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Giurisprudenza

Società chiuse e computo di azioni proprie per il quorum deliberativo

9 Settembre 2024

Cassazione Civile, Sez. I,  03 settembre 2024, n. 23557 – Pres. Di Marzio, Rel. Falabella

Di cosa si parla in questo articolo

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 23557 del 03 settembre 2024 (Pres. Di Marzio, Rel. Falabella) è tornata a pronunciarsi sulla questione relativa al computo delle azioni proprie nelle società “chiuse”, ai fini del raggiungimento del quorum deliberativo in seno all’assemblea ordinaria.

In particolare, se, nelle società “chiuse”, le azioni proprie – per le quali, ai sensi dell’art. 2357 ter comma 2 c.c., il diritto di voto è sospeso – debbano o meno essere computate ai fini del calcolo del quorum non solo costitutivo ma anche deliberativo dell’assemblea.

Nelle società “aperte” è pacifico invece che dette azioni non debbano essere computate ai fini del calcolo della maggioranza e della quota di capitale richiesta per l’approvazione della deliberazione.

Sul punto, la Corte dichiara espressamente di non volersi discostare dal proprio precedente orientamento espresso nella sentenza n. 23950 del 2 ottobre 2018.

L’art. 2357-ter c.c., ricorda la Cassazione, prevede, al secondo comma, che il diritto di voto delle azioni proprie è sospeso, ma che dette azioni siano “computate ai fini del calcolo delle maggioranze e delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni dell’assemblea”.

La regola opposta è operante invece per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, in quanto per esse il computo delle azioni proprie è disciplinato dall’art. 2368, terzo comma, e quindi dette azioni non sono computate ai fini del calcolo della maggioranza e della quota di capitale richiesta per l’approvazione della deliberazione.

Pertanto, nelle società per azioni che non ricorrono al mercato del capitale di rischio, le azioni proprie debbano essere sempre conteggiate nel calcolo non dei soli quorum assembleari costitutivi, ma anche di quelli deliberativi.

L’odierna versione del secondo comma dell’art. 2357-ter è frutto dell’intervento legislativo attuatosi col D. Lgs. n. 224 del 2010, che ha fatto venir meno la previsione secondo cui le azioni proprie dovevano essere “computate nel capitale ai fini del calcolo delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni dell’assemblea”.

Proprio la distinzione tra la vecchia e la nuova formulazione della norma marca, dunque, in un’accezione di discontinuità, l’intentio legis di fissare un criterio di computo delle azioni svincolato dal capitale sociale assunto nella sua interezza.

La volontà espressa dal legislatore, spiega la Corte, trova ragione nell’esigenza di impedire, nelle società “chiuse”, che le azioni proprie modifichino i rispettivi poteri dei soci e, più in generale, che risulti alterata la c.d. funzione organizzativa del capitale sociale: la prospettiva funzionale associata alla norma vigente è dunque rovesciata rispetto a quella che poteva accostarsi alla precedente versione del testo legislativo, ove era dominante il fine di evitare situazioni di stallo, per l’impossibilità di formare una maggioranza, rispetto a decisioni dalle quali dipendesse la stessa sopravvivenza della società.

La Corte ricorda che il differente impatto delle due prescrizioni nella fattispecie per cui è causa è evidente: in una situazione in cui il gruppo di maggioranza detiene il 47% del capitale sociale, quello di minoranza il 43% e le azioni proprie rappresentano il 10% del detto capitale, la base di calcolo, secondo la regola posta dalla norma oggi in vigore, è sempre rappresentata dalla totalità del capitale, con la conseguenza che gli azionisti di maggioranza non possono mai raggiungere il quorum deliberativo; in base alla prescrizione che imponeva di considerare le azioni proprie solo per i quorum che si configurino come quote del capitale sociale ― per cui la maggioranza assoluta per deliberare doveva essere calcolata sul solo ammontare delle azioni rappresentate dai soci partecipanti all’assemblea, senza tener conto delle azioni proprie di cui fosse titolare la società ― i soci detentori del 47% delle azioni sociali potevano imporre le loro decisioni alla minoranza nelle assemblee ordinarie in seconda convocazione, in cui il quorum si riduceva al 90%.

Conclusivamente, la prima soluzione premia l’esigenza di evitare che l’acquisto di azioni proprie possa alterare il peso delle partecipazioni azionarie all’interno dell’assemblea a vantaggio del gruppo di maggioranza; la seconda valorizza l’interesse a che la formazione della volontà assembleare non sia penalizzata e sfoci nella sostanziale e perdurante inattività dell’organo deliberativo.

Non può nemmeno sostenersi, sostiene la Corte, che la scelta del legislatore italiano sia contrastante col principio di pari trattamento degli azionisti che si trovano in condizioni identiche, di cui all’art. 85 Direttiva 2017/1132/UE, e già contenuta nell’art. 19.1 Direttiva 77/91/CEE, come sostituito dalla dir. 2006/68/CE e nell’art. 21.1 della Direttiva 2012/30/UE.

La direttiva UE si limita a prevedere che il voto delle azioni proprie è sospeso, senza nulla prescrivere quanto al modo con cui le stesse debbano essere calcolate nella formazione dei quorum assembleari.

In linea di principio, sia la soluzione che include le azioni proprie nel quorum deliberativo che quella che le esclude da tale quorum soddisfano il principio di pari trattamento, in quanto riservano a tutti gli azionisti aventi diritto al voto la possibilità di concorrere alla deliberazione nelle medesime condizioni.

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