Con la Sentenza n. 18628 del 23 settembre 2016 la Corte di Cassazione annovera una nuova pronuncia in materia di beneficiario effettivo ai fini convenzionali, con particolare riferimento alla sussistenza dei requisiti propedeutici al riconoscimento del diritto al credito d’imposta previsto nell’ambito dell’articolo 10, comma 4, lett. b)[1] della Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Regno Unito[2] (di seguito anche la “Convenzione” o il “Trattato”).
La controversia nasce a seguito di ricorso attivato dall’Agenzia delle Entrate per la riforma della Sentenza n. 178/9/07 della Commissione Tributaria Regionale dell’Abruzzo, depositata il 30 gennaio 2008, che, ribaltando gli esiti di primo grado, accoglieva il ricorso presentato da una società di diritto inglese contro il silenzio-rifiuto opposto dall’amministrazione finanziaria alla richiesta di rimborso della somma corrispondente alla metà del credito d’imposta che sarebbe spettato sulla quota dei dividendi distribuiti dalla partecipata italiana.
Ricordiamo innanzitutto che, ai sensi dell’articolo 10, comma 4, lett. b) del Trattato, l’accesso ai benefici convenzionali è subordinato alla dimostrazione che il soggetto residente nel Regno Unito che riceve i dividendi ne sia l’effettivo beneficiario, e che dia prova dell’avvenuta percezione delle somme e dell’assolvimento dei relativi obblighi fiscali nel Regno Unito.
Nella Sentenza in commento, il thema decidendum verte quindi sulla mancata percezione dei dividendi da parte della società inglese, e la mancanza di prove necessarie sulla circostanza che detti dividendi fossero sottoposti a tassazione nel Regno Unito. Infatti l’intera vicenda trova modo di svilupparsi intorno ad un punto ben circostanziato, ovverossia le modalità con le quali le parti hanno inteso liquidare il flusso reddituale sui dividendi, risolto per mezzo di compensazione con crediti di finanziamento vantati dalla controllata italiana nei confronti della casa-madre inglese.
La prassi utilizzata dalla società aveva trovato comunque i favori dei giudici di appello, che, adottando un approccio formalistico, hanno inteso riconoscere il diritto al rimborso alla casa-madre inglese ritenendo irrilevante il fatto che i dividendi non fossero stati effettivamente percepiti dalla società ma compensati con un credito infragruppo, “essendo l’operazione posta in essere perfettamente legittima”.
L’Agenzia delle Entrate nel ricorso in Cassazione, con motivo rubricato “violazione e falsa applicazione dell’art. 10 della convenzione italo britannica contro le doppie imposizioni”, contestava proprio la mancata percezione dei dividendi da parte della società inglese e la mancanza di necessari riscontri atti a dimostrare che tali dividendi, pur in virtù del meccanismo di compensazione, fossero stati assoggettati a tassazione nel Regno Unito. Sui due punti annotiamo, per completezza, le dichiarazioni della controparte, laddove affermava che “in sostanza si ritiene di aver dimostrato ampiamente che alla scrivente Società sono stati pagati dividendi a mezzo compensazione, rispettivamente, in data (…) per i bilanci chiusi a (…) dalla propria controllata, ora liquidata” e che “tali citati dividendi sono stati legittimamente assoggettati in capo alla scrivente Società al regime di tassazione per essi previsto dalla normativa inglese”.
I fatti fin qui evidenziati rimarcano da vicino i contorni di alcune vicende analizzate nel corso degli ultimi anni dalla stessa Corte di Cassazione, e che possono essere ben utili per fare alcune riflessioni unitarie sul tema.
La prima Sentenza, in ordine cronologico, è la n. 4164 del 20 febbraio 2013, in relazione ad un ricorso formulato contro la pronuncia della Commissione Tributaria Regionale dell’Abruzzo che accoglieva appello proposto da una società di diritto inglese avverso la decisione di primo grado, sul silenzio-rifiuto opposto alla richiesta di rimborso della somma corrispondente alla metà del credito d’imposta che sarebbe spettato sulla quota dei dividendi assegnati dalla società figlia. I fatti in contestazione vertevano, sostanzialmente, sui presupposti per poter beneficare del credito d’imposta riconosciuto nell’ambito del Trattato, ovvero sul mancato pagamento dei dividendi maturati alla controllante inglese e sulla conseguente tassazione dei redditi originati da detta distribuzione nel Regno Unito. In quanto al primo punto, le parti concordavano infatti di procedere a conversione del debito sui dividendi in un mutuo fruttifero e, in quanto al secondo punto, il soggetto percettore inglese produceva un’attestazione rilasciata dalle autorità fiscali nella quale si confermava che la società era soggetta, nel Regno Unito, alla “corporation tax”.
Ricordiamo che l’articolo 10 comma 1 della Convenzione dispone che sui dividendi pagati da una società residente in Italia, ad un residente del Regno Unito, vi è tassazione concorrenziale di entrambi gli Stati (con eventuale riconoscimento di un credito d’imposta nel Regno Unito, ai sensi dell’articolo 24 della Convenzione). Tuttavia, posto che il soggetto percettore sia anche il beneficiario effettivo di detti dividendi, con il successivo comma 2 viene limitata la facoltà impositiva nel Paese della fonte (l’Italia, in questo caso) al 5% o al 15% dell’importo lordo dei dividendi (a seconda delle casi citati alle lettere a) e b) del comma 2). Come emerge chiaramente dal dettato normativo, dunque, si fa ricorso all’espressione “dividendi pagati”. Su tale punto, il Commentario Ocse nel paragrafo 7 all’articolo 10 chiarisce che “il termine ‘pagato’ ha un ampio significato, dal momento che il concetto di pagamento identifica l’adempimento dell’obbligo di porre i fondi a disposizione dell’azionista, secondo le modalità richieste dal contratto o secondo la prassi”[3]. Dunque, l’interpretazione fornita a livello Ocse demanda agli accordi tra le parti, o ancora ad una consolidata prassi tra le parti, la definizione del ‘momento’ in cui detti dividendi si possano considerare pagati ai sensi del comma 1. Quello stesso‘momento’ che, sulla base del dettato normativo rinvenibile al citato comma 4, lett. b) dell’articolo 10 della Convenzione, sembra essere identificato invece all’atto formale di ricevere i dividendi.
Insomma, non possiamo non osservare come un utilizzo un po’ eterogeneo delle terminologie potrebbe effettivamente dar luogo ad interpretazioni che si allontanano dalle reali intenzioni dei legislatori nel subordinare il riconoscimento dei benefici convenzionali all’effettiva percezione dei dividendi (inteso come pagamento/incasso), e non certamente nella mera messa a disposizione di somme di denaro a favore del titolare (tenuto conto anche dei diversi momenti in cui potrebbero concretizzarsi la disponibilità giuridica, ovvero economica, dei dividendi maturati). Sul punto, tra l’altro, la Cassazione mantiene un atteggiamento abbastanza pragmatico, subordinando il riconoscimento del beneficio convenzionale al pagamento inteso come “materiale percezione” dei dividendi.
Per quanto riguarda invece il tema dell’effettiva soggezione ad imposta nel Regno Unito dei dividendi corrisposti dalla partecipa italiana (ricordiamo che il dettato normativo dispone che “una società residente del Regno Unito che riceve dividendi da una società residente dell’Italia ha diritto ad un credito di imposta (…) a condizione che la società la quale riceve i dividendi (…) sia a tal titolo soggetto all’imposta del Regno Unito”), annotiamo una costante giurisprudenza della Corte di Cassazione nell’affermare l’insufficienza probatoria del certificato di residenza emesso dalle autorità fiscali straniere, quando è piuttosto necessario dare evidenza che il dividendo pagato sia a tal titolo soggetto a tassazione. In altri termini, la locuzione “a tal titolo” pone un accento marcato sulla tipologia reddituale da tassare: non già il reddito d’impresa (soggetto a corporation tax) in senso lato, quanto il flusso dei dividendi effettivamente percepito. Questo perché il meccanismo del credito d’imposta, permesso nell’ambito della Convenzione, trova fondamento nell’ovviare al fenomeno della doppia imposizione giuridica quando sia il Paese della fonte (con il meccanismo delle ritenute) che il Paese della residenza esercitano la propria facoltà impositiva. Dunque, è evidente come tale fattispecie presupponga anche un rilievo impositivo nel Regno Unito sul reddito colpito da doppia imposizione. Mancando questo, viene a cadere in toto il diritto al rimborso.
Dello stesso tenore annotiamo anche la più recente Sentenza n. 10792 del 25 maggio 2016, laddove, in un caso speculare a quelli appena passati in rassegna, si sostiene un’errata valutazione sull’effettiva portata della legislazione introdotta nel Regno Unito che garantiva un meccanismo di esenzione per il recupero delle imposte pagate all’estero direttamente in sede di dichiarazione dei redditi, in cui l’importo corrispondente al dividendo percepito veniva completamente detassato.
Infatti l’interpretazione fornita nei giudizi di merito, pur in presenza di certificato di residenza rilasciato dall’autorità fiscale inglese, si basava su un approccio formalistico della fattispecie, come confermato dagli stessi giudici di Cassazione quando, in relazione al controllo della qualifica di beneficiario effettivo in capo al percipiente e alla verifica di soggezione della società alle imposte sul reddito nel Regno Unito, osservano come “il giudice abbia posto a base della propria decisione una nozione formalistica di beneficiario effettivo, tale da farla coincidere sostanzialmente con quella di soggetto percettore dei dividendi e a tal titolo soggetto all’imposta nel paese estero” e, ancora, “appare evidente che la Corte di merito abbia preso le mosse da una non corretta enucleazione della regola iuris applicabile al caso, ritenendo sufficiente una generica attestazione di soggezione della società alle imposte sui redditi, laddove si richiedeva di verificare, a termini di convenzione, non che la società fosse ivi soggetta tout court alle imposte sui redditi ma, più specificamente, se essa fosse soggetta a imposta sui dividendi percepiti dalla società controllata italiana”.
Per concludere, annotiamo un crescente numero di interventi che aiutano a comprendere meglio la posizione della giurisprudenza di legittimità nella valutazione dei requisiti che integrano la qualifica di “beneficiario effettivo” ai fini convenzionali. Ciò che emerge è tuttavia una sostanziale incertezza radicata tra la maglie della giurisprudenza di merito, il che ci segnala la mancanza di un approccio organico e sistematico su una fattispecie che non dovrebbe dare adito ad interpretazioni, né da parte del contribuente, né da parte dei Giudici nel momento in cui sono chiamati a pronunciarsi sul tema.
In tal modo vanno anche lette le motivazioni conclusive espresse dagli Ermellini nella Sentenza n. 18628 del 23 settembre 2016, quando, nell’accogliere il ricorso presentato dall’Agenzia delle Entrate, non hanno ritenuto soddisfatti i requisiti richiesti dalla norma per il riconoscimento del credito d’imposta in capo alla casa-madre, configurando “l’operazione dalla stessa posta in essere con una controllata italiana, cioè la conversione del debito di quest’ultima verso la prima per i dividendi, in un mutuo fruttifero, con sostituzione dell’originaria obbligazione di distribuzione dei dividendi in una restituzione scaturente dal predetto mutuo come condotta abusiva, poiché elusiva della normativa fiscale inglese e, contemporaneamente, diretta a conseguire un indebito rimborso di imposta”.
[1] “4. a) [….].
b) Le disposizioni del sub paragrafo a) del presente paragrafo non si applicano quando il beneficiario effettivo dei dividendi e' una società che controlla da sola od insieme ad una o più società collegate, direttamente o indirettamente, il 10% o più del potere di voto nella società che paga i dividendi. In tal caso, una società residente del Regno Unito che riceve dividendi da una società residente dell'Italia ha diritto, a condizione che sia la beneficiaria effettiva dei dividendi, ad un credito di imposta pari alla metà del credito d'imposta cui una persona fisica residente in Italia avrebbe diritto se avesse ricevuto gli stessi dividendi, previa deduzione dell'imposta prevista al sub paragrafo a) del paragrafo 2 del presente articolo ed a condizione che la società la quale riceve i dividendi ed il credito d'imposta sia a tal titolo soggetto all'imposta del Regno Unito. Ai fini del presente sub paragrafo, due società si considerano collegate se una di esse controlla, direttamente o indirettamente, più del 50 per cento del potere di voto nell'altra società oppure una terza società controlla più del 50 per cento del potere di voto di entrambe”.
c) [….].”
[2]Convenzione n. 329 del 5/11/1990 tra il Governo della Repubblica Italiana ed il Governo del Regno Unito di Gran Bretagna e d'Irlanda del nord per evitare le doppie imposizioni e prevenire le evasioni fiscali in materia di imposte sul reddito.
[3] Sottolineatura aggiunga. Traduzione non ufficiale.