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Giurisprudenza

Commissioni occulte: commento a Tribunale di Pescara, 11 ottobre 2012, n. 1241

24 Ottobre 2012

Prof. Avv. Daniele Maffeis

Tribunale di Pescara, 11 ottobre 2012, n. 1241

Di cosa si parla in questo articolo

Le “commissioni occulte”, secondo la sentenza del Tribunale di Pescara in data 11 ottobre 2012, costituiscono un indebito: la ragione risiede nella circostanza che esse non sono pattuite in contratto.

La sentenza conferma una tendenza giurisprudenziale esatta.

Trib. Udine, 1 luglio 2011 aveva riscontrato la situazione di conflitto di interessi che si registra nella predeterminazione, ad opera dell’intermediario, di commissioni implicite statuendo che “sarebbe stato necessario esplicitare tutte le ragioni di conflitto e quindi anche la presenza delle commissioni implicite (o margine lordo dell’operazione)” facendone seguire la responsabilità e la condanna dell’intermediario, atteso che “il nesso di causalità deve ritenersi in re ipsa allorché l’intermediario abbia violato l’obbligo di astensione”.

Trib. Milano, 14 aprile 2011 aveva esaminato il caso dei derivati di un ente locale in cui il mark to market iniziale era negativo per il Comune per Euro 576.000,00 e non era prevista l’erogazione di alcun up front. Il tribunale così aveva riassunto, in motivazione, le difese dell’intermediario: “la banca convenuta ha obbiettato come in realtà i contratti “par” nella realtà delle contrattazioni finanziarie sarebbero inesistenti” ed “utopistici, prevedendosi invece in tutti i contratti derivati un mark to market iniziale negativo per il cliente, espressione delle commissioni e del corrispettivo spettante alla banca per l’operazione”.

L’affermazione secondo cui il derivato può non essere par, ab initio, pur rispondendo alla più genuina convinzione dei tecnici (i quali si fanno volentieri carico di ripetere che l’idea stessa del c.d. “costo zero alla stipula” sarebbe fuori dalla realtà) appariva subito, ed è, grave: essa era, ed è, in contrasto con quanto si rinviene in numerose fonti, e ineccepibilmente il Tribunale di Pescara oggi opportunamente richiama l’Allegato 3 al Regolamento Consob 11522 del 1998 (ma c’è anche, tra l’altro, la Comunicazione Consob n. DIN/ 9019104 in data 2 marzo 2009).

Soprattutto, l’affermazione secondo cui il derivato potrebbe non essere par, ab initio, appariva, ed appare, grave, perché lascia scoperto il quesito circa la natura giuridica dell’up front, la cui funzione cesserebbe di essere quella di (bilanciare i flussi futuri previsti e così) di rendere il derivato par.

Non solo: lo squilibrio iniziale del derivato, se è favorevole alla banca e non è compensato da un up front, è iscritto a conto economico in conformità ai principi contabili internazionali. Ciò assume rilevanza in sede penale, perché integra un incremento del patrimonio dell’intermediario, contestuale alla conclusione del contratto, idoneo in astratto ad integrare il profitto illecito dell’intermediario, quale elemento materiale che comporta la consumazione del delitto di truffa.

A distanza di più di un anno da Trib. Milano, 14 aprile 2011, gli argomenti in campo appaiono i medesimi: da un lato, si sostiene che le commissioni occulte costituiscono un indebito, o che la loro applicazione integra un’azione in evidente conflitto di interessi, dall’altro si sostiene che le commissioni occulte (i) non sono tali perché incorporate nelle condizioni economiche del derivato, quindi evidenti, e che la loro applicazione è lecita, perché rispondente alla prassi; (ii) equivarrebbe a sostenere che l’intermediario debba prestare la sua attività senza un guadagno e senza un margine che compensi i c.d. costi di transazione, costi di rischi di credito, costi di modello, spese (in tal senso, non a sorpresa, si esprime l’International Swaps & Derivatives Associatio (ISDA) nel documento “The Value of a New Seap” e l’Associazione Bancaria Italiana nel documento visibile al http://www.abi.it/doc/124170237246187_g_servizi_1.pdf).

Dal punto di vista sociologico, andrebbe studiato a fondo il fenomeno per cui, ad una argomentazione giuridica – le commissioni costituiscono un indebito, sono applicate in conflitto di interessi – si replica con un argomento dichiaratamente non giuridico – si fa così, in finanza -.

Dal punto di vita giuridico, si deve osservare che, se è vero che in finanza si fa così, è vero però che il legislatore della finanza non lo sa: nel diritto della finanza, l’applicazione di usi è testualmente vietata dall’art. 23 del Testo Unico dell’Intermediazione Finanziaria, e le prassi, ammesso che esistano, giuridicamente sono – se lo sono – usi, non altro.

Ma il quadro è ancora più grave, perché, se si dice che le commissioni implicite non sono tali perché sono  incorporate nelle condizioni economiche del derivato, e quindi sono evidenti, bisogna rinunciare a dire che le condizioni economiche dei derivato sono il frutto di una previsione. Difatti, per dire che le condizioni economiche del derivato sono il frutto di una previsione, e al tempo stesso rendono evidenti le commissioni implicite, bisogna dire una cosa assurda: cioè che l’investitore recepisce nel derivato la previsione del suo consulente, e deve prenderla come tale, una precisione, pur non sapendo in qual misura essa sia incisa dalla remunerazione dell’intermediario.

Siccome uscirne è un rompicapo forse si spiega, anche senza l’ausilio dei sociologi, perché ad una argomentazione giuridica – le commissioni costituiscono un indebito, sono applicate in conflitto di interessi – si replica con un argomento dichiaratamente non giuridico – si fa così, in finanza -: la ragione è che un argomento giuridico a difesa delle commissioni implicite non c’è.

Sembra così, se si sfoglia la rigogliosissima letteratura del secolo scorso sul contratto di scommessa: se l’intermediario può vantare il compenso per la negoziazione per conto proprio, deve pattuirlo a latere, perché egli è e resta un mandatario, e il compenso, l’investitore, lo deve vedere ed accettare.

Carlo Manenti nel 1909 (in Riv. dir. comm., 1909, pag. 313) lo ricordava per il caso dell’entrata del commissionario, che fosse stato incaricato di concluderli per conto del cliente, nei contratti differenziali: cumulo, anche qui, delle qualità di mandatario e di scommettitore.

Scommessa, certo: perché l’art. 23, comma 5 del Testo Unico dell’Intermediazione Finanziaria, quando statuisce che “a(i) derivati (…) non si applica l’art. 1933 del codice civile”, non esclude che i derivati siano scommesse, bensì, tutto al contrario, e sol che si legga la norma, lo presuppone, e lo presuppone allo specifico scopo di escludere un tratto di disciplina proprio delle scommesse, cioè la  c.d. eccezione di gioco di cui all’art. 1933 cod.civ. (prevista per l’ipotesi notoriamente meno rilevante di contratto di scommessa, cioè il caso del c.d. gioco tollerato).

Scommessa, certo: una scommessa sovente rinegoziata, dove l’intera operazione economica di rinegoziazione (quantificazione del c.d. Mark to market; quantificazione del c.d. up front) ruota intorno a un unico, determinante, esclusivo interesse – l’unico che spiega perché mai l’intermediario si presti a rinegoziare una scommessa in un momento in cui, per lui, le previsioni sono favorevoli – e cioè l’interesse dell’intermediario ad applicare commissioni. Occulte.

Dunque, le commissioni occulte come causa unica, qualificante, esclusiva di numerosissimi contratti derivati, siano essi, o non, il frutto di rinegoziazioni: ecco il vero interesse della sentenza del Tribunale di Pescara e, soprattutto, l’interesse a monitorare con attenzione la prossima evoluzione della giurisprudenza.

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