Con il provvedimento in esame, la Corte di Cassazione si è posta dinanzi ai complessi risvolti giuridici seguenti al celebre crac Parmalat, con potenziali riflessi altresì su contenziosi sorti in connessione ad episodi analoghi. A fronte della richiesta di risarcimento danni avanzata nei confronti dell’istituto di credito da parte di un correntista trovatosi a detenere, inter alia, valori mobiliari emessi da Parmalat Finance Corporation in relazione ai quali il capitale era stato perduto, il Supremo Collegio, ricollegandosi a quanto già statuito nei primi due gradi di giudizio, ha evidenziato la maggior tutela da riconoscersi all’investitore non qualificato e, in presenza di inadeguatezza delle operazioni, ha confermato il diritto al risarcimento da parte del correntista medesimo.
In particolare, a fronte di una decisione negativa ad opera del giudice di seconde cure, l’istituto di credito ha formulato un coacervo non indifferente di motivi di ricorso, tutti respinti dalla Cassazione. In primo luogo, è stata confermata da quest’ultima Corte la qualifica di “investitore non qualificato” del correntista, sia per la sua qualità di persona fisica sia per la mancata sussistenza dell’apposita dichiarazione richiesta ai sensi dell’articolo 31.2 del regolamento Consob 11522/1998, rilevante per il caso di specie. In secondo luogo, è stato altresì negato qualsivoglia rilievo dell’“esame atomistico” prospettato nel ricorso al fine di confutare la valutazione “tratta da una pluralità di indici considerati unitariamente ed interrelati tra di loro” che aveva condotto il giudice di secondo grado a connotare le operazioni come inadeguate, data la presenza di “indici del tutto oggettivi” quali “la natura incontestata di titoli esteri e la conseguente operatività in mercati non regolamentati caratterizzati da minori garanzie, l’incidenza molto rilevante sul patrimonio mobiliare complessivo, il livello di rischio indicato nella scheda prodotto”.
In aggiunta, la Cassazione ha negato la rilevanza, anche in termini di quantificazione del risarcimento danni, del mancato rispetto, ad opera del correntista, dei suggerimenti di diversificazione forniti dall’istituto di credito. Ricollegandosi ad una corrente giurisprudenziale espressa anche in recenti pronunce (Cass. 12262/2015; Cass. 8462/2014), la Suprema Corte ha evidenziato come, in assenza di adeguata informazione fornita all’investitore dall’istituto di credito, sorga una responsabilità contrattuale, con risarcimento che “non può essere limitato al mero interesse negativo da responsabilità precontrattuale, ma ha ad oggetto la effettiva perdita patrimoniale subita a causa dell’investimento”. Peraltro, la mera “mancata condivisione da parte dell’investitore dei suggerimenti” non integra “l’esposizione volontaria ad un rischio, o, comunque, la consapevolezza di porsi in una situazione da cui consegua la probabilità che si produca a proprio danno un evento pregiudizievole” (Cass. 11698/2014) o almeno “l’inosservanza delle comuni regole di prudenza” (Cass. SS.UU. 24406/2011), impedendo di guisa ogni riduzione del danno da risarcire.
Infine, la Corte di Cassazione ha sottolineato l’inammissibilità o l’assenza di fondatezza dei motivi di ricorso volti a negare l’esistenza di un conflitto di interessi caratterizzante l’istituto di credito, evidenziando, tra gli altri, come la non configurabilità del conflitto costituisca “una censura nuova, nulla essendo stato dedotto nel giudizio di merito in ordine al grado d’interesse proprio nella negoziazione” da parte dell’istituto medesimo.
Di conseguenza, il Supremo Collegio ha respinto il ricorso con applicazione del principio di soccombenza in ordine alle spese e negando qualsiasi riduzione del danno da risarcire ad opera dell’istituto.