SOMMARIO: Il paper affronta il tema della programmazione dell’economia alla luce delle recenti iniziative europee e statali e delle prospettive dello Stato imprenditore in base alla teorica che ne recupera il ruolo quale attore resiliente e proattivo in campo economico.
ABSTRACT: The paper is about the economic planning in the light of recent European and national initiatives and the perspectives of the entrepreneurial state, based on a theoretical framework that claims its role as a resilient and proactive actor in the economic sphere.
1. Premessa
Numerosi recenti contributi, anche di giovani studiosi del diritto dell’economia (e non solo), affrontano sempre più frequentemente il tema della programmazione economica o della neo-programmazione o, ancora, della co-programmazione ovvero della programmazione riferita a taluni settori dell’economia (settoriale) utilizzando tale espressione al fine di connotare la tendenza della legislazione in tema di intervento nell’economia o, al polo opposto, di tratteggiare il profilo della overregulation (paradossale nel territorio della semplificazione e dell’avversione alle regole da parte soprattutto delle grandi imprese).
Perlopiù, si tratta di contributi che mirano ad indagare le forme della programmazione prevalentemente in chiave descrittiva, più che esaminare la sua natura in senso tecnico-giuridico o delineare il suo tracciato teleologico. Questo potrebbe essere spiegato se si tiene conto dell’impostazione teorica sottostante inerente alla preferenza per un determinato modus operandi da parte dei policy maker ovvero alla non accurata conoscenza del fenomeno in chiave teorico-pratica, come pure, in taluni casi, storico-legislativa, nelle dinamiche della c.d. costituzione economica.
Nel primo caso, si tratterebbe di una questione di metodo che riguarda gli strumenti e le strategie utilizzate per affrontare un determinato problema, cioè, in definitiva il “come” si opera: se, dunque, il metodo prescelto non è quello “in linea” con le categorie giuridiche idonee, il risultato non potrà essere soddisfacente; nel secondo, il problema è forse più complesso da risolvere trattandosi di una questione di carattere cognitivo in cui taluni bias inibiscono la corretta analisi del tema o del problema ovvero “il cosa” o “il perché” sono lontani dall’essere indagati alla luce, per l’appunto, degli strumenti cognitivi posseduti.
Tale approccio rischia di trascurare, talvolta, l’analisi di talune delle implicazioni normative, come l’integrazione tra gli strumenti di programmazione e i principi costituzionali, e di limitare la capacità di affrontare le trasformazioni economiche e sociali entro un quadro regolatorio adeguato. Questo deficit di approfondimento potrebbe altresì ostacolare una comprensione critica delle sfide poste dalla globalizzazione e dai nuovi modelli di sviluppo sostenibile.
Una breve riflessione su questi aspetti pare, dunque, necessaria al fine di offrire un contributo al dibattito in corso di svolgimento, soprattutto tenendo conto della rapidità trasformativa degli assetti e delle istituzioni dell’economia nel delineato quadro di riferimento connotato dal potenziale ritorno dello Stato quale parte attiva della programmazione europea.
Il perseguimento dei medesimi obiettivi da parte delle due entità richiamate contribuisce alla rilettura della programmazione economica quale movente del complessivo progetto di rilancio dell’economia adottato dallo Stato resiliente, che non interviene soltanto nelle fasi emergenziali ma “agisce”, anche a favore delle imprese, come usa dirsi, in maniera proattiva: da una fase nella quale la programmazione economica veniva considerata come un fattore di inibizione dello sviluppo e della competitività, si è passati ad un programmazione per lo sviluppo che vede l’Unione europea quale ente promotore e gli Stati quali soggetti co-programmatori ed attuatori del progetto, non soltanto nella prospettiva della tutela del mercato ma anche implementando le politiche per la solidarietà, assurta, anche se ancora con qualche ombra, a principio ispiratore delle azioni de quibus.
2. Profili evolutivi in chiave europea
Innanzi tutto, occorre porre in evidenza un profilo che spesso non viene trattato con la dovuta cura, dando per scontati concetti e significati relativi all’argomento in oggetto. Il lemma programmazione (declinata in vario modo: territoriale, economica, settoriale, globale, ecc.) viene utilizzato per esprimere una pluralità di manifestazioni o di fenomeni economici, attività, regolazioni (pubbliche[1]), alternata, a volte (erroneamente) sovrapposta, se non confusa, con l’espressione pianificazione o piano.
In maniera più specifica, la programmazione economica può essere considerata come l’espressione del modo e dell’intensità dell’intervento pubblico in campo economico, attuata in base alle disposizioni della c.d. costituzione economica, intervento pubblico realizzato, di norma, per il tramite di strumenti da realizzarsi in un arco temporale medio-lungo. La contrapposizione tra programmazione e pianificazione viene in evidenza con riferimento a specifiche esperienze acquisite e ad un determinato indirizzo politico: in sintesi, nel primo caso, essa viene, di norma, presa in considerazione nei Paesi nei quali sussiste o si promuove il modello dell’economia di mercato; nel secondo, si fa riferimento ai modelli economici ad economia pianificata.
Da quanto detto, si evince che lo strumento della programmazione economica nei sistemi nei quali vige l’economia di mercato non possa essere considerato come un modello incompatibile né con l’ordinamento europeo (in alcuni casi il diritto UE non è contrario nemmeno ai monopoli) né con le regole che incentivano la promozione della concorrenza (ad esempio per favorire l’innovazione tecnologica[2], peraltro principio rinvenibile nell’art. 9 Cost.), né, tanto meno, con le attività statali che stabiliscono le modalità di allocazione delle risorse pubbliche da destinare a finalità sociali e ambientali come richiesto dal novellato art. 41 Cost. ai fini della tutela degli «interessi generali della collettività» e dei diritti e della «dignità delle persone» che, per tale ragione, assoggetta «a questo scopo (…) regolamentazioni e controlli da parte di pubblici poteri»[3].
Le dinamiche in atto, ad esempio, individuano nella c.d. transizione ecologica uno degli elementi che giustificano la programmazione economica, proprio in virtù del processo omnnitrasformativo ad essa sotteso. Se si volessero individuare taluni elementi comuni riguardanti la programmazione dell’economia eco-sostenibile, i mercati e la persona nell’attuale contesto di riferimento[4] questo potrebbe essere individuato, per l’appunto, in tale dimensione.
L’intervento pubblico nell’economia, in tale contesto, è un veicolo per promuovere iniziative proattive sia contro il fenomeno dei cambiamenti climatici, una delle emergenze globali che, forse più di altre, involge l’interazione fra Stato/i e mercato/i, una convergenza di obiettivi che promette di trasformare il capitalismo del XXI secolo, sia per sostenere il processo della ricordata transizione che non può realizzarsi senza l’ausilio finanziario statale ed euro unitario né, quindi, essere realizzata per il tramite di uno Stato equidistante o neutrale che si limita a fare da arbitro.
A tale riguardo, la prospettiva si allarga anche ad iniziative politico-strategiche degne di menzione che assumono rilevanza in ambito europeo[5] e che, anzi, da quello cagionano ricadute in termini di sviluppo economico generale e settoriale.
Oltre tutto, le espressioni programmazione, piano, programmi sono costantemente utilizzate nei documenti ufficiali degli organi europei nell’ambito della politica di bilancio, in quella dei fondi strutturali e nelle proposte di regolamenti più significativi inerenti a taluni settori dell’economia.
Un’esemplificazione esaustiva è praticamente impossibile considerando la vastità e la varietà della documentazione esistente. E, tuttavia, l’individuazione di taluni di essi consente almeno di tratteggiare taluni aspetti che confermerebbero l’indirizzo dell’Unione europea verso una sempre più accresciuta “presenza” in campo economico nella determinazione delle linee programmatiche relativamente a determinati settori dell’economia. Si vuole porre in luce come l’azione politica, in particolare quella della Commissione – che a seguito della pandemia ha rafforzato il suo ruolo “politico” (e, probabilmente, in questo può intravedersi la crisi della politica degli Stati) – sia riscontrabile in una pluralità di regolamenti che ne hanno decretato la rilevanza dopo gli anni della tecnica e del mito della neutralità.
Si intravedono scelte che certo abbisognano di competenze correlative che in molti casi non appaiono normativamente attribuite, ma al piano sostanziale il loro esercizio pare transitare verso l’entità sovranazionale.
In definitiva, se è vero che la tecnica ha dominato la scena degli anni della globalizzazione e dell’integrazione verticale (e in molti campi della legislazione essa permane), è anche vero che la politica e il diritto – cioè lo Stato – hanno iniziato la fase di recupero delle proprie funzioni: basti pensare al settore ambientale a quello delle nuove tecnologie, alle materie prime critiche, all’intelligenza artificiale, alla regolazione per incentivi per comprendere come possa individuarsi una cambio di rotta, almeno parziale, nel quale la prospettiva politica appare riprendere, seppur lentamente, una dimensione che, segnatamente e significativamente, prende la forma della programmazione. Attraverso il Piano per la ripresa economica, la traiettoria impressa dal RePowerEU[6], il salto in avanti compiuto con il Chips Act[7] (parte integrante della transizione digitale e verde e, oltre tutto, normativa rilevante ai fini dell’implementazione del sostegno alla produzione dei semiconduttori), l’approvazione del regolamento sull’intelligenza artificiale, il Digital Markets Act[8], ed altro ancora, ad esempio, l’UE sembra aver cambiato rotta rispetto alle politiche per (favorire) la concorrenza, un cambiamento tangibile – sebbene principalmente finalizzato a contrastare specifici eventi avversi, per poi, verosimilmente, riprendere il cammino interrotto – rispetto alla parabola disegnata sin dalla costituzione delle Comunità economiche europee che ha fatto dell’entità sovranazionale il più strenuo paladino del liberismo e della consequenziale retrocessione dello Stato dall’economia.
Non solo, ma molti intellettuali hanno evidenziato, in passato, come la programmazione europea fosse diventata una necessità alla luce del processo di integrazione in rapida ascesa, alla quale si sarebbe dovuto, però, per l’appunto, affiancare un governo economico europeo[9]. Questo profilo, assai interessante da ripercorrere nelle sue dinamiche e nei suoi passaggi epocali (che qui non è possibile tratteggiare), può essere indicativo di come del tema se ne sia sempre argomentato in sede di approfondimenti scientifici e, in particolare, del ruolo dello Stato nell’economia che regola tramite incentivi. Si tratta, com’è noto, del tentativo non tanto di sganciare le politiche degli aiuti dalla normativa di riferimento, quanto di alleggerirne la rigidità dinanzi alle contingenze economiche che caratterizzano l’attuale fase di rilancio globale dell’economia. Un percorso intorno al quale si è molto discusso in passato, in presenza soprattutto della crisi finanziaria nell’ambito della quale la sordità degli organi europei dinanzi alle richieste statali di utilizzare la leva degli aiuti pubblici non ha reso un buon servizio all’economia di quegli anni.
Da questo punto di osservazione, la regolazione per incentivi (aiuti di Stato, negativi e positivi) manifestata nel corso della crisi pandemica è stata alluvionale, in una prima fase in chiave di semplificazione delle procedure (non una resa incondizionata allo Stato patrigno ma alleggerimento del vaglio di compatibilità), in una seconda adottando misure quantitative, in una sorta di rincorsa delle emergenze, per natura ed effetti, che si sono verificate negli ultimi anni.
Nel contesto considerato, si sono manifestate due esigenze: da un lato, quella di rendere maggiormente flessibili gli aiuti a carattere sia ripristinatorio sia per il rilancio dell’economia, dall’altro, di impostare un quadro regolatorio ad ampio raggio, intervenendo in più settori economici in maniera sia diretta sia indiretta anche per far fronte alla sempre più aggressiva politica di sussidi posta in essere dagli attori globali dell’economia, che, verosimilmente, porterà ad una guerra di aiuti su larga scala, i quali non sempre genera esiti positivi.
Tali brevi considerazioni, che costituiscono, evidentemente, solo le teste di capitolo di un discorso assai più ampio e articolato sul piano sia dell’analisi della legislazione pertinente sia in ordine alle conseguenze prodotte, sia, come ovvio, al piano della c.d. costituzione economica materiale[10] (anch’essa, spesso, non adeguatamente indagata nelle sue dinamiche), risultano essere necessarie per sgombrare il campo, soprattutto per quanti approcciano per la prima volta il tema o ne evocano l’esistenza per incidens, in contributi non infrequentemente carenti di specificazioni teoriche e di riferimenti agli apporti della dottrina che hanno avuto modo di occuparsi, nel tempo, del tema in oggetto, appaiono d’una certa utilità, anche pratica, al fine di “leggere” in maniera corretta e giuridicamente coerente, rispetto alle disposizioni della c.d. costituzione economica, l’evoluzione dell’ordinamento costituzionale ed europeo in un campo del giuridico ricco di novità anche al piano dell’evoluzione dei rapporti tra Unione europea e Stati nazionali e nella complessa interrelazione con i Paesi terzi e le organizzazioni a carattere multilaterale.
Quando ci si approccia al tema della programmazione occorre, dunque, considerare non soltanto le sue finalità – diretta conseguenza del disposto costituzionale di cui all’art. 3, c. 2, Cost. – ma anche la sua matrice giuridica, potremmo dire abilitante. E soprattutto, occorre essere consapevoli delle trasformazioni della c.d. costituzione economica che, com’è notorio, ha quale sua caratteristica peculiare l’elasticità e la adattabilità a tutte le situazioni contingenti, circostanza, beninteso, non sempre da registrare in maniera favorevole soprattutto quando tale elasticità comporta l’emergere di fattori trasformativi anche significativi, se non radicali o antitetici, in ordine alla (perdita della) normatività del disposto costituzionale. Lo si è visto, in passato, allorquando il cambio di direzione impressa dalle politiche per la concorrenza ha, di fatto, reso inapplicabile (anche in questo caso: non abrogazione ma, semmai, e con molta cautela, disapplicazione) il disposto di cui all’art. 41, c. 3, Cost. proprio in relazione alla programmazione per incentivi il cui titolo abilitativo era rappresentato per l’appunto dalla disposizione in parola.
Se la disciplina dell’economia è considerata come una delle attività fondamentali dei pubblici poteri, lo strumento della programmazione economica non può essere considerato puramente e semplicemente, come purtroppo talvolta si legge, come l’espressione della reiterata presenza invadente dello Stato nell’economia ma come attuazione dei precetti costituzionali, cioè costituzione materiale dell’economia, pur in contesti di riferimento diversi a seconda dei cicli economici.
3. Alla ricerca della solidarietà. Lo Stato imprenditore
Non solo, ma lo stesso diritto dell’economia dell’Unione europea, declinazione del diritto dell’economia propriamente inteso[11], evoca talune manifestazioni, per dir così, interventiste nella interpretazione delle disposizioni del Trattato di Lisbona e dei regolamenti europei oggi sempre più incanalati verso obiettivi non soltanto economici ma anche di tutela dei soggetti vulnerabili[12]: non certamente la riedizione di modelli tipo welfare state scaturiti dalle costrizioni sociali ma propensione verso un modello più vicino all’economia sociale di mercato come attuata nei Paesi socialdemocratici dove sembra abbia funzionato nei quali, com’è noto, accanto al rigore nelle politiche di bilancio si accompagna una particolare attenzione nei confronti dei sistemi di garanzia delle fasce più deboli e, anzi, potrebbe dirsi che proprio grazie ad oculate politiche di bilancio, in quei casi, risulterebbe meno difficoltoso garantire di diritti a prestazione.
L’economia sociale di mercato, oltre tutto, spesso evocata quale “strumento” (sic) dell’Unione europea – e addirittura ritenuto modello rinvenibile nella c.d. costituzione economica italiana, ignorando presupposti storici (si ricordi che in sede di Assemblea costituente il mercato era considerato persino un «disvalore»[13]) e contenutistici della medesima – per “dimostrare” (per la verità in modo nient’affatto convincente) la coincidenza delle sue proposizioni concettuali con le finalità sociali di cui all’art. 41 Cost., è pur sempre un modello derivato dall’economia di mercato che avrebbe, in verità, ben poco a che vedere con le istanze delle socialità fatte proprie dalla Costituzione che, infatti, stabilisce quale compito della Repubblica il perseguimento dell’eguaglianza sostanziale (il ricordato art. 3, c. 2, Cost.).
Eppure, una potenziale formula conciliativa potrebbe risultare necessaria, se non riscontrabile in fase embrionale e, anche in questo caso con ogni cautela, di prossima realizzazione se si considerano gli ampi sforzi, normativi e giurisprudenziali, che possono essere tratteggiati alla luce del principio di solidarietà europea come declinato dalla Corte UE e della Corte europea dei diritti dell’uomo, ma anche nel quadro delle politiche di coesione, di cui la programmazione è, infatti, il presupposto[14].
Non è certo possibile, almeno in questa sede (ma con l’obiettivo di riprendere il tema in futuro), ricostruire tutto il percorso storico-evolutivo che conduce a tale affermazione apparentemente apodittica: benché l’«idea» di solidarietà nel diritto UE[15] non possa essere certo declinata nei modi e nei contenuti stabilizzatisi nelle costituzioni sociali e che, ad esempio, lo stesso Trattato di Lisbona ne limiti, o addirittura ne impedisca l’attuazione (come ne caso della solidarietà finanziaria, pure, per la verità da taluno recuperata quale modus agendi degli organi UE a seguito dell’adozione del Next Generation EU), non può essere sottaciuto il percorso, sì lento, faticoso, parziale e incompleto (almeno considerando la competenza in materia di diritti sociali che resta di pertinenza statale) del processo evolutivo compiuto – ma ancora non definitivo che fa dire, per l’appunto, che l’Europa sociale risulti «introvabile»[16].
Non soltanto la “normativa covid”, ma anche quella precedente ad essa, prova a fornire una lettura nuova della solidarietà europea (almeno, per l’appunto, della sua idea) non, com’è evidente, abdicando ai principi ispiratori della tutela del mercato aperto e in libera concorrenza o del divieto degli aiuti statali o, ancora, dei vincoli finanziari che limitano le potenzialità delle politiche economiche domestiche, ma argomentando in ordine ad una “rilettura” o alla evidenza di una “tendenza al cambiamento” che, come, ad esempio partendo dalle statuizioni della Corte UE in materia di energia[17] (c.d. solidarietà energetica), s’intravede un mutamento sostanziale dello “spirito” del Trattato e che le “chiusure” di ordine finanziario sembrano aprire spiragli d’innovazione relativamente alla mitigazione della legislazione per divieti[18].
I due ordinamenti, dunque, sembrerebbero essere antagonisti se si continuasse ad analizzarli separatamente, come due corpi estranei e, invece, la loro complementarietà rende non soltanto peculiare la strutturazione in termini istituzionali ma riflette il tentativo di intrecciare i valori di entrambe le entità rafforzandosi reciprocamente nella dimensione operativa e concreta. Al di là dell’approccio euroscettico o anche solo da europeista scettico – come direbbe Ralf Dahrendorf – non si può non constatare che la determinazione di un indirizzo politico in chiave programmatoria dell’economia – che è la continuazione della politica[19] – sia oggi incardinato nell’Unione europea come negli Stati nazionali, con modalità in parte differenti e spesso con finalità talvolta configgenti, ma in uno spirito comunitario nella misura in cui la leva dell’economia è divenuta un tratto sì parziale ma ineludibile nello scenario che s’intravede all’orizzonte, alla luce non della fine della globalizzazione ma della sua riorganizzazione in forme diverse.
Se si accosta alla disciplina della programmazione l’invasività dello Stato nell’economia si commetterebbe un errore nel metodo, giuridico oltre che storico. L’equazione programmazione = Stato imprenditore, come connotato della negazione dell’economia di mercato, è foriera di un’interpretazione il cui sostrato è intriso di ideologismi, gli stessi peraltro avversati dai sostenitori dell’equidistanza dello Stato dall’economia, della regolazione indipendente del mercato, del dialogo regolatorio in cui, ovviamente, gli stakeholder costituiscono il perno dell’attività regolatoria se non il motore o l’on and off delle trame della regolazione.
La nozione di Stato imprenditore, peraltro, spesso ingenera equivoci interpretativi e, verosimilmente, la descrizione delle sue dinamiche è frutto di una contraddizione in termini o comunque di una lettura parziale e, dunque, fuorviante: non necessariamente l’espressione Stato imprenditore indica lo Stato come proprietario dei beni di produzione dell’economia o quale determinante i prezzi dei beni di consumo (accostamenti invero improponibili).
Esso, al contrario, può essere indicato quale means di innovazione nelle dinamiche economiche proprie delle transizioni e dei momenti di passaggio, potremmo dire (ancora una volta) trasformativi dell’economia: lo si vede nelle più recenti formule di intervento nell’economia adottate in pressocché tutti i Paesi europei come pure negli Stati Uniti d’America, padre dell’anarcocapitalsimo eppure il più fervido sostenitore delle politiche per l’innovazione tecnologica, come dimostra non soltanto la sua storia più risalente ma anche quella più recente, da realizzarsi per il tramite di ingenti investimenti pubblici (talvolta anche in violazione delle norme previste nel quadro del sistema OMC).
Così, lo lo Stato imprenditore – Entrepreneurial State, com’è il titolo del fortunato volume di Mariana Mazzucato tradotto in italiano Stato innovatore – viene considerate come «a leading agent in achieving the type of innovative breakthroughs that allow companies, and economies, to grow, not just by creating the “conditions” that enable innovation»[20]. E per questo, la sua attività di programmazione diviene lo strumento fondamentale per raggiungere gli obiettivi di sviluppo che esso si propone: Small Business Innovation Research programme (USA), Advance Technology programme (USA), Big Society Programme (UK), investimenti nel settore energetico, programma di lungo periodo di prestiti alle imprese, e così via. Si tratta della «renaissance of industrial interventionism»[21] oppure del riconoscimento dell’importanza dell’industria nel rafforzamento della competitività e della crescita economica europea[22]? Recenti studi hanno dimostrato che proprio la legislazione americana sopra citata stia producendo crescita e sviluppo in molti settori economici come il digitale e il green e la «number one priority» per la sostenibilità e la resilienza[23].
La programmazione è generale, non necessariamente invasiva, determina il contenuto dei programmi susseguenti. Non dissimilmente, il Next Generation EU costituisce una forma di programmazione generale, e i piani nazionali sono programmi di attuazione o programmi settoriali (per usare la terminologia, rimasta insuperata, di Massimo Severo Giannini). La legge di bilancio costituisce uno strumento che non è considerato tecnicamente atto di programmazione ma è pur sempre una programmazione che riveste finalità economiche incidenti non soltanto sull’operatore economico ma anche sulla collettività. Tutti i programmi svolti dalle istituzioni pubbliche non indicano un’intrusione dello Stato nell’economia ma specificano le modalità attuative della programmazione adottata sulla base delle esigenze delle collettività e quale leva per le attività economiche come stabilite, ad esempio, nel Documento di economia e finanza.
Come sottolineato in altre occasioni, è bene ribadirlo per ovviare ad eventuali distorsioni del pensiero, l’Ue svolge un ruolo di traino delle politiche – su questo pare non possano esserci dubbi – ma la direzione è la medesima: tutela del mercato aperto e in libera concorrenza, liberalizzazioni, flessibilizzazione (prevalentemente procedurale) degli aiuti di Stato, e così via. Riconoscere la trazione europea dell’economia non vuol dire aderire all’impostazione di fondo che caratterizza l’agere della Commissione e degli organi UE in campo economico (cioè la reiterata formula della tecnica che sovrasta la politica). Come pure non significa sostenere un (supposto) révirement nell’intervento nell’economia che, com’è chiaro, non può che essere sostenuto dal bilancio europeo considerati i vincoli finanziari in capo agli Stati e soprattutto le condizione delle finanze pubbliche di molti di essi.
Insomma, sul piano sostanziale, la programmazione economica si concretizza nell’esercizio dell’attività ordinatoria attraverso la quale i pubblici poteri determinano a chi e come assegnare risorse finanziarie, come regolare l’uso delle materie prime, come orientare i capitali, e così via. Non si tratta, dunque, della programmazione a finalità di direzione dell’economia ma predisposizione di atti preordinati al conseguimento di obiettivi sia di matrice costituzionale sia di provenienza europea. In questo senso, l’attività di regolazione da parte dell’Unione europea è certamente molto più intensa rispetto al passato ma, per l’appunto, secondo un tracciato di policy ormai evidente: nelle grandi sfide di carattere epocale che caratterizzano l’evoluzione tecnologica e il processo di trasformazione dell’economia, la Commissione ha riacquistato un ruolo che sembrava perduto (o, forse, mai svolto) nel tentativo di costruire le premesse per una maggiore competitività delle imprese europee nello scenario della “nuova globalizzazione” o di quel che rimane di essa dinanzi alle transizioni.
Non può sottacersi, dunque, come l’opzione in favore della programmazione sia frutto di una decisione politica, della quale si dice essere carente prima di tutto l’Unione europea. La stessa UE utilizza l’espressione programma o programma quadro o piano in numerosi atti come ad esempio quello relativo alla Ricerca e sviluppo contenuto nel programma Horizon Europe (dotazione 100 miliardi di euro): il problema è la comparazione con gli Stati Uniti i quali, al contrario, focalizzano sulla cosiddette tecnologie dirompenti una mole d’investimenti ben superiore alla programmazione europea[24]. Se ne trova traccia anche nella programmazione per contrastare gli effetti dell’Inflation Reduction Act e degli investimenti cinesi in innovazione: alla programmazione statuinitense, non a caso, la Commissione ha fornito una risposta in termini politici. La strategia per la competitività imporrebbe una programmazione generale che sviluppi investimenti su ampia scala e soprattutto nei settori nei quali le imprese europee appaiono in ritardo: altro che, dunque, fine della globalizzazione.
È solo una questione di lessico, dunque? Oppure si tratta di un ricercato mutamento di ruolo – si direbbe da Stato quasi-federale – per far sì che l’Unione europea reclami il suo progetto strategico che periodicamente evoca per sé stessa nel tentativo di autolegittimarsi in taluni processi e in taluni mercati nei quali risulta assente?
Se si osserva la storia dell’integrazione europea, la caratteristica principale è quella del funzionalismo economico, della prevalenza della tecnica sulla politica, della regolazione dei mercati attraverso autorità indipendenti e così via. Lo Stato regolatore prende il posto dello Stato programmatore. La tecnica, il posto della politica. I numeri, il posto della socialità.
Qualcosa, tuttavia, come si diceva poc’anzi, appare in controtendenza rispetto al passato. Occorre allora ribadire alcuni elementi caratterizzanti il nuovo corso euro-statale in campo economico.
Gli strumenti previsti per dar corso alle progettualità sussunte nelle maglie della programmazione economica assumono una portata molto significativa – potrebbe dirsi a matrice trasversale – scorgendosi elementi che, da un lato, riducono la tradizionale separazione tra pubblico e privato, dall’altro, provano a conciliare diritto e tecnica.
L’approccio si colloca, cioè, in una linea di indirizzo che potrebbe definirsi come duale – relativa, cioè, alla dimensione dello stimolo economico dell’impresa sia pubblica sia privata – inerente allo spostamento dell’asse di riferimento dal mero interesse individuale verso una dimensione collettiva/comune che riguarda una pluralità di interessi e di mercati, con l’obiettivo di considerare le iniziative pubbliche verso la sostenibilità quale veicolo del buon funzionamento del mercato, criterio orientativo per il sostegno pubblico delle imprese[25] ma anche veicolo di una diversa concezione – se possibile – del capitalismo.
A ben vedere, la funzione di indirizzo dell’economia non concerne soltanto la previsione delle leggi d’incentivazione dell’economica per finalità pro-concorrenziali (nella configurazione di forme plurime e plurisettoriali) ma anche per «conseguire risultati apprezzabili non garantiti dal mercato». Alla luce della «prospettiva costituzionalistica, le leggi di incentivazione non sono chiamate a ripristinare tanto l’eguaglianza sostanziale tra operatori economici, quanto l’eguaglianza sostanziale tra cittadini»[26], dato che la visuale della sostenibilità non solo economica connota di sé il nuovo corso disciplinare verso profili di carattere anche, o, per meglio dire, necessariamente, sociale.
4. Inversione di rotta
Dall’azione pubblica intrapresa si scorge un’inversione di tendenza rispetto ad un eventuale superamento del funzionalismo economico – o comunque di una sua attenuazione dinanzi al momento di difficoltà dell’economia europea (tanto che, in effetti, sarebbe soltanto una situazione temporanea) – al fine di orientare le attività delle imprese non soltanto rivolte al profitto ma anche al perseguimento di obiettivi comuni.
Verosimilmente, si tratta di un passaggio o di un momento temporaneo, eppure il giurista dell’economia non può non registrarne la sussistenza.
In tale contesto, l’innovazione tecnologica diviene un fattore nodale per la promozione dello sviluppo in chiave ambientale (oltre che etica e sociale) in una prospettiva che potrebbe definirsi come involgente caratteri dell’inclusività in senso ampio, cioè della predisposizione di strumenti di partecipazione alla vita economica e sociale per il tramite delle nuove tecnologie: un’idea di sviluppo quale fondamento del perfezionamento della condizione materiale umana come assunta da una visione ottimista del progresso[27].
La trama innovativa si indirizza, dunque, verso interventi di carattere strutturale come, ad esempio, le infrastrutture, come anche quelli di carattere peculiare quali le riforme di sistema o l’implementazione di settori specifici (sostegni alle start-up,[28] interventi diretti, garanzie, ecc.), come, del resto, già indicato dall’Obiettivo 9 dell’Agenda 2030 per uno sviluppo sostenibile che promuove, appunto, l’industrializzazione inclusiva e sostenibile attraverso il sostegno dell’innovazione.
La programmazione economica in corso di svolgimento sembra poter agevolare questo processo, consentendo il disincaglio di alcune criticità normative e operative in una pluralità settori che ineriscono sia alle questioni dello sviluppo e dell’ambiente sia alla garanzia della socialità (sia pure in una limitata e notoria posizione di retroguardia rispetto alle esigenze di tutela del mercato) sia, infine, ad una corretta gestione delle finanze pubbliche in termini di sostenibilità come riaffermato dopo l’approvazione delle modifiche al Patto di stabilità e crescita.
Del resto, l’azione europea in questo ambito è particolarmente incisiva, peraltro in una strettoia che percorre fattori interni ed internazionali: i primi inerenti alla legislazione di attuazione della programmazione; i secondi che scaturiscono dalle contromisure assunte in risposta alle politiche protezioniste adottate da parte di taluni Paesi industrializzati come gli Stati Uniti d’America.
Su questo versante, la flessibilizzazione della normativa in materia di aiuti di Stato diviene uno degli elementi qualificanti dell’approccio neo-interventista (seppure, per così dire, “autorizzato”): non l’abdicazione alle regole generali a tutela della concorrenza, ma un’azione per lo sviluppo economico – come, del resto, prefigura lo stesso art. 107, §3, TFUE allorquando prevede deroghe, per l’appunto, per lo sviluppo – e per la realizzazione del principio della coesione economica, sociale e territoriale[29].
In questo ambito, le strategie previste sono sospinte, fra l’altro, dai fondi per lo sviluppo regionale che puntano alla riduzione di divari economici presenti nei diversi Stati membri. Si vedano gli accordi di partenariato, uno strumento operativo che dispone di risorse finanziarie, che si aggiungono a quelle degli Stati membri, volte a realizzare l’obiettivo sopra indicato. In questa direzione sono indirizzati gli interventi economici finanziati dall’apposito fondo di rotazione[30] e dal fondo di sviluppo e coesione, obiettivo tra l’altro di carattere nazionale come previsto dal combinato disposto dell’art. 117, c. 5, Cost. e dell’art. 174 del TFUE.
La richiamata flessibilizzazione della disciplina degli aiuti di Stato, dunque, pone gli Stati dinanzi a responsabilità assai significative soprattutto nel quadro dell’applicazione del regolamento sulle esenzioni dalla notifica preventiva, recentemente modificato[31], che, com’è noto, annovera fra gli aiuti orizzontali potenzialmente compatibili quelli allo sviluppo e all’innovazione e all’ambiente[32]. Si tratta di una proposizione attinente alla riduzione del rischio potenziale dell’ambiente innervando di sé il principio di precauzione che può essere identificato, in termini generali, nel «do not significant harm» che mira a superare la logica della prevenzione perché mentre il primo indicherebbe l’identificazione di un rischio incerto, il secondo profilerebbe la sussistenza di un rischio misurabile[33]. A tale proposito, gli Stati membri sono chiamati ad assicurare che, nell’impiego dei fondi del Recovery Plan, ogni intervento salvaguardi gli equilibri ambientali, consolidando il principio del “Do No Significant Harm” (DNSH) come criterio guida delle politiche di sviluppo economico Dal punto di vista giuridico, viene in evidenza l’esigenza di un’analisi approfondita degli effetti ambientali dei progetti, così ampliando la prospettiva normativa d’intervento. Nel contesto del diritto dell’economia, l’obiettivo della sostenibilità ambientale, perseguito attraverso il criterio DNSH, assume un’importanza centrale per la governance economica: la sostenibilità, pur con le differenziazioni contenutistiche e di teoria generale che in questa sede non possono essere svolte, non è più considerata un elemento accessorio o opzionale delle attività economiche, ma un parametro obbligatorio che incide sulla stessa programmazione euro-unitaria. Tale impostazione ha portato all’introduzione di disposizioni giuridiche più stringenti nell’ordinamento per l’autorizzazione di progetti infrastrutturali e industriali, accompagnati da valutazioni di impatto ambientale dettagliate e in linea con il principio DNSH, integrando così la sostenibilità nelle politiche economiche e nei processi decisionali.
Il Net Zero Industry Act[34] (la proposta legislativa che, fra l’altro, si configura come strumento che si propone di rendere più rapido il processo di transizione verso la neutralità climatica, non da tutti, invero, ritenuta convincente[35]) costituisce, inoltre, uno degli strumenti legislativi europei quale elemento strategico per una politica industriale per lo sviluppo dell’industria green, al quale deve aggiungersi il Critical Raw Materials Act[36] con il quale l’esecutivo europeo intenderebbe contrastare l’egemonia cinese sul versante dell’approvvigionamento delle materie prime strategiche (strumento legislativo che costituisce un elemento di interoperatività, ad esempio, con il citato Net Zero Industry Act).
Gli Stati, dal canto loro, hanno moltiplicato le sovvenzioni pubbliche alle industrie delle batterie (Germania e Francia), dei pannelli solari, dell’acciaio a idrogeno (Spagna), della chimica industriale (Paesi Bassi), soprattutto a seguito delle crisi economiche degli ultimi anni (emergenza pandemica, guerra russo-ucraina). I Paesi scandinavi sono fra i primi sostenitori delle misure d’incentivazione verso la ricerca e lo sviluppo delle nuove tecnologie in attuazione di un indirizzo strategico avviato a partire dalla crisi del 2008 con il quale la Commissione aveva rilevato una significativa differenza fra le imprese «a cui si aggiungono investimenti di minore entità nella R&S e nell’innovazione, un uso insufficiente delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, la riluttanza all’innovazione di alcuni settori delle nostre società, ostacoli all’accesso al mercato e un ambiente imprenditoriale meno dinamico»[37].
L’obiettivo di quel momento, infatti, era già stato individuato nella creazione di un tracciato europeo per lo sviluppo e l’innovazione quale presupposto per la crescita sostenibile, anche in chiave ambientale. Quanto sperato per il 2020, cioè una spesa europea pari al 3 per cento del PIL, ha deluso le aspettative, percentuale che, come si diceva, per i Paesi scandinavi viaggia al ritmo del 4 per cento.
Negli ultimi tempi, si registra quanto già avvenuto nel corso della pandemia[38], cioè, sostanzialmente, l’assetto diversificato delle misure di sostegno fra Paesi europei, che fa emergere il rafforzamento delle economie più forti rispetto a quelle più deboli, in termini di disponibilità di bilancio.
L’ulteriore modifica della legislazione sugli aiuti pubblici alle imprese, contenuta nella revisione del suo regime giuridico – anche questo a scadenza (2025) – per consentire agli Stati una maggiore resilienza e l’adozione di strumenti per promuovere la concorrenza, si pone in controtendenza rispetto alla tradizione europea che, in ogni caso, verrebbe “ripristinata”al termine dell’adozione delle misure legislative, quasi a voler confermare come il “sistema” si fondi, perlopiù, sulle deroghe alla normativa piuttosto che quale momento di rinnovamento effettivo (tema sul quale si è già avuto modo di svolgere talune riflessioni[39]). Anche in questo caso, pur con tutti i fondati “ma”[40], lo Stato medita un ritorno in grande stile, a condizione che la sua azione non ripercorra antichi cammini – per la verità di difficile percorrenza proprio in ragione del diritto UE e delle situazioni economiche di fatto – che ne hanno decretato, complice l’assenza della politica, la “fine” (in realtà, non la sua fine, ma la crisi delle sue funzioni). Il ritorno dello Stato per il tramite della programmazione, dunque, se ben concepito, può rappresentare una risposta efficace alle crisi globali e un elemento di stabilità per l’economia e la società. Tuttavia, questo richiede un cambio di paradigma: lo Stato non deve più essere percepito come un attore monolitico, ma come un facilitatore di processi dinamici, integrato in un sistema di governance efficiente, che, in attuazione della c.d. costituzione economica, favorisca la collaborazione pubblico-privato, incentivi le imprese che sviluppano nuove tecnologie e promuovano la sostenibilità ambientale, orienti le politiche verso obiettivi a lungo termine, non ecceda nella regolamentazione e sostenga i settori strategici anche per il tramite di strumenti finanziari innovativi.
[1] S. Amorosino, Le regolazioni pubbliche delle attività economiche, Torino, 2021, 1 ss., passim.
[2] V. Falce, Stagioni e dimensioni del diritto dell’innovazione. Il raccordo con l’economia di mercato sociale, in A. Antonucci, M. De Poli, A. Urbani (a cura di), I luoghi dell’economia. Le dimensioni della sovranità, Torino, 2019, 113 ss.
[3] S. Amorosino, Le regolazioni pubbliche delle attività economiche, cit., 3.
[4] G. Luchena, La programmazione multilivello dell’economia e condizionalità, in Federalismi.it, 2 febbraio 2022.
[5] P. Gaggero, Programmazione comunitaria per la ripresa e la resilienza nel prisma della solidarietà, in Rassegna di diritto pubblico europeo, n. 1, 2024, 1 ss.
[6] Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni, Piano REPowerEU, Bruxelles, 18 maggio 2022, COM(2022), 230 final.
[7] Regolamento (UE) 2023/1781 del Parlamento europeo e del Consiglio del 13 settembre 2023 che istituisce un quadro di misure per rafforzare l’ecosistema europeo dei semiconduttori e che modifica il regolamento (UE) 2021/694 (regolamento sui chip).
[8] Regolamento (UE) 2022/1925 del Parlamento europeo e del Consiglio del 14 settembre 2022 relativo a mercati equi e contendibili nel settore digitale e che modifica le direttive (UE) 2019/1937 e (UE) 2020/1828 (regolamento sui mercati digitali).
[9] M. Albertini, L’aspetto di potere della programmazione europea, in Thefederalist.eu, n. 2, 1999, 127 ss.
[10] G. Di Gaspare, Diritto dell’economia e dinamiche istituzionali, Padova, 2017, 127 ss.
[11] G. Luchena, Orizzonti del diritto dell’economia: un’introduzione. Oggetto, metodi, dottrine, in Riv. trim. dir. econ., n. 4, 2023, 424 ss.
[12] Su cui, per tutti, P. Corrias (a cura di), I soggetti vulnerabili nella disciplina comune e nei mercati regolamentati, Napoli, 2022.
[13] G. Amato, Il mercato nella Costituzione, in Quad. cost., n. 1, 1992, 1 ss.
[14] P. Gaggero, op. cit., 22.
[15] Pi. Mengozzi, L’idea di solidarietà nel diritto dell’Unione europea, Bologna, 2022, passim.
[16] M. Benvenuti, Libertà senza liberazione (a proposito dell’introvabile “dimensione sociale europea”), in Studi in onore di Francesco Gabriele, I, Bari, 2016, 35 ss.
[17] Corte UE 15 luglio 2021, causa C-848/19P, Germania c. Polonia.
[18] Pi. Mengozzi, op. cit., 258
[19] R. Manfrellotti, L’economia è la continuazione della politica con altri mezzi, in Rassegna di diritto pubblico europeo, 2011, 13 ss.
[20] M. Mazzucato, The Entrepreneurial State, London, 2011, 18.
[21] K. Wennberg, C. Sandström, Introduction, in Iid (eds.), Questioning the entrepreneurial State. Status-quo, Pitfalls, and the Credible Innovation Policy, Cham, 2022, 4.
[22] Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni: Per una rinascita industriale europea [COM(2014)14 final 22.1.2014].
[23] S. Perin Vinton, J. Lin, R. Rendler, The Next Industrial Renaissance, Franklin Templeton, February, 2024, reperibile online al sito: next-industrial-renaissance-feg-a.pdf.
[24] 4,1 mld di dollari dell’Agenzia di ricerca per i progetti avanzati della difesa (DARPA, Defence Advanced Research Projects Agency) statunitense rispetto al Pathfinder dello European Innovation Council (EIC) che ha un budget di 256 milioni di euro per il 2024: cfr. il c.d. Rapporto Draghi, Il futuro della competitività europea, Parte A – Una strategia di competitività per l’Europa, settembre 2024, 28.
[25] L. Ammannati, Energia e ambiente: regolazione per la transizione, in M. Passalacqua (a cura di), op. cit., 173; G. Luchena, Gli strumenti di sostegno pubblico alla conversione ambientale, ivi, 183 ss.
[26] M. Luciani,Gli aiuti di Stato nella Costituzione italiana e nell’ordinamento europeo, in Eurojus.it, n. 3, 2019, 70.
[27] T. Picketty, Un’idea di progresso, in Il Mulino, n. 2, 2015, 192 ss.
[28] L’Italia risulta essere trentesima a livello europeo come sistema di start up . Nel 2023 le start up innovative sono diminuite del 5,25% passando dalle 14.262 del 2022 alle 13.513 del 2023. Si riscontra il seguente dato positivo: benché ci sia stato un calo, nel 2022 è salita la quota di investitori internazionali con una percentuale salita al 45%.
[29] Su cui v. l’interessante volume di D. Mone, Costituzione, regionalismo e coesione territoriale, Napoli, 2023.
[30] Legge 16 aprile 197, n. 183, “Coordinamento delle politiche riguardanti l’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee ed adeguamento dell’ordinamento interno agli atti normativi comunitari”.
[31] Regolamento (UE) 2023/1315 della Commissione del 23 giugno 2023 recante modifica del regolamento (UE) n. 651/2014 che dichiara alcune categorie di aiuti compatibili con il mercato interno in applicazione degli articoli 107 e 108 del trattato e del regolamento (UE) 2022/2473 che dichiara compatibili con il mercato interno, in applicazione degli articoli 107 e 108 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, alcune categorie di aiuti a favore delle imprese attive nel settore della produzione, trasformazione e commercializzazione dei prodotti della pesca e dell’acquacoltura.
[32] Il Consiglio europeo, su proposta della Commissione, adottò la strategia Europa 2020, la cui idea di fondo era quella di stabilire alcuni obiettivi da raggiungere nel corso del decennio: dall’aumento dell’occupazione alla lotta al cambiamento climatico, dalla promozione di istruzione e ricerca al contrasto della povertà e dell’esclusione sociale. La strategia Europa 2020 era stata concepita, ormai un decennio fa, come piano di uscita dalla recessione iniziata nel 2008. Una crisi economica che, oltre a produrre danni economici e sociali, aveva reso evidenti alcuni limiti e contraddizioni nella “gestione” dell’emergenza economica continentale.
[33] D. Belvedere, La tutela precauzionale dell’ambiente il ruolo della giurisprudenza nel riconoscimento del rischio da fattori inquinanti, in G. Cerrina Feroni, T.E. Frosini, L. Mezzetti, L. Petrillo (a cura di), Ambiente, energia, alimentazione. Modelli giuridici comparati per lo sviluppo sostenibile, Vol. I, Tomo I, cit., 159.
[34] Proposta di Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che istituisce un quadro di misure per rafforzare l’ecosistema europeo di produzione di prodotti delle tecnologie a zero emissioni nette (normativa sull’industria a zero emissioni nette), Bruxelles, 16 marzo 2023, (COM)2023 161 final.
[35] S. Tagliapietra, R. Veugelers, J. Zettelmeyer, Rebooting the European’s Net Zero Industry Act, reperibile online al sito: bruegel.org, 22 June 2023.
[36] Proposal for a Regulation of the European Parliament and of the Council establishing a framework for ensuring a secure and sustainable supply of critical raw materials and amending Regulations (EU) 168/2013, (EU) 2018/858, 2018/1724 and (EU) 2019/1020, Brussels, 16th March 2023, COM(2023) 160 final. La proposta, fra l’altro, specifica che: «The Regulation states that the general objective is to ensure the EU’s access to a secure and sustainable supply of critical raw materials by pursuing four specific objectives: to strengthen EU’s capacities along the different stages of the value chain, to diversify EU’s imports of raw materials, to improve monitoring and risk mitigation capacities and to ensure a well-functioning single market while improving the sustainability and circularity of critical raw materials» (punto 5).
[37] Comunicazione della Commissione, Europa 2020, Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, Bruxelles, 3 febbraio 2010, COM(2010) 2020 definitivo.
[38] M. De Cono, G. Roncarati, Aiuti di Stato emergenziali, A. Di Pietro, M.A. Collado, P. Essers. A. Menendez, T. Tassani (a cura di), Aiuti di Stato: il ruolo delle giurisdizioni nazionali ed europee, Bari, 2023, 211 ss.; C. Ruggiero, Gli aiuti di Stato in materia tributaria e le emergenze economiche, in Riv. trim. dir. econ., n. 3, 2023, 387 ss.
[39] G. Luchena, Il “nuovo” intervento pubblico nell’economia: come sistema di deroghe e come coprogrammazione a impulso europeo, in Riv. trim. dir. econ., n. 4, 2022, 57 ss.
[40] G. Amato, Bentornato Stato, ma…, Bologna, 2023.