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Giurisprudenza

Credito al consumo e rimborso anticipato alla luce della Sentenza Lexitor

14 Aprile 2020

Biagio Campagna, Cultore di diritto Bancario presso l’Università “La Sapienza” di Roma

Tribunale Napoli, 7 Febbraio 2020, n. 1340 – G.U. Pastore Alinante

Di cosa si parla in questo articolo

SOMMARIO: 1. Premessa: il principio di diritto stabilito dal Collegio di Coordinamento n. 26525 del 2019 – 2. Il quadro normativo di riferimento nell’interpretazione della giurisprudenza arbitrale – 3. Il nuovo quadro normativo alla luce della sentenza Lexitor e della decisione del Collegio di Coordinamento n. 26525 del 2019 – 4. Prime applicazioni dell’orientamento della C.G.U.E. con decisione dell’ABF del 11 settembre 2019 – Tribunale di Napoli, Sent. n. 1340 del 7.2.2020 – 5. Riflessioni: Quali risvolti sul sistema giuridico italiano, a seguito dei primi allineamenti alla Sentenza della CGUE dei giudici italiani?

Massima

L'articolo 16, paragrafo 1, della direttiva 2008/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 aprile 2008, relativa ai contratti di credito ai consumatori e che abroga la direttiva 87/102/CEE del Consiglio, deve essere interpretato nel senso che il diritto del consumatore alla riduzione del costo totale del credito in caso di rimborso anticipato include tutti i costi posti a suo carico, senza distinguere tra costi upfront e recurring.

1. Premessa: il principio di diritto stabilito dal Collegio di Coordinamento n. 26525 del 2019

Il Collegio di Coordinamento con decisione n. 26525 del 2019 ha sancito il seguente articolato principio di diritto: “A seguito della sentenza 11 settembre 2019 della Corte di Giustizia Europea, immediatamente applicabile anche ai ricorsi non ancora decisi, l’art.125 sexies TUB deve essere interpretato nel senso che, in caso di estinzione anticipata del finanziamento, il consumatore ha diritto alla riduzione di tutte le componenti del costo totale del credito, compresi i costi up front”. “Il criterio applicabile per la riduzione dei costi istantanei, in mancanza di una diversa previsione pattizia che sia comunque basata su un principio di proporzionalità, deve essere determinato in via integrativa dal Collegio decidente secondo equità, mentre per i costi recurring e gli oneri assicurativi continuano ad applicarsi gli orientamenti consolidati dell’ABF”. “La ripetibilità dei costi up front opera rispetto ai nuovi ricorsi e ai ricorsi pendenti, purché preceduti da conforme reclamo, con il limite della domanda”. “Non è ammissibile la proposizione di un ricorso per il rimborso dei costi up front dopo una decisione che abbia statuito sulla richiesta di retrocessione di costi recurring”. “Non è ammissibile la proposizione di un ricorso finalizzato alla retrocessione dei costi up front in pendenza di un precedente ricorso proposto per il rimborso dei costi recurring”[1].

2. Il quadro normativo di riferimento nell’interpretazione della giurisprudenza arbitrale

In proposito, occorre segnalare che il comma 1° dell’art. 125 sexies, D. L.vo, 1.9.1993, n. 385 (c.d. t.u.b.), consente al consumatore di rimborsare in qualsiasi momento il finanziamento, in tutto o anche soltanto in parte, stabilendo altresì che, in entrambi i casi, questi ha diritto ad una riduzione del costo totale del credito, pari all’importo degli interessi e dei costi dovuti per la vita residua del contratto. Al riguardo, bisogna ricordare che i costi del credito devono essere distinti in costi attuali e costi eventuali: i primi sono temporalmente collocabili nella fase delle trattative e di formazione del contratto (e sono noti come commissioni c.d. up front); i secondi, invece, sono riconducibili ad attività e servizi della banca che si sviluppano e maturano nella fase esecutiva del rapporto (e sono noti come commissioni c.d. recurring).

Secondo il disposto normativo in esame, il cliente ha diritto al rimborso solo di queste ultime, in misura proporzionale alla durata residua ovvero alle rate residue del finanziamento di cui si tratta (A.B.F. ROMA, 17.2.2012, n. 491 e A.B.F. ROMA, 22.1.2013, n. 449). Tuttavia, nella prassi quotidiana, la quasi totalità dei contratti non individuano chiaramente quali siano i costi up front e quali i costi recurring, ovvero quali commissioni siano riferibili ad una prestazione puntualmente già eseguita e quali, invece, siano riconducibili ad una prestazione continuativa.

L’erroneità di tale diffusissima consuetudine è stata, quindi, segnalata dalla Banca d’Italia, attraverso due Comunicazioni in materia di cessione del quinto dello stipendio (Comunicazione 10 novembre 2009, avente ad oggetto «Cessione del quinto dello stipendio e operazioni assimilate: cautele e indirizzi per gli operatori» e Comunicazione 7 aprile 2011, avente ad oggetto «Cessione del quinto dello stipendio o della pensione e operazioni assimilate (CQS). Comunicazione»).

Il successivo sorgere di ingente contenzioso ha indotto successivamente la Banca d’Italia, in attuazione del provvedimento del 29.7.2009 sulla Trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari, ad esortare gli intermediari finanziari «quanto meno con riferimento ai contratti in essere, a ricostruire le quote di commissioni soggette a maturazione nel corso del tempo», opportunamente differenziandole dagli oneri non ripetibili in quanto remunerativi di servizi già interamente prestati. In conformità con le indicazioni della Banca d’Italia, la giurisprudenza arbitrale costante esclude che, nei casi di estinzione anticipata, le commissioni finanziarie e di intermediazione, non chiaramente individuabili come up front, siano a carico del cliente, e ritiene, di conseguenza, che tali commissioni debbano essere rimborsate in via proporzionale rispetto alla vita residua del contratto (A.B.F. NAPOLI, 18.4.2013, n. 2023; A.B.F. MILANO, 26.7.2013, n. 4069; A.B.F. NAPOLI, 14.11.2012, n. 3809; A.B.F. ROMA, 9.7.2010, n. 707).

A tale riguardo, l’orientamento costante della giurisprudenza arbitrale in materia ha specificato quali debbano essere i requisiti affinché una clausola contrattuale avente ad oggetto i costi del credito possa ritenersi, in concreto, chiara e comprensibile. In particolare, secondo i tre Collegi, una commissione o una spesa è qualificabile up front, e pertanto non deve essere rimborsata al cliente, quando la prestazione cui si riferisce è individuata in modo chiaro e comprensibile, non essendo sufficiente una elencazione meramente esemplificativa di possibili prestazioni o comportamenti della banca nella fase delle trattative o della formazione del contratto, né la quantificazione cumulativa di un importo dovuto omnicomprensivo (in tal senso A.B.F. NAPOLI, 17.12.2012, n. 4304; A.B.F. Roma, 11 settembre 2015).

Secondo la giurisprudenza arbitrale, infatti, occorre «1) che si tratti di prestazioni o comportamenti adeguatamente documentati, o comunque oggettivamente verificabili; 2) che sia riportato analiticamente l’importo della commissione o della spesa dovuta dal cliente per ciascuna prestazione o ciascun comportamento». In assenza di un riscontro oggettivo circa la natura up front della commissione, quest’ultima dovrà pertanto essere proporzionalmente rimborsata al cliente (A.B.F. Roma, 11 settembre 2015, cit.). Una simile conclusione si giustifica sulla base del presupposto che, trattandosi di rapporto inserito nell’ambito consumeristico, le clausole devono essere la qualificate attraverso il richiamo dell’art. 35, D. L.vo 6.9.2005, n. 206 (c.d. codice del consumo), il quale si occupa della forma e dell’interpretazione del contratto concluso con il consumatore.

I Collegi arbitrali ritengono, infatti, che le clausole de quibus, in quanto non redatte in modo chiaro e comprensibile (e, pertanto, poste in contrasto con il comma 1° dell’art. 35 cod. cons.), devono essere interpretate alla luce della regola di cui al comma 2° del citato art. 35, secondo il quale, in caso di dubbio sul senso di una clausola, prevale l’interpretazione più favorevole al consumatore. In altre parole, la violazione del principio di trasparenza di cui all’art. 35, comma 1°, cod. cons., è intesa dai Collegi come presupposto rilevante ai fini dell’applicazione della conseguenza prevista dal comma 2° del medesimo articolo, cioè l’interpretazione delle clausole nel senso più favorevole al consumatore. Dunque, simili clausole vanno qualificate come recurring e rimborsate al consumatore.

3. Il nuovo quadro normativo alla luce della sentenza Lexitor e della decisione del Collegio di Coordinamento n. 26525 del 2019

La sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, Prima Sezione, 11 settembre 2019, pronunciata nella causa C-383/18, ha stabilito che: «L’articolo 16, paragrafo 1, della direttiva 2008/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 aprile 2008, relativa ai contratti di credito ai consumatori e che abroga la direttiva 87/102/CEE del Consiglio, deve essere interpretato nel senso che il diritto del consumatore alla riduzione del costo totale del credito in caso di rimborso anticipato del credito include tutti i costi posti a carico del consumatore».

Secondo quanto è stato chiarito dal Collegio di coordinamento di questo Arbitro nella decisione n. 26525 del 2019, il principio di diritto enunciato dalla suddetta sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea è direttamente e immediatamente applicabile non solo ai contratti stipulati posteriormente, ma anche a quelli stipulati anteriormente alla sua pubblicazione.

La sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, Prima Sezione, 11 settembre 2019, pronunciata nella causa C-383/18, ha statuito che: «[L]’effettività del diritto del consumatore alla riduzione del costo totale del credito risulterebbe sminuita qualora la riduzione del credito potesse limitarsi alla presa in considerazione dei soli costi presentati dal soggetto concedente il credito come dipendenti dalla durata del contratto, dato che […] i costi e la loro ripartizione sono determinati unilateralmente dalla banca e che la fatturazione di costi può includere un certo margine di profitto» (para 31).

Nella misura in cui la ripartizione tra costi recurring e costi up-front risulti esclusivamente dalle clausole contrattuali, la loro ripartizione è determinata unilateralmente dalla banca (trattandosi di un contratto standard da quest’ultima redatto) e la loro fatturazione può includere un certo margine di profitto. Ne consegue che, in applicazione del principio di diritto enunciato dalla suddetta sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, tali costi dovranno essere tutti assoggettati alla riduzione del costo totale del credito che è disposta dall’art. 125 sexies, 1° comma, t.u.b.

Secondo quanto è stato chiarito dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nella suddetta sentenza, l’art. 16, paragrafo 1, della direttiva 2008/48 va interpretato nel senso che: «il metodo di calcolo che deve essere utilizzato al fine di procedere a tale riduzione consiste nel prendere in considerazione la totalità dei costi sopportati dal consumatore e nel ridurne poi l’importo in proporzione alla durata residua del contratto» (para 24). Ai sensi dell’art. 125 sexies, 1° comma, t.u.b., il criterio c.d. pro rata temporis, il quale si rifà a un rigoroso principio di proporzionalità, deve essere quindi preferito ad altri criteri (come quello basato sulla curva degli interessi), i quali si rifanno a un principio più o meno accentuato di regressività. Secondo quanto è letteralmente stabilito dall’art. 125, 1° comma, t.u.b., inoltre, il criterio c.d. pro rata temporis deve essere applicato al costo totale del credito in quanto tale, indipendentemente dalla natura o dalla qualificazione contrattuale delle sue singole componenti; in particolare, tale criterio è applicabile tanto ai costi recurring (compreso il premio dell’assicurazione a protezione del credito), quanto a quelli up-front.

Inoltre per quanto riguarda il compenso per l’attività di intermediazione nel credito, è necessario che il suo pagamento sia provato in modo particolarmente rigoroso dall’intermediario resistente.

Si rammenta che l’importo di spese vive di istruttoria, compenso per l’attività di intermediazione del credito che è indicato nel contratto non è assoggettato alla riduzione del costo totale del credito disposta dall’art. 125 sexies, 1° comma, t.u.b. nel solo caso in cui l’intermediario fornisca al Collegio giudicante un oggettivo e rigoroso riscontro probatorio del fatto di aver effettuato il pagamento di tale importo, situazione quest’ultima che non si è realizzata nel caso di specie.

Per quanto riguarda il compenso per l’attività di intermediazione nel credito, in particolare, è a tal fine richiesto che il mediatore creditizio non sia legato ad alcuna delle parti da rapporti che ne possano compromettere l’indipendenza; nel caso in cui risulti il contrario, la relativa clausola contrattuale è nulla e il suo importo dovrà essere restituito per intero al consumatore che ne abbia fatto domanda. Fermo restando quanto detto sub 1., qualsiasi importo contrattualmente previsto che rientri nel costo totale del credito è assoggettato alla riduzione del costo totale del credito disposta dall’art. 125 sexies, 1° comma, t.u.b., indipendentemente dalla sua qualificazione contrattuale come costo up-front ovvero recurring. La riduzione del costo totale del credito disposta dall’art. 125 sexies, 1° comma, t.u.b. consiste nel prendere in considerazione la totalità dei costi sopportati dal consumatore e nel ridurne poi l’importo in proporzione alla durata residua del contratto.

4. Prime applicazioni dell’orientamento della C.G.U.E. con decisione dell’ABF del 11 settembre 2019 – Tribunale di Napoli, Sent. n. 1340 del 7.2.2020

 Il Tribunale di Napoli, con Sent. n.1340 del 7 febbraio 2020, in riforma della sentenza di primo grado, ha condannato la Banca, alla restituzione di tutti i costi pagati e non goduti, adeguandosi di fatto all’indirizzo dei Giudici della C.G.U.E., che con decisione dell’11 settembre 2019, avevano chiarito che l’art. 16 della Direttiva 2008/48 CE, va interpretato nel senso che, il diritto del consumatore alla riduzione del costo totale del credito, include tutti i costi posti a carico del cliente, ivi compresi quelli “up front”.

Più in particolare il Tribunale di Napoli ha sancito che l’articolo 16, paragrafo 1, della direttiva 2008/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 aprile 2008, relativa ai contratti di credito ai consumatori e che abroga la direttiva 87/102/CEE del Consiglio, deve essere interpretato nel senso che il diritto del consumatore alla riduzione del costo totale del credito in caso di rimborso anticipato include tutti i costi posti a suo carico del senza distinguere tra costi upfront erecurring.

Nell’esperienza italiana, il tema dell’interpretazione dell’art. 16 par. 1 direttiva 2008/48 – come recepito dall’art. 125 sexies comma 1 TUB è venuto a svilupparsi in modo particolare, e preponderante, con riferimento all’operazione di prestito verso cessione del quinto dello stipendio o della pensione.

Strumento di c.d. inclusione finanziaria non poco diffuso nella prassi, oltre che nel settore dell’impiego pubblico, pure in quello dell’impiego privato (dopo l’emanazione della legge n. 80/2005), la cessione del quinto ha vissuto – anche, se non soprattutto, con riferimento al tema dei costi upfront (e non recurring) esaminato dalla sentenza della Corte europea – una stagione del tutto peculiare. Che è venuta a svolgersi «in parallelo», se così si può dire, con l’evoluzione dell’Arbitro bancario finanziario, struttura di risoluzione alternativa delle controversie gestito dalla Banca d’Italia (cfr. l’art. 128 bis TUB) e divenuto operativo nel 2010.

Anche in ragione della modestia delle somme erogate nei singoli contratti concretamente posti in essere, la figura della cessione del quinto ha prodotto un contenzioso giudiziario per nulla significativo, se non proprio esiguo. Del tutto diverso, praticamente opposto, è stato invece il rapporto che la cessione del quinto è venuta a maturare nei confronti dell’esperienza dell’ABF.

Un contenzioso «imponente», dunque, che – secondo la rilevazione compiuta dalla Banca d’Italia (cfr. la delibera n. 145/2018, con allegato documento intitolato Operazioni di finanziamento contro cessione del quinto dello stipendio o della pensione: orientamenti vigilanza) – ha trovato la propria «origine» nei «comportamenti impropri degli operatori, passati e recenti»: in modo segnato, tra le altre cose, «nella mancanza di chiarezza nella rappresentazione dei costi»; così, ad esempio, nella pratica della «duplicazione di commissioni a fronte di una medesima attività»; e così pure nel mantenere profili di «ambiguità nel discriminare tra costi upfront e recurring».[2]

Tornando alla sentenza del Tribunale di Napoli, l’articolo 16, paragrafo 1, della direttiva 2008/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 aprile 2008, relativa ai contratti di credito ai consumatori e che abroga la direttiva 87/102/CEE del Consiglio, deve essere interpretato nel senso che il diritto del consumatore alla riduzione del costo totale del credito in caso di rimborso anticipato del credito include tutti i costi posti a carico del consumatore, senza distinguere tra costi upfront e recurring. L’art. 16.1 della Direttiva 2008/48/CE recita: “il consumatore ha il diritto ad adempiere in qualsiasi momento, in tutto o in parte, agli obblighi che derivano dal contratto di credito. In tal caso, egli ha diritto ad una riduzione del costo totale del credito che comprende gli interessi e i costi dovuti per la restante durata del contratto”, e tale testo sostanzialmente coincide con quello dell’art. 125 sexies.1 Tub: “il consumatore può rimborsare anticipatamente in qualsiasi momento, in tutto o in parte, l’importo dovuto al finanziatore. In tale caso il consumatore ha diritto a una riduzione del costo totale del credito, pari all’importo degli interessi e dei costi dovuti per la vita residua del contratto[3]“; e si è visto che legittimamente l’art. 125.2 TUB, nel testo vigente quando venne stipulato il contratto per cui è causa, va interpretato alla luce della norma sopravvenuta, il cui testo è perfettamente compatibile con quello della norma previgente, ma più specifico.

5. Riflessioni: Quali risvolti sul sistema giuridico italiano, a seguito dei primi allineamenti alla Sentenza della CGUE dei giudici italiani?

In relazione alla definizione e delimitazione delle possibili ricadute, interpretative e applicative, della sentenza sull’impianto normativo italiano come ut sopra descritto, non pare, anzitutto, potersi dubitare che i principi così espressi dalla Corte di Giustizia, e la conseguente interpretazione delle previsioni dell’art. 16 dir. 2008/48/CE, trovino immediata e diretta applicazione anche nell’ordinamento nazionale interno17, indipendentemente – occorre aggiungere – dai rilievi critici in termini di fondatezza e correttezza che possono eventualmente sollevarsi nei confronti della sentenza18, che potrebbero al più dare luogo ad una nuova ed ulteriore questione pregiudiziale sollevata avanti la medesima Corte. Come noto, la natura dichiarativa che suole attribuirsi alle sentenze della Corte di Giustizia, emesse in sede di rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE, ne comporta l’applicabilità anche ai rapporti giuridici sorti e costituiti prima della sentenza[4], con effetto vincolante per il giudice nazionale per tutti i casi analoghi[5].

Desta, per esempio, non poche perplessità la conclusione per cui «l’interpretazione dell’art. 16, paragrafo 1, della Direttiva proposta dalla Corte si pone in aperta contrapposizione con la normativa italiana di attuazione” e che, quindi, «sarebbe difficile poter interpretare la norma interna secondo quanto disposto dalla Corte, perché il tenore inequivocabile della norma medesima lo esclude» (Conciliatore Bancario Finanziario, op. cit., 3). Perplessità che derivano dal fatto che non è possibile escludere la diretta applicazione della interpretazione offerta dalla Corte di Giustizia in ragione della mera difformità o contrarietà a quella sinora desunta dalle indicazioni di Banca d’Italia e dell’ABF, poiché ciò significherebbe – all’evidenza – eludere l’autorità e il ruolo attribuiti alla Corte di Giustizia. Così come perplessità suscita il riferimento alla necessità di garantire la certezza del diritto, che finisce, in realtà, per limitare arbitrariamente l’effetto retroattivo proprio delle pronunce della Corte. Sul punto appare, in ogni caso, dirimente la circostanza che nel caso di specie la Corte non ha previsto limitazioni temporali all’interpretazione dalla stessa condotta, come ben avrebbe potuto in ragione delle condizioni oggettive della «buona fede degli ambienti professionali» coinvolti e del «rischio di gravi inconvenienti» dalla stessa Corte individuate (cfr. per tutte CGUE, 12 ottobre 2000, C-372/98) e che, nel caso in esame, possono ritenersi entrambe sussistenti, alla luce delle indicazioni fornite da tempo da Banca d’Italia e dell’orientamento espresso dall’ABF (§2). Non appare, quindi, condivisibile l’accento talora posto sull’affidamento riposto dagli intermediari nei confronti degli orientamenti e delle indicazioni provenienti da Banca d’Italia (Conciliatore Bancario Finanziario, op. cit., 6 s.), poiché così facendo si mette – ancora una volta – in discussione in radice il ruolo della Corte di Giustizia e l’efficacia (normalmente) riconosciuta alle sue pronunce.

Le conclusioni raggiunte dalla Corte di Giustizia sono, pertanto, vincolanti per il giudice nazionale – non in quanto modificative del quadro normativo di riferimento (che sul piano formale rimane, di fatti, immutato), ma – per le chiare ricadute sulla interpretazione dell’art. 125-sexies, primo comma, t.u.b., che non potrà che essere allineata a quella delineata dalla Corte per il corrispondente art. 16, par. 1, dir. 2008/48/CE. Più chiaramente, non si tratta di «disapplicare la norma interna in [ipotizzato] contrasto con la Direttiva»; né si pone un problema di applicazione diretta della direttiva in mancanza di una corretta attuazione da parte del legislatore italiano, posto che il legislatore nazionale (primario) ha, in realtà, attuato l’art. 16, par. 1, dir. 2008/48/CE con l’introduzione del vigente art. 125-sexies t.u.b. Ciò a cui è chiamato, quindi, il giudice nazionale non è la disapplicazione dell’art. 125-sexies t.u.b. in ipotesi in contrasto, secondo l’interpretazione e l’applicazione operate da Banca d’Italia e dall’ABF, con la normativa dell’Unione, ma, al contrario, è l’interpretazione e applicazione della norma interna di attuazione (l’art. 125-sexies, primo comma, t.u.b.), conformemente all’interpretazione dell’art. 16, par. 1, dir. 2008/48/CE fornita dalla Corte di Giustizia.

Le conclusioni alle quali giunge il Tribunale di Napoli, allineandosi a quanto stabilito anche dall’ABF, paiono il frutto di una mediazione diretta a mitigare gli effetti della sentenza Lexitor: se ne riconosce l’applicabilità nell’ordinamento italiano ma se ne attenuano le conseguenze sul piano del computo della riduzione del costo totale del credito.

L’applicazione di criteri di calcolo distinti per gli interessi (pro rata temporis o applicazione del piano di ammortamento) altri oneri recurring (pro rata temporis) e up-front (valutazione caso per caso secondo equità) può significativamente limitare i positivi effetti di regolamentazione del mercato conseguenti alla sentenza Lexitor.

Innanzitutto permette agli intermediari ampi margini di manovra nell’individuazione delle commissioni oggetto di riduzione su base rigidamente proporzionale o in forza di altri criteri, meno favorevoli al cliente, non eliminando così il rischio di comportamenti opportunistici ben evidenziati da Banca d’Italia. Il principio dell’equità integrativa ritagliata sul caso concreto, oltre a mal calarsi in un contesto di contratti standardizzati e di un contenzioso di massa, non consente nemmeno di delineare una regola chiara e precisa in quanto impone al consumatore di effettuare per ogni tipologia di costo calcoli differenti e complicati, senza per altro conoscere come possa essere applicato in concreto il criterio di riduzione. Lo stesso spessore quantitativo del contenzioso ABF non è altro che il risvolto di prassi illecite fondate su un’opaca distinzione tra costi up-front e recurring.

La riduzione di tutti i costi, comprese le commissioni up-front, secondo un criterio rigidamente proporzionale avrebbe invece indubbie esternalità positive sul mercato della cessione del quinto. Salvaguardando la valenza comparativa del TAEG e, rendendo più semplici e confrontabili le offerte, si consentirebbe un maggior livello di concorrenza tra gli operatori che dovrebbe avere l’effetto di consentire una complessiva riduzione dei prezzi.

La riduzione rigidamente proporzionale di tutte le commissioni, ed in particolare di quelle destinate a remunerare la rete degli intermediari e dei mediatori che operano nel comparto e che pesano in maniera decisiva sugli oneri complessivi, potrebbe incentivare una complessiva riduzione della filiera del credito e l’intervento sul mercato di nuovi intermediari di maggiori dimensioni ad oggi poco attivi.

In tale contesto pare opportuno un intervento della Banca d’Italia che chiarisca che, in caso di rimborso anticipato, tutti gli oneri in passato etichettati come up-front sono sottoposti a riduzione secondo il criterio del pro rata temporis.

Tale precisazione avrebbe l’effetto ridurre il contenzioso, incentivare la trasparenza, la semplicità e la confrontabilità delle offerte, fungendo così da stimolo alla concorrenzialità del mercato.



[1] Tra i primi commenti cfr. Conciliatore Bancario Finanziario, La sentenza della Corte di Giustizia dell’11 settembre 2019 (C383/18). Considerazioni giuridiche e relativi effetti, 30 settembre 2019; W.G. CATURANO, Estinzione anticipata e diritti del consumatore: l’impatto della Corte di Giustizia sul “Caso Italiano”, 18 ottobre 2019, consultabile all’indirizzo www.expartecreditoris.it/provvedimenti/estinzione-anticipata-e-diritti-del-consumatore-limpatto-della-corte-di-giustizia-ue-sul-casoitaliano; F. MAIMERI, Credito al consumo: quali commissioni sono rimborsabili, in FCHub, 15 ottobre 2019, consultabile all’indirizzo https://fchub.it/wpcontent/uploads/2019/10/credito_al_consumo.pdf; A.A. DOLMETTA, Estinzione anticipata della cessione del quinto: il segno della Corte di Giustizia, in www.ilcaso.it.

[2] Si vedano almeno Dolmetta, Estinzione anticipata della cessione del quinto: il segno della corte di giustizia, in IlCaso.it e Tina, Il diritto del consumatore alla riduzione del costo totale del credito in caso di rimborso anticipato del finanziamento ex art. 125-sexies, primo comma, t.u.b. Prime riflessioni a margine della sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, in Rivista di Diritto Bancario, 2019, fasc. IV.

[3] Chiaro in tal senso anche il previgente Decreto del Ministero del Tesoro, 8 luglio 1992, che, all’art. 3, primo comma, prevedeva che «Il consumatore ha sempre la facoltà dell’adempimento anticipato; tale facoltà si esercita mediante versamento al creditore del capitale residuo, degli interessi ed altri oneri maturati fino a quel momento e, se previsto dal contratto, di un compenso comunque non superiore all’uno per cento del capitale residuo».

[4] CGE, 2 settembre 1998, causa C-309/85, Barra c. Stato Belga, in Racc., 1988, p. 355.

[5] Cfr. CGE, 6 ottobre 1982, causa C-283/81, Cilfit s.r.l. e Lanificio di Gavardo s.p.a. c. Ministero della Sanità, in Racc., 1982, p. 3415; Cass., 3 marzo 2017, n. 5381; Cass., 8 febbraio 2016, n. 2468; Cass., 11 dicembre 2012, n. 22577. Proprio in materia di credito al consumo, la Corte di Giustizia ha recentemente negato che pretese ragioni di stabilità degli intermediari creditizi possano legittimare giudici e organi amministrativi nazionali a limitare nel tempo gli effetti di una pronuncia di nullità diuna clausola per abusività («L’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, deve essere interpretato nel senso che osta ad una giurisprudenza nazionale che limiti nel tempo gli effetti restitutori legati alla dichiarazione giudiziale del carattere abusivo, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, di tale direttiva, di una clausola contenuta in un contratto stipulato fra un consumatore e un professionista, alle sole somme indebitamente versate in applicazione di una siffatta clausola successivamente alla pronuncia della decisione che ha accertato giudizialmente tale carattere abusivo», CGUE, 21 dicembre 2016, Grande Sezione, cause riunite C154/15, C-307/15 e C-308/15).

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