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Giurisprudenza

Gli obblighi di forma scritta nei contratti di “affidamento” ex art. 117 TUB e la produzione di documenti nuovi in giudizio

5 Dicembre 2016

Avv. Federica Grasselli, Studio Legale Associato Grasselli – Boggiani, Dottoranda di Ricerca in “Diritto ed Impresa”, Università LUISS Guido Carli

Cassazione Civile, Sez. III, 7 ottobre 2016, n. 20205 – Pres. A. Amendola, Rel. M. Rossetti

Di cosa si parla in questo articolo

Nella sentenza in commento la Suprema Corte ha in primo luogo statuito che a fronte di una cessione di crediti da parte del debitore principale in favore della banca – creditrice, salvo sia diversamente stabilito, la cessione deve intendersi avvenuta a scopo di garanzia (pro solvendo) e non o pro soluto. Pertanto, la banca creditrice potrà legittimamente agire sia verso i debitori ceduti, sia verso il fideiussore, salvo quest’ultimo provi nel corso del giudizio la sussistenza di un beneficio di escussione in suo favore.

In secondo luogo la Corte ha affermato che l’erogazione di un ammontare molto superiore all’affidamento massimo consentito in un contratto di conto corrente stipulato tra banca e cliente, non comporterebbe nullità del contratto bancario per vizio di forma. A parere dei Giudici di legittimità, difatti, l’articolo 117 d.lgs. n. 385/1993, richiederebbe la forma scritta solo per il contratto bancario e non per gli atti esecutivi del medesimo. Pertanto la validità del rapporto garantito determinerebbe anche la validità della fideiussione accessoria al rapporto medesimo, salvo che il fideiussore fornisca la prova del fatto che era stato pattuito un limite specifico e insuperabile del rapporto di garanzia.

 

Quanto affermato dalla Suprema Corte nel caso di specie merita alcune ulteriori precisazioni e approfondimenti.

Certamente condivisibile quanto affermato dai Giudici di legittimità in merito alla cessione di credito, ovvero che essa deve intendersi avvenuta a scopo di garanzia, salvo diversamente disposto, poiché costituisce espressione dei corretti principi civilistici sul punto.

Appare meritevole di attenzione e di ulteriore analisi la parte della sentenza relativa agli obblighi di forma scritta di cui all’art. 117 TUB.

L’interpretazione dell’art. 117 TUB che appare essere più corretta ritiene che le linee di credito (o, se si preferisce, “gli affidamenti”) concesse nel tempo da una banca ad un cliente necessitino di una precisa e dettagliata regolamentazione contrattuale, dell’indicazione dell’importo delle stesse e dell’ulteriore precisazione se sono “a scadenza” o “a revoca”. In mancanza di tali elementi essenziali il contratto bancario risulterebbe indeterminato, oltre che privo del contenuto minimo previsto dall’art. 117 TUB e dagli artt. 1325 e 1346 c.c.

Appare corretto ricordare che il “contratto” di conto corrente non può individuarsi come contratto “quadro”, da cui far discendere la legittimità di un contratto “specifico” di apertura di credito o “affidamento” in altra forma tecnica non formalizzato per iscritto, o comunque non identificato con tutti gli elementi essenziali, tra cui anche l’indicazione dell’importo massimo consentito.

Nel caso in esame parrebbe che sussistessero linee di credito per importi ben maggiori dell’unica regolarizzata formalmente, e pertanto prive di una corretta formalizzazione contrattuale.

Non pare in effetti corretto confondere i contratti di conto corrente con i contratti di concessione di credito.

I contratti di conto corrente bancario sono contratti tramite i quali la banca svolge un vero e proprio servizio di cassa in favore del cliente, che rappresenta il contenuto tipico del predetto contratto.

La tecnica bancaria più accreditata e la Giurisprudenza più attenta hanno confermato che possono sussistere anche altri contratti collegati sul piano funzionale al conto corrente (ad esempio, appunto, i contratti di concessione di credito), ma sono negozi strutturalmente autonomi e, pertanto, necessitano di adeguata formalizzazione contrattuale.

Il contratto di conto corrente svolge anche una funzione monetaria, posto che ne costituisce elemento caratterizzante l’adesione alle stanze di compensazione e, più in generale, al sistema pubblico dei pagamenti.

Il profilo innanzi considerato presuppone che il servizio di cassa, predisposto dalla banca (tramite il conto corrente) determini non solo un movimento di fondi in esecuzione degli incarichi dati dal cliente, ma soprattutto il fatto che alla circolazione materiale del danaro si sostituiscono le compensazioni, i giroconti, l’emissione e la circolazione di vaglia ed assegni. Questa funzione monetaria riservata alle banche trova un pieno riconoscimento nell’art. 11 T.U.B.

Condizione per l’esecuzione degli ordini di pagamento impartiti dal cliente è la presenza della provvista, cioè di fondi dei quali il correntista abbia la disponibilità.

E’ possibile che la banca, previa valutazione della solvibilità del correntista, conceda credito al medesimo nelle più svariate forme tecniche, mediante contratti di concessione di credito.

Detti contratti (come pure quelli di conto corrente bancario) devono rivestire forma scritta “ad substantiam” ex art. 117 TUB, a pena di nullità.

Fra gli elementi essenziali dei citati contratti vi è, necessariamente, l’importo della linea di credito concessa.

Alla luce di quanto esposto pare logico affermare che in realtà è il conto corrente ad essere accessorio e strumentale al contratto di “affidamento” e non il contrario[1].

La decisione della banca di concedere fido, inoltre, si sostanza in un atto di organizzazione della banca, e come tale interno alla stessa, ed è privo di efficacia e validità ove non formalizzato in un regolare contratto. Difatti, spesso è la stessa modulistica bancaria a richiedere che, tra gli altri elementi negoziali, sia indicato nel contratto di apertura di credito l’importo massimo concedibile.

Nel caso in esame pare sia stato concesso un affidamento in misura di molto superiore a quanto previsto nella pattuizione scritta tra le parti, e che di conseguenza non sia stato prodotto alcun contratto di concessione di credito che contenesse tutti gli elementi essenziali per l’identificazione della linea di credito concessa dalla banca.

Né appare sostenibile che la regolamentazione contrattuale possa essere contenuta in un contratto di conto corrente che faccia riferimento ad un importo differente rispetto al credito effettivamente concesso.

Inoltre, la Suprema Corte in precedenti arresti ha peraltro statuito che spetti alla banca provare l’esistenza di una apertura di credito, sia l’ammontare dell’affidamento accordato al cliente[2], rafforzando implicitamente la necessità di una previsione scritta a monte dell’affidamento.

Ci si permette anche di evidenziare come sussistano conferme letterali di quanto sostenuto, proprio nelle norme speciali di riferimento. In effetti la “rubrica” e il tenore letterale del primo comma dell’articolo 117 del TUB, si riferiscono puramente e semplicemente ai “contratti” (relativi evidentemente ad ogni attività svolta dalle banche), precisando che la forma scritta è richiesta per tutti i rapporti posti in essere dalle banche, senza distinguere tra i contratti bancari tipici, ed in quanto tali disciplinati dal codice civile, e quelli innominati, creati dalle esigenze della pratica e dall’evoluzione dei rapporti commerciali[3]. Parrebbe quindi più corretta l’interpretazione che ritiene necessaria una stipulazione separata per ogni contratto inerente le varie forme tecniche, dotato di una disciplina contrattuale che ne specifichi le caratteristiche, le modalità di utilizzo, la durata, l’importo, le condizioni economiche[4].

In conclusione pare di poter sostenere che il legislatore, salvo eccezioni normativamente previste, abbia stabilito il principio inderogabile di forma scritta necessaria per la stipulazione dei contratti bancari[5], quale regola generale che dà applicazione al principio di trasparenza (necessario per ogni mercato efficiente), che consiste nella specifica determinazione del contenuto negoziale necessario dell’operazione bancaria, che persegue anche lo scopo di consentire al cliente di attuare scelte consapevoli all’inizio ed in qualsivoglia momento del rapporto con la banca.

Ciò in quanto la regolamentazione dei contratti, in modo particolare bancari, è un momento decisivo della regolazione del mercato, specialmente se i protagonisti sono rappresentati da imprese e consumatori, per il conseguimento di finalità intimamente connesse di equità e di efficienza[6].

Alla luce di quanto esposto, pare di poter affermare che nel contenuto negoziale minimo stabilito dal legislatore dovrebbe essere ricompreso anche l’importo massimo della linea di credito concessa. Secondo i principi evidenziati poc’anzi, in difetto di tale indicazione il contratto non può che porre seri dubbi di validità i quali, in forza del principio di accessorietà, dovrebbero coinvolgere anche la garanzia fideiussoria.

Qualche perplessità sorge anche in relazione alla parte della sentenza relativa al disconoscimento dei documenti depositati in copia. Nel caso di specie la copia del documento, la cui conformità all’originale era stata contestata dalla controparte, era stata tempestivamente depositata mentre l’originale era stato prodotto successivamente alla scadenza dei termini di cui all’art. 183 c.p.c., all’udienza di “ammissione dei mezzi istruttori”. La Corte ha ritenuto che la produzione tardiva dell’originale non inficiasse il deposito tempestivo della copia del documento, affermando che non costituisce produzione “nuova” il deposito in originale di un documento la cui copia sia stata già depositata tempestivamente in giudizio.

Per completezza si evidenzia che è possibile riscontrare un orientamento giurisprudenziale contrario a tale impostazione, secondo cui sarebbe di contro necessaria la tempestiva produzione in giudizio anche degli originali, a garanzia del principio di contradditorio tra le parti e per consentire l’effettivo esercizio del diritto di difesa[7].

 


[1] Si ricordano in proposito i seguenti puntuali interventi della Giurisprudenza: Trib. di Reggio Emilia n. 730 del 12.05.15 – Dott. Ramponi (www.dirittobancario.it), ove è stato affermato che i contratti bancari, tra cui anche i contratti di apertura di credito, richiedono il rispetto della forma scritta ad substantiam con finalità di protezione di cui all’art. 117 TUB. Inoltre, è stato affermato che la sussistenza di una nullità di protezione, in cui formalmente la nullità deve essere fatta valere nel solo interesse del cliente, non deve far dimenticare che la ratio sottesa alla previsione di un obbligo di forma scritta risponde ad un’esigenza di tutela negoziale in senso ampio di entrambe le parti, e non della sola parte debole del contratto, in ossequio ai principi generali degli accordi bilaterali (difatti è necessaria la firma di entrambi i contraenti). A maggior ragione, se si analizza la posizione della banca, nei contratti di apertura di credito, in cui la banca eroga credito alla clientela, le esigenze di rispetto di forma scritta sono ancora più pregnanti rispetto al contratto di conto corrente, poiché è la stessa banca che necessita di cautelarsi nella fase di concessione di credito. Cfr. anche Cass. 686/1968, in BBTC, 1969, II pagg. 18; Trib. di Napoli – 16.1.2001, secondo cui “………Il contratto di apertura di credito, anche se regolata in conto corrente, deve essere stipulato per iscritto a pena di nullità, rilevabile soltanto da parte del cliente, e va esclusa ogni accessorietà rispetto al conto corrente di corrispondenza. Spetta alla banca la prova della sussistenza dell’apertura di credito e del suo limite………..”; Corte d’Appello di Torino 28.12.2002, in Fallimento 2003, 1231: “L’apertura di credito non è un servizio accessorio rispetto al contratto di conto corrente, né è configurabile come un’operazione che si inserisce normalmente in tale rapporto e, pertanto, non è riconducibile alle operazioni che sono già previste”.

[2] La Suprema Corte ha affermato che la banca “ha l’onere di provare, per escludere la natura “solutoria” del versamento, sia l’esistenza, alla data di questo, di un contratto di apertura di credito, sia l’esatto ammontare dell’affidamento accordato al correntista alla medesima data, non essendo sufficiente, a tali ultimi fini, la produzione della “scheda degli affidamenti” e dell’estratto notarile del “libro fidi” della banca, qualora il contenuto di detti documenti sia contestato dalla curatela e comunque, gli stessi non abbiano un significato congruo rispetto al fatto da dimostrare (nella specie la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto che, in presenza di specifica contestazione degli indicati documenti prodotti dalla banca, questa non aveva dato adeguata dimostrazione del contenuto contrattuale degli affidamenti, risultati attestare “castelletto conto portafoglio” e “anticipi conto corrente su portafoglio”, rispetto all’accertamento del contenuto solutorio, o meno, delle rimesse in contestazione)………”, cfr. Cass. 6031/1994; Cass. 9018/1998; Cass. 1672/1999; Cass. 14087/2002; Cass. 6943/2004).

In dottrina si segnala tra gli altri G. Rago – Manuale della Revocatoria Fallimentare – Padova, 2006, secondo cui l’apertura di credito, che è un contratto regolato dall’art. 1842 c.c. “……non può essere considerata accessoria ad un altro contratto e cioè a quello di conto corrente: di conseguenza l’accessorietà non può che riferirsi a tutti quei servizi od operazioni relativi (rectius accessori) a contratti che risultino già stipulati per iscritto……”.

[3] Cfr. per ulteriori riferimenti anche, A.M. Carriero, in Commentario al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di F. Capriglione, Padova, 2001, 902 e ss.

[4] L. De Angelis, Commentario al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di F. Capriglione, Padova, 2012, 1687 e ss.

[5] Per completezza espositiva si evidenzia che esistono forme tecniche di contratti di concessione di credito che prescindono totalmente dall’esistenza di un conto corrente (es. apertura di credito semplice), ma l’argomento meriterebbe un approfondimento a cui non è possibile in questa sede dare il giusto spazio.

[6] Cfr. anche Il governo delle banche in Italia: commento al testo unico bancario e alla normativa collegata, a cura di R. Razzante e L. Lacaita, Torino, 2006.

[7] Cfr. Tribunale di Napoli, III Sez. Civ., n. 1230 del 28 gennaio 2013; Tribunale di Modena, n. 5 del 5 gennaio 2010. In tale ultimo caso è stato affermato che ove il disconoscimento della sottoscrizione sia stato proposto contro documenti prodotti in copia, chi intenda proporne istanza di verificazione (art. 214 cpc) ha l’onere di produrre tempestivamente gli originali, dovendo ritenersi tardiva la successiva consegna di detti originali soltanto al CTU (nel caso di specie, si trattava del c.d. “contratto quadro” di intermediazione finanziaria, la cui firma era stata disconosciuta dall’asserito investitore. Proposta istanza di verificazione ma depositato tardivamente l’originale del contratto disconosciuto, il Tribunale ne ha quindi ritenuto la nullità per violazione dell’art. 23 TUF che ne impone la forma scritta ad substantiam).

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