1. Il caso e le questioni
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è pronunciata, ancora una volta, su una delle questioni più complesse in tema di credito al consumo: l’effettività della disciplina protettiva del consumatore, nel quadro dell’azione combinata fra Unione e Stati membri.
La decisione chiarisce la ratio delle disposizioni che concorrono a costruire la trasparenza nei e dei contratti del consumatore; un obiettivo la cui protezione può essere affidata a sanzioni anche molto dure che gli Stati membri, nella loro discrezionalità, possono adottare.
Nel caso concreto, la controversia sorge nel contesto del diritto slovacco i) sul rispetto degli obblighi formali previsti per i contratti di credito ai consumatori, ii) sul rispetto degli obblighi di contenuto, e quindi, iii) sulla conformità al diritto dell’Unione delle sanzioni previste dal diritto interno per la violazione degli obblighi di cui a i) e ii).
Il caso è questo: nel 2011, una banca slovacca concede alla sig.ra Bíróová un finanziamento, cristallizzato in un contratto standard il quale, tuttavia, manca di alcune informazioni, in particolare dell’indicazione del tasso annuo effettivo globale (TAEG). Il contratto contiene una relatio alle condizioni generali, espressamente indicate come parte integrante del regolamento. La Sig.ra Bíróová sottoscrive il contratto di credito, contenente una dichiarazione di piena consapevolezza delle condizioni generali, ma non sottoscrive le condizioni generali. Pagate le prime due rate, la debitrice interrompe l’adempimento e la banca agisce presso il tribunale distrettuale slovacco competente, chiedendo il pagamento del capitale, degli interessi di mora e delle penali per il ritardo previste.
Il giudice slovacco, trovatosi a dover applicare la disciplina contenuta nella Dir. 2008/48/CE relativa ai contratti di credito ai consumatori, si interroga, da una parte, sulla validità del contratto le cui condizioni generali, pur essendone parte integrante, non siano sottoscritte dalle parti; dall’altra, sulla compatibilità con il diritto dell’Unione della disciplina slovacca protettiva dei consumatori secondo cui, qualora il contratto di credito manchi di certe informazioni, il creditore perde il diritto agli interessi e alle spese del finanziamento. Sospeso il procedimento, chiede perciò alla Corte di Giustizia di pronunciarsi.
2. La forma del contratto di credito ai consumatori, e l’integrazione dei contenuti obbligatori
Il caso in commento offre all’attenzione dell’interprete l’indagine di due aspetti relativi alla forma dei contratti di credito ai consumatori. Quello del caso di specie si compone di due parti: il vero e proprio contratto, redatto su un modulo standard predisposto dalla banca creditrice sotto forma di formulario prestampato da compilare a mano, e le condizioni generali, che integrano nella sostanza il regolamento (così vuole un espresso rinvio). Solo il primo è sottoscritto, mentre le seconde, sebbene dichiaratamente conosciute e comprese dalla debitrice, non recano alcuna sottoscrizione.
Le informazioni relative all’operazione di finanziamento sono così distribuite: nel contratto si trovano elementi relativi al debitore [dati personali, occupazione, reddito] e al credito [entità del finanziamento erogato, importo complessivo dovuto dal consumatore, importo e numero delle rate mensili, date di scadenza delle rate, tasso debitore e termine di rimborso integrale del credito]. Fra questi ultimi, il TAEG è indicato in forma di stima, compresa fra due percentuali, da specificare successivamente alla conclusione del contratto. Le condizioni generali prevedono che il debitore possa conoscere meglio l’articolazione della propria obbligazione, perché gli è consentito chiedere, in qualsiasi momento, di ricevere una “tabella di ammortamento” contenente i dettagli delle varie rate da pagare (nel tempo e negli importi); non, però, la precisa indicazione delle proporzioni fra importi imputabili a capitale e interessi per ogni rata.
Ed ecco i primi aspetti critici, sui quali la Corte europea è chiamata a offrire un chiarimento: da una parte, se tutti gli elementi prescritti come contenuti obbligatori del contratto di credito debbano essere contenuti in un unico documento scritto; dall’altra, se il documento – unico o composito – debba essere – in tutte le sue eventuali porzioni – sottoscritto dalle parti.
Secondo l’art. 10 della Direttiva 2008/48/CE «i contratti di credito sono redatti su supporto cartaceo o su altro supporto durevole». L’approccio attuale appare piuttosto liberale sul punto: nella versione precedente (Dir. 87/102/CEE, art. 4, par. 1) si prescriveva che il contratto fosse redatto «per iscritto». Tale scelta si è imposta per rispondere all’esigenza di seguire l’evolversi dei moderni mezzi di comunicazione e promuovere la conclusione di contratti transfrontalieri[1]; peraltro, le legislazioni nazionali hanno trasposto la previsione riferendosi, in sostanza, alla forma «per iscritto»[2].
Il giudice slovacco segnala un’asimmetria fra la locuzione della direttiva e il diritto trasposto, il quale prevede contratti di credito formati «per iscritto»; tuttavia, l’Avvocato generale Sharpston rammenta una consolidata giurisprudenza europea la quale ha affrontato il problema delle divergenze linguistiche adottando la consueta prospettiva sostanziale: occorre adottare una scelta sistematicamente coerente e in linea con la ratio della disciplina[3]. In questo quadro, «su supporto durevole»[4] e «per iscritto» vanno considerati sinonimi, analogamente a quanto si è ritenuto con riferimento alla Dir. 97/7/CE sui contratti a distanza: l’obiettivo perseguito è garantire che il consumatore riceva le informazioni obbligatorie per iscritto, al fine di conservarle e mantenerne disponibile l’accesso.
Di queste ragioni, che valorizzano la ratio delle regole formali[5], si giova anche il quesito sull’unicità del documento: la direttiva non richiede che l’accordo sia contenuto in un unico “supporto”, e in effetti è ben possibile scindere in più documenti il regolamento contrattuale, purché sia raggiunto lo scopo informativo e, soprattutto, conservativo: tutte le informazioni, e del resto anche quelle precontrattuali, devono essere formalizzate su un supporto durevole, proprio al fine di consentire l’accesso a ogni aspetto del regolamento contrattuale incisivo della posizione del consumatore. L’obiettivo della “conservazione”, del resto, è altresì funzionale all’esercizio del diritto di recesso del consumatore, che lo accompagna nel periodo successivo alla conclusione dell’accordo[6].
Se la chiarezza dell’informazione è il prisma entro il quale valutare la compatibilità alla disciplina europea, è necessario però il rispetto di alcune «condizioni minime supplementari», ben identificate dall’Avvocato generale nelle sue conclusioni[7]: anzitutto, «i documenti separati che complessivamente contengano tutte le informazioni obbligatorie dovrebbero essere forniti al consumatore simultaneamente e prima della conclusione del contratto» [circostanza della quale va offerta prova in caso di lite] e poi «il contratto dovrebbe contenere riferimenti chiari e precisi alle appropriate sezioni specifiche delle condizioni generali di contratto del creditore».
Se è astrattamente accettabile, dunque, un contratto di credito (sottoscritto da entrambe le parti) che rinvia alle condizioni generali, si pone però il problema della mancata sottoscrizione del documento oggetto di rinvio, il quale tuttavia contiene alcune delle informazioni obbligatorie[8].
Su questo punto incidono due grandi opzioni di metodo fatte proprie dal legislatore europeo: lo strumento – normativo – dell’armonizzazione massima e quello – normativo e giurisdizionale – del dialogo fra Unione e Stati membri all’insegna dell’effettività.
Diversamente dalla precedente disciplina, la Direttiva 2008/48/CE si presenta come veicolo di un’armonizzazione completa, attraverso la quale si offrono al mercato unico regole uniformi (rectius armonizzate) non modificabili, nemmeno in bonam partem, in fase di recepimento[9]. Tuttavia non tutti gli aspetti sono oggetto di armonizzazione, di talché resta uno spazio di intervento, anche non trascurabile, per gli Stati membri. Proprio in questo spazio si collocano le regole sulle conseguenze in termini di validità dei contratti della violazione degli obblighi formali imposti dall’UE. L’art. 10, par. 1, fa infatti salve «le norme nazionali riguardanti la validità della conclusione dei contratti conformi alla normativa comunitaria».
La risposta al secondo quesito dipende allora, da una parte, dalla portata dell’armonizzazione in punto “presupposti di validità dei contratti di credito al consumo”, e dall’altra, dal grado di effettività cui il legislatore nazionale ambisce nel “riempire” i vuoti e interpretare il suo ruolo di esecutore.
Nel caso in commento, il legislatore slovacco ha ritenuto di presidiare con il rimedio più forte, la nullità, la violazione degli obblighi formali previsti dal combinarsi della Direttiva europea e dall’implementazione realizzata in fase di recepimento. E lo ha fatto con una disciplina nazionale che i) impone il requisito della sottoscrizione per tutti gli elementi previsti come contenuti obbligatori nei contratti di credito ai consumatori e ii) sanziona con la nullità i contratti privi di tale requisito.
Questa impostazione, chiarisce la Corte di Giustizia, è compatibile con la disciplina europea[10], laddove rappresenta il modo in cui il legislatore nazionale esercita la propria discrezionalità, inserendo nel proprio sistema, con le sue caratteristiche, un obbligo di matrice sovranazionale.
Con riferimento alla forma scritta l’orientamento dimostrato dalla Corte appare morbidamente liberale, ma ciò si deve al fatto che espressamente, sul punto, il legislatore europeo apre al ruolo degli Stati membri con riferimento ai rimedi attraverso i quali gli obiettivi protettivi possono e devono perseguirsi. Diversa è la prospettiva quanto agli aspetti direttamente e completamente armonizzati; lo dimostra la soluzione offerta a un altro dubbio posto dal giudice slovacco, con riferimento ai contenuti obbligatori del contratto di credito ai consumatori contenuti nell’art. 10, par. 2. Vi si legge, alla lett. h), che il contratto deve menzionare, «in modo chiaro e conciso, l’importo, il numero e la periodicità dei pagamenti che il consumatore deve effettuare e, se del caso, l’ordine della distribuzione dei pagamenti ai vari saldi dovuti ai diversi tassi debitori ai fini del rimborso». Nel caso in commento, il consumatore ha sì diritto di chiedere al creditore, in ogni momento e senza costi, una tabella di ammortamento, dalla quale risulti, per ogni rata, l’imputazione a capitale e a interessi. Tuttavia, questi dati non sono contenuti nel contratto di credito (e il diritto menzionato si trova descritto in una clausola delle condizioni generali di contratto). Può il legislatore nazionale integrare gli obblighi di contenuto inserendone altri, nella disciplina nazionale? La Corte, parzialmente discostandosi da quanto sostenuto dall’Avvocato generale, nega recisamente questa possibilità, proprio in virtù dell’armonizzazione massima, la quale, secondo l’art. 22 della Direttiva, inibisce l’intervento dello Stato membro per tutti gli aspetti armonizzati[11]. E fra questi rientrano proprio i contenuti obbligatori del contratto di credito di cui all’art. 10, par. 2[12].
3. Le sanzioni per la violazione degli obblighi informativi: proporzionalità, efficacia, ma, soprattutto, dissuasività
Il dialogo fra legislatori, europeo e nazionale, dà a quest’ultimo notevole margine discrezionale quando si tratta di lavorare sulle sanzioni per la violazione di obblighi di matrice europea.
Due sono le indicazioni: la prima conferisce una sorta di mandato: l’art. 3 della Dir. 2008/48/CE prevede che gli Stati membri definiscano i regimi sanzionatori applicabili in caso di violazione delle disposizioni nazionali emanate in forza di tale direttiva e adottino tutti i provvedimenti necessari per garantirne l’attuazione; la seconda dà istruzioni, pur di carattere generale: secondo il Considerando n. 47 e poi l’art. 23 della Direttiva «le sanzioni previste devono essere efficaci, proporzionate e dissuasive»[13].
La Corte europea si è più volte misurata con questo tema, e il terreno preferenziale sul quale valutare il rispetto dei parametri indicati è senz’altro quello della reazione degli ordinamenti nazionali di fronte alla prassi degli operatori di inserire clausole [ritenute] abusive nei contratti con i consumatori [con riferimento alle prescrizioni di cui alla Dir. 93/13/CEE]. Significativa, sul punto, è una recente decisione non a caso più volte citata nella sentenza in commento: il caso Radlinger[14]. Dopo aver affermato che il giudice nazionale è tenuto a effettuare la valutazione sulla non abusività delle clausole del contratto anche al di là delle richieste del consumatore (e quindi “scavalcando” il principio del dispositivo), la Corte di Giustizia ha ricordato cheè compito del giudice «trarre tutte le conseguenze che ne derivano secondo il diritto nazionale affinché tale consumatore non sia vincolato» da tutte le clausole che, valutate nel complesso, risultino abusive. Il contratto resta valido ed efficace, ma il giudice deve depurarlo delle clausole abusive, senza intervenire con un’integrazione – equilibrata e rispettosa del dettato europeo – del regolamento[15]. Il quale resterà, quindi, verosimilmente sproporzionato in favore del consumatore[16]. Il senso di questo approccio si coglie con una valutazione sistematica della Direttiva 93/13/CEE: «vista la natura e la rilevanza dell’interesse pubblico che costituisce la base della protezione accordata ai consumatori, tale direttiva impone agli Stati membri, come emerge dal suo articolo 7, paragrafo 1, di prevedere mezzi adeguati ed efficaci “per far cessare l’inserzione di clausole abusive nei contratti stipulati tra un professionista e dei consumatori”». Affinchè il rimedio sia efficace, vanno stralciate tutte le clausole abusive, e non solo alcune, «indipendentemente dal fatto che il creditore persegua effettivamente la piena esecuzione di ognuna di esse», proprio perché «se il giudice nazionale potesse rivedere il contenuto delle clausole abusive contenute in contratti del genere, tale facoltà potrebbe compromettere la realizzazione dell’obiettivo di lungo termine indicato all’articolo 7 della predetta direttiva, in quanto ridurrebbe l’effetto dissuasivo esercitato sui professionisti dalla pura e semplice non applicazione nei confronti del consumatore di siffatte clausole abusive»[17].
Dei tre obiettivi, efficacia, proporzionalità e dissuasività, in quel caso si è perseguito soprattutto il terzo, con un valore però preventivo, nella misura in cui i creditori predispongono i contenuti in formulari standard, che il consumatore/debitore si limita ad accettare. Ciò accadrà, dunque, nella rinnovata consapevolezza che ogni clausola potenzialmente abusiva, e non solo quelle in concreto invocate nella fattispecie volta a volta rilevante, è passibile di “epurazione” giudiziale.
Nel caso in commento il contratto di credito manca di alcuni elementi obbligatori ai sensi dell’art. 10, par. 2, della Dir. 2008/48/CE e, in particolare, difetta di precisione l’indicazione del TAEG. La disciplina slovacca prescrive, per tale situazione, che il creditore perda il diritto a ottenere il pagamento degli interessi e delle spese. Da contratto di credito oneroso a contratto di credito gratuito. Il giudice si domanda se tale reazione, mentre persegue gli obiettivi della efficacia e della dissuasività, rispetti il parametro della proporzionalità della sanzione.
Sul punto, in altra occasione, la Corte di Giustizia ha ritenuto proporzionata la medesima sanzione prevista però per la violazione dell’obbligo precontrattuale di verifica della solvibilità del consumatore (art. 8, Dir. 2008/48/CE)[18].
Posto che la valutazione sulla proporzionalità implica un giudizio comparativo fra l’importanza dell’obbligo violato (ovvero sull’obiettivo perseguito attraverso l’imposizione di quell’obbligo) e le conseguenze della sanzione considerata, in quel caso si è ritenuto che, di fronte all’obbligo di verifica della solvibilità del debitore, strumento di centrale importanza per perseguire una politica di prestito responsabile e di contrasto del sovraindebitamento, una sanzione più mite non sarebbe stata realmente dissuasiva[19].
Nel caso in commento, l’obbligo informativo su elementi centrali del regolamento contrattuale, quali il TAEG, persegue l’obiettivo di consentire al consumatore di valutare pienamente la portata del proprio impegno. Un obiettivo «di importanza essenziale nel contesto della direttiva 2008/48», secondo la Corte di Giustizia, di talchè la sanzione della decadenza dal diritto agli interessi e alle spese deve considerarsi proporzionata ai sensi del menzionato art. 23, pur se, si riconosce, le conseguenze per i creditori sono molto pesanti.
Con una precisazione: la proporzionalità verrebbe meno se la sanzione si associasse alla violazione di obblighi informativi “a minore impatto”, fra quelli indicati nell’art. 10, par. 2 della Direttiva, quali, ad es., il nome e l’indirizzo dell’autorità di sorveglianza. Questi ultimi infatti, «per loro natura, non possono incidere sulla capacità del consumatore di valutare la portata del proprio impegno».
Di fronte alla proporzionalità vince, allora, la dissuasività, questa volta portatrice di una significativa funzione sanzionatoria.
Una prospettiva, questa, sintonica rispetto a quella, tutta autoctona, della sanzione per il mutuante che pretenda interessi usurari. La mancata osservanza di una disposizione di protezione può anche qui essere veicolo di una conversione sanzionatoria del contratto: l’art. 1815, c. 2, c.c. dispone infatti che la clausola con cui si pattuiscono interessi usurari sia nulla e che «non sono dovuti interessi». Si parla, a questo proposito, di una sorta di riparazione in forma specifica per il mutuatario protetto[20] da una nullità parziale totalmente sganciata dai limiti dell’art. 1419 c.c., cui l’ordinamento affida altresì una notevole forza deterrente/dissuasiva[21].
Questo trend europeo, inaugurato e così coerentemente portato avanti dalla Corte di Giustizia, che mira a garantire rimedi forti alla parte debole del rapporto, attraverso l’endorsement di politiche nazionali dissuasive/sanzionatorie per chi viola i dettami europei, guadagna nuove posizioni per il raggiungimento di un macro obiettivo, consacrato in due documenti cardine dell’Unione Europea: l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, secondo cui «[o]gni individuo i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell’Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice» e l’art. 19 del Trattato sull’Unione Europea, secondo cui «[g]li Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione». Si tratta di riconoscere, passo dopo passo, all’effettività dei diritti non più solo il ruolo di un principio da enunciare, ma anche il peso specifico delle regole del diritto vivente[22].
[1] Lo segnalano G. De Cristofaro e F. Oliviero, I contratti di credito ai consumatori, nel Trattato dei contratti diretto da V. Roppo e A.M. Benedetti, V, Mercati regolati, Giuffrè, 2014, 318. Cfr. altresì L. Modica, Il contratto di credito ai consumatori nella nuova disciplina comunitaria, in Eur. dir. priv., 2009, 837.
[2] Ne dà atto, con riferimento agli ordinamenti inglese e francese, l’Avvocato Generale nelle sue conclusioni (Parr. 29 ss.)
[3] V. le conclusioni dell’Avvocato generale, parr. 31-14, nei quali si cita il caso C-49/11, Content Services.
[4] La nozione è autonoma, e trova una definizione nell’art. 3, par. 1, lett. m) della Dir. 2008/48/CE: «“supporto durevole”: ogni strumento che permetta al consumatore di conservare le informazioni che gli sono personalmente indirizzate in modo da potervi accedere in futuro per un periodo di tempo adeguato alle finalità cui esse sono destinate e che permetta la riproduzione identica delle informazioni memorizzate».
[5] Rationes informative della forma e rapporto fra forma e informazione sono aspetti non così lineari come può apparire. Non è qui possibile approfondire la questione, ma si rinvia alle puntuali osservazioni di S. Pagliantini, in M. Maugeri e S. Pagliantini, Il credito ai consumatori. I rimedi nella ricostruzione degli organi giudicanti, Giuffrè, 2013, 22, nonché dello stesso Autore, alle voci Neoformalismo, nell’Enc. dir., Annali IV, Giuffrè, 2011, 722 e Trasparenza contrattuale, ivi, Annali V, Giuffrè, 2012, 1280. Sulla forma come strumento di trasparenza “indiretta”, v. recentemente E. Caterini, La trasparenza bancaria, in E. Capobianco (a cura di),I contratti bancari, nel Trattato dei contratti diretto da P. Rescigno ed E. Gabrielli, Utet, 2016, 159.
[6] V. A.M. Benedetti, Recesso del consumatore, nell’Enc. dir., Annali IV, Giuffrè, 2011, 956 ss.
[7] Parr. 51-52.
[8] La previsione dell’obbligo formale è elemento che caratterizza la disciplina di tutti i contratti asimmetrici (su cui v. V. Roppo, Contratto di diritto comune, contratto del consumatore, contratto con asimmetria di potere contrattuale: genesi e sviluppi di un nuovo paradigma, in Riv. dir. priv., 2001, 769 ss. eA.M. Benedetti, Contratto asimmetrico, nell’Enc. Dir., Annali V, Giuffré. 2012, 370 ss.; si tratta di una forma-contenuto (sul punto basta vedere S. Pagliantini, Neoformalismo, cit. alla nota precedente) la cui ratio di protezione degli interessi della parte debole mette fuori gioco tutte quelle modalità di formazione del contratto che non garantiscono la conoscenza, da parte del consumatore-cliente, del regolamento contrattuale. In questa direzione si muove la più recente giurisprudenza di legittimità: ad es., Cass.civ., 27 aprile 2016, n. 8395, in Corr. giur., 2016, 1110, con nota di A. Tucci, Conclusione del contratto e formalismo di protezione nei servizi di investimento (secondo cui la produzione in giudizio del modulo sottoscritto dal solo investitore non soddisfa l’obbligo della forma scritta); Cass. civ., 11 aprile 2016, n. 7068, ivi, 1113 (secondo cui, di nuovo, la sottoscrizione del solo investitore non basta a soddisfare il requisito della forma scritta) e Cass. civ., 24 marzo 2016, n. 5919, ivi, 1114 (secondo cui affinché il requisito della forma scritta sia rispettato, le sottoscrizioni delle parti possono essere contenute in documenti diversi «purché risulti il collegamento inscindibile tra questi ultimi, così da evidenziare inequivocabilmente la formazione dell’accordo»).
[9] Per un’analisi critica sulla tecnica di armonizzazione massima adottata dal legislatore europeo v. G. De Cristofaro e F. Oliviero, I contratti di credito ai consumatori, cit., 293 ss.
[10] Il nostro legislatore ha scelto una strada simile, laddove il combinato degli artt. 125-bis[10]e 117, c. 3 del TUB sanzionano con la nullità i contratti di credito ai consumatori non cristallizzati su un supporto cartaceo o altro supporto durevole che soddisfi i requisiti della forma scritta. Sul punto, G. De Cristofaro, La nuova disciplina dei contratti di credito ai consumatori e la riforma del t.u. bancario, in Contr., 2010, 1048.
[11] Non si tratta di un orientamento nuovo. Cfr., ad es., C‑602/10, Volksbank România, citata in motivazione.
[12] L’Avvocato generale [parr. 58-63 delle Conclusioni] pur partendo dalla medesima premessa, ovvero la non obbligatorietà della tabella di ammortamento fra i contenuti del contratto di credito, aveva concluso per la compatibilità di un’eventuale disposizione nazionale impositiva di tale obbligo al momento della firma del contratto (e non solo su successiva richiesta in corso di esecuzione del rapporto) con la Direttiva..
[13] C‑565/12 , Le Crédit Lyonnais.
[14] C-377/14, Radlinger, in ERCL, 2016, con mio commento, The Consumer-Debtor Dimension: Some Further Steps for the Principle of Effectiveness within Consumer Credit Contracts.
[15] Ciò in applicazione dell’art. 6, par. 1, della Dir. 93/13/CEE, secondo il quale gli Stati membri prevedono che le clausole abusive contenute in un contratto stipulato con un consumatore non vincolino i consumatori, alle condizioni stabilite dalle loro legislazioni nazionali». Peraltro, il contratto «resta vincolante per le parti secondo i medesimi termini, sempre che esso possa sussistere senza le clausole abusive». La Corte di Giustizia segue i precedenti – C‑482/13, C‑484/13, C‑485/13 e C‑487/13 – nell’affermare che «il contratto deve poter sussistere, in linea di principio, senz’altra modifica che non sia quella risultante dalla soppressione delle clausole abusive, purché, conformemente alle norme di diritto interno, una simile sopravvivenza del contratto sia giuridicamente possibile».
[16] In questo senso V. Roppo, Il contratto, II ed., Giuffrè, 2011, 862: «eliminata la clausola vessatoria, l’originario equilibrio del contratto è azzerato a favore del consumatore e a danno del professionista: mantenere in vita il contratto col nuovo equilibrio favorevole al consumatore avvantaggia quest’ultimo».
[17] C-377/14, cit., parr. 97 ss., ove i riferimenti alla giurisprudenza precedente.
[18] C‑565/12, Le Crédit Lyonnais, citata in motivazione.
[19] C‑565/12, cit., parr. 52-53.
[20] In tal senso v. A. Orestano, Il mutuo, nel Trattato dei contratti, cit., IV, Opere e servizi-2, 680 ss.; nel medesimo senso v. M. Tatarano, Il mutuo bancario, in E. Capobianco (a cura di),I contratti bancari, nel Trattato dei contratti diretto da P. Rescigno ed E. Gabrielli, Utet, 2016, 885.
[21] Cfr. sul punto P.L. Fausti, Il mutuo, nel Trattato di diritto civile, diretto da P. Perlingieri, Esi, 2004, 153; l’A. sottolinea che il mutuatario beneficia di una protezione totale, che, al contempo, svolge un indiscusso effetto deterrente: «la totale perdita degli interessi ha invece un effetto deterrente volto a scoraggiare in ogni modo il ricorso all’usura».
[22] Considerazioni analoghe ho fatto con riferimento a C-377/14, Radlinger, in The Consumer-Debtor Dimension: Some Further Steps for the Principle of Effectiveness within Consumer Credit Contracts, 296 e 304-305.