La cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito è qualificabile come donazione indiretta qualora detta somma, all’atto della cointestazione, risulti essere appartenuta a uno solo dei cointestatari, rilevandosi che, in tal caso, con il mezzo del contratto di deposito bancario, si realizza l’arricchimento senza corrispettivo dell’altro cointestatario: a condizione, però, che si sia verificata l’esistenza dell’animus donandi, consistente nell’accertamento che il proprietario del denaro non aveva, nel momento della cointestazione, altro scopo che quello della liberalità.
Nel caso in esame, la Suprema Corte non solo non ritiene necessario che l’animus donandi debba emergere direttamente da un atto pubblico, come invece è previsto nel caso di donazione diretta, ma altresì cassa con rinvio la sentenza della Corte di Appello che aveva ritenuto che la prova animus donandi dovesse essere data per iscritto in quanto, nel caso di specie, il negozio utilizzato dalle parti è stato quello di apertura di conto corrente che, ai sensi dell’art. 117 d.lgs 385/1993 deve essere redatto per iscritto. Ritiene infatti la Corte di Cassazione che nella donazione indiretta la liberalità si realizza mediante il compimento di uno o più atti che, conservando la forma e la causa che è ad essi propria, realizzano, in via indiretta, l’effetto dell’arricchimento del destinatario, sicché l’intenzione di donare emerge non già, in via diretta, dall’atto o dagli atti utilizzati, ma solo, in via indiretta, dall’esame rigoroso, di tutte le circostanze di fatto del singolo caso.