 milioni di firme raccolte dalla CGIL per i referendum popolari proposti per l’abrogazione delle leggi – introdotte dal Jobs Act – che limitano le tutele dei lavoratori in caso di licenziamento illegittimo e nei casi di assunzioni a termine e di infortuni negli appalti.

Anche tale iniziativa ha, fra i vari obiettivi dichiarati, quello di eliminare, per i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015, le norme che impediscono la reintegrazione del lavoratore in caso di illegittimità del licenziamento.

Insomma, non proprio un contesto favorevole alla riforma del Jobs Act, che non ha ancora compiuto 10 anni dalla sua entrata in vigore, e già vede scricchiolare le proprie fondamenta.

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