La sentenza n. 711/2015 del Tribunale di Udine, partendo dall’analisi di una peculiare e complessa forma di contratto di leasing, svolge un’interessante esegesi in tema di interazioni fra negozi aventi ad oggetto strumenti finanziari e fattispecie contrattuali causalmente diverse, quali appunto la locazione finanziaria.
Quello sottoposto all’attenzione della Corte era un contratto di leasing di immobile da costruire su un terreno che la società concedente aveva acquistato da una terza società.
Lo schema negoziale (almeno apparentemente) prescelto dai contraenti era quello del c.d. “leasing traslativo”: la società utilizzatrice aveva scelto il bene in funzione delle proprie esigenze, ed esso era stato acquistato dalla banca, che se ne era intestata la proprietà in funzione di “garanzia” della restituzione del sottostante finanziamento.
Tuttavia, accanto a questa struttura per così dire “tradizionale”, era apposta al negozio in oggetto una clausola di indicizzazione al Libor e al rapporto di cambio Euro/Franco Svizzero.
Le predette previsioni, alla prova dei fatti, avevano attribuito al contratto di leasing una natura sostanzialmente speculativa e ad alto rischio, che, a detta dell’utilizzatore, aveva completamente “snaturato” la funzione traslativa perseguita dai contraenti. Ancora, – sempre stando alle censure della parte attrice – le suddette clausole di indicizzazione e di “rischio cambio” avrebbero dovuto classificarsi come “strumenti finanziari”, con conseguente necessità di applicare ad esse la disciplina dettata dal TUF in tema di obblighi gravanti sugli intermediari finanziari.
Da qui, fra le varie (invero molte) domande della parte attrice, vi era quella di declaratoria di invalidità, e, in subordine, di risoluzione, del contratto di leasing.
L’analisi del Tribunale è tanto articolata quanto interessante.
Costituisce fatto pacifico che, di per sé, la locazione finanziaria non rientri fra i servizi e le attività di investimento né fra gli strumenti finanziari di cui agli articoli 1 e 5 del TUF.
Nel caso di specie, tuttavia, il Tribunale ha rilevato come accanto alla funzione traslativa perseguita dal leasing, le parti avessero inteso inserire nel contratto innegabili elementi di aleatorietà: il punto nodale risiedeva nel comprendere se quelle particolari pattuizioni restassero ancillari alla causa “principale”, cioè a quella traslativa, oppure se si atteggiassero in maniera autonoma, con la conseguente soggezione a discipline settoriali.
Quanto alla clausola di indicizzazione, la sentenza n. 711/2015 ha rilevato che essa comportava un vero e proprio scambio di flussi monetari, che si affiancavano all’ordinario ammortamento dell’importo finanziato a tasso fisso.
Tali flussi dovevano pertanto considerarsi oggetto di un contratto a termine – con scadenza coincidente con quella prevista per le singole rate dileasing – collegato ad un tasso di interesse: in altre parole, la clausola di indicizzazione introduceva un meccanismo identico a quello apprestato dagli “strumenti finanziari derivati” di cui all’art. 1, comma 2, lett. h) e comma 3, del TUF.
La complessiva struttura del rapporto, tuttavia, ha indotto il Giudice a ritenere che l’indicizzazione, lungi dal costituire un’operazione fine a sé stessa, fosse intimamente collegata alla funzione del leasing: essa, infatti, interveniva a modificare il piano finanziario sotteso alla locazione finanziaria, introducendo un elemento di aleatorietà consapevolmente pattuito fra le parti.
In questo senso, dunque, la clausola di indicizzazione non alterava la causa tipica del leasing, ma costituiva una mera previsione accessoria allo stesso, talché la banca – con riferimento a tale pattuizione secondaria – non poteva dirsi tenuta a rispettare gli obblighi previsti per l’intermediario finanziario dal TUF.
Diverse le considerazioni del Tribunale nella valutazione della clausola di “rischio cambio”: in forza di essa, il canone mensile oggetto del contratto di leasing viene utilizzato come semplice base di calcolo per determinare il differenziale spettante all’uno o all’altro contraente, senza alcuna ulteriore funzione di riequilibrio del sinallagma contrattuale o di “compensazione” degli effetti dell’indicizzazione.
In questo senso, la clausola di “rischio cambio” si atteggia alla stregua di “strumento finanziario” ai sensi dell’art. 1 comma 2, lett. g), TUF e appare dotata di propria e autonoma causa rispetto a quella del leasing: si è dunque in presenza di un collegamento negoziale fra due contratti, ciascuno causalmente indipendente dall’altro.
La dicotomia fra i due rapporti contrattuali, quello di leasing e quello costituito con la clausola di “rischio cambio”, importa le seguenti conseguenze: da un lato, le somme versate dall’utilizzatore in forza della clausola di rischio cambio non costituiscono il corrispettivo del contratto di leasing (talché non era certo possibile, come invece sosteneva la parte attrice, che tali importi finissero per assurgere a “interessi usurari”); dall’altro la banca, con riferimento a quello specifico strumento finanziario, avrebbe dovuto attenersi alle regole di condotta imposte agli intermediari finanziari dal TUF e dalla normativa regolamentare.
Acclarato peraltro l’inadempimento della banca a tali obblighi normativi, il Tribunale ha dichiarato risolto il contratto di “rischio cambio”, così accogliendo una delle domande in ipotesi formulate da parte attrice.