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Giurisprudenza

In finanza, trasparenza è trasparenza del rischio

22 Settembre 2017

Daniele Maffeis, Ordinario di Diritto Privato nell’Università di Brescia

Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Sez. II, 20 settembre 2017, C-186/16

Di cosa si parla in questo articolo

Il Regolamento UE c.d. PRIIPs, n. 1286/2014 del 26 novembre 2014 entrato in vigore il 31 dicembre 2016 recita, al primo <<considerando>>, che <<Agli investitori al dettaglio che ipotizzano di effettuare un investimento viene offerta una varietà sempre più ampia di prodotti d’investimento al dettaglio (…) preassemblati (packaged retail (…) investment products)” che “possono essere complessi e di difficile comprensione>>.

Intanto molto si discute di trasparenza del rischio nei prodotti bancari, finanziari, assicurativi [1].

Oggi, sono due le statuizioni della Corte di Giustizia (sentenza n. 703 20 settembre 2017) – pronunciate a proposito di un contratto di mutuo bancario, che incorporava un rischio di cambio – sulle quali vorrei soffermare molto brevemente l’attenzione.

Anticipo che non accennerò ai profili, pure rilevantissimi, della differenza tra mutuo in valuta estera, mutuo indicizzato, mutuo con componente derivativa connessa ad un parametro finanziario come il tasso di cambio; né a tutte le questioni di individuazione della natura dei potenziali vizi e dei rimedi.

La prima statuizione su cui vorrei brevemente soffermare l’attenzione è la seguente: <<il requisito secondo cui una clausola contrattuale deve essere formulata in modo chiaro e comprensibile presuppone che, nel caso dei contratti di credito, gli istituti finanziari debbano fornire ai mutuatari informazioni sufficienti a consentire a questi ultimi di assumere le proprie decisioni con prudenza e in piena cognizione di causa. A tal proposito, tale requisito implica che una clausola, in base alla quale il prestito deve essere rimborsato nella medesima valuta estera nella quale è stato contratto, sia compresa dal consumatore non solo sul piano formale e grammaticale, ma altresì in relazione alla sua portata concreta, nel senso che un consumatore medio, normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto, possa non solo essere a conoscenza della possibilità di apprezzamento o deprezzamento della valuta estera nella quale il prestito è stato contratto, ma anche valutare le conseguenze economiche, potenzialmente significative, di una tale clausola sui suoi obblighi finanziari. Spetta al giudice nazionale procedere alle verifiche necessarie al riguardo>>.

La seconda statuizione è la seguente: <<la valutazione del carattere abusivo di una clausola contrattuale deve essere effettuata con riferimento al momento della conclusione del contratto di cui trattasi, tenendo conto dell’insieme delle circostanze di cui il professionista poteva essere a conoscenza in tale momento e che erano idonee a incidere sull’ulteriore esecuzione del contratto in questione, in quanto una clausola contrattuale può essere portatrice di uno squilibrio tra le parti che si manifesta solo durante l’esecuzione di quest’ultimo>>.

Non mi sembrano due statuizioni separate, perché il precetto che se ne ricava è uno soltanto: il consumatore deve essere messo in grado di ricavare, dalla clausola, la stima del rischio finanziario, che dipende dall’incidenza, sulle rate future, del rischio di cambio.

Un precetto, ma forse è meglio dire un principio perché, al momento di dire come deve essere strutturata quella clausola per essere trasparente, la Corte di Giustizia afferma che <<Spetta al giudice nazionale procedere alle verifiche necessarie al riguardo>>.

Il principio, tuttavia, può servire a edificare il precetto, perché rappresenta una risposta, che a me pare molto netta, all’interrogativo che sta a monte di qualsiasi discussione sulla trasparenza dell’alea, vale a dire se sia un bene o un male che l’investitore conosca la misura del rischio finanziario che assume.

Secondo la Corte di Giustizia, è un bene.

È particolarmente apprezzabile lo sforzo della Corte di Giustizia di enucleare, ancorché senza esplicitarla, l’idea di probabilità, dapprima chiarendo che il giudizio di trasparenza della clausola va condotto ex ante (<<la valutazione del carattere abusivo di una clausola contrattuale deve essere effettuata con riferimento al momento della conclusione del contratto di cui trattasi >>), poi però chiarendo altrettanto efficacemente che il giudizio sul significativo squilibrio delle prestazioni ha ad oggetto una previsione, sicché è un giudizio che va condotto non già sullo squilibrio delle prestazioni al momento della conclusione del contratto, bensì sullo squilibrio della quantità stimata. Il che significa che si tratta di un giudizio probabilistico sull’incidenza del parametro finanziario (es., il tasso di cambio) sulla quantità delle prestazioni future (<<una clausola contrattuale può essere portatrice di uno squilibrio tra le parti che si manifesta solo durante l’esecuzione di quest’ultimo>>).

L’edificazione del precetto, dunque.

Qui si incontrano subito due questioni.

Prima questione: se ciò che – secondo la Corte di Giustizia – vale per il consumatore di prodotti bancari, valga anche per il non consumatore, dunque per le imprese.

Seconda questione: cosa ci debba essere scritto dentro una clausola, perché questa renda l’investitore edotto <<non solo (…) della possibilità di apprezzamento o deprezzamento della valuta estera nella quale il prestito è stato contratto, ma anche [delle] conseguenze economiche, potenzialmente significative, di una tale clausola sui suoi obblighi finanziari>>.

In ordine alla prima questione – se ciò che vale per il consumatore debba valere anche per le imprese – una ragione per non estendere il principio alle imprese risiede nella considerazione che le imprese dovrebbero essere dotate di risorse economiche sufficienti per calcolare da sé la stima del rischio che assumono concludendo un contratto indicizzato ad un rischio di cambio (o simili).

Questa affermazione, tuttavia, non corrisponde sempre alla realtà e, soprattutto, non è desiderabile, perché se, per sapere quanto rischiano negoziando uno strumento finanziario, le imprese debbono incaricare un terzo della stima, e devono pagarlo, il mercato finanziario si assottiglia, inevitabilmente, poiché molte imprese staranno alla larga da un mercato costoso. Altrimenti, esse continueranno a fare ciò che fanno, cioè negoziare strumenti finanziari fidandosi, alla cieca, che abbia ragione la banca a consigliarli, oppure sperando, alla cieca, che il consiglio del vicino di casa sia felice.

Con ciò si disvela l’ottima ragione per estendere il principio dal consumatore alle imprese, rappresentata dal fatto che il mercato finanziario ha bisogno della fiducia delle imprese non meno che della fiducia dei consumatori.

Venendo al contenuto della clausola – la seconda questione – credo che possano ravvisarsi serie ragioni perché il contenuto possa essere diverso per consumatori ed imprese.

Per il consumatore, il valore dello strumento e gli scenari probabilistici potrebbero essere sintetici e semplici, graficamente elementari, ed occorre evitare il pericolo della credulità, chiarendo quindi, in qualche parte del contratto, che gli scenari probabilistici esprimono probabilità, non certezze. Inoltre, il consumatore – lo statuisce anche la sentenza – è bene che sia, innanzitutto, prudente, e in fondo la ragione per informarlo del rischio è che egli, in quanto informato e mediamente sensato, sia poi ragionevole, il che, mi parrebbe di poter affermare, rappresenta un obbiettivo serio e condivisibile, essendo opportuno che i mercati finanziari non siano minacciati dalle crisi di fiducia dei consumatori i quali, se al postutto subiscono perdite, sono assai scarsamente propensi all’autocritica e a farsi una ragione d’aver compiuto magari consapevolmente un investimento rischioso.

Per l’impresa, l’avvertenza che la stima non è la garanzia di un risultato potrebbe essere superflua, e gli scenari probabilistici possono essere bensì rappresentati graficamente, ma con una sintetica illustrazione letterale, a corredo. Per l’impresa il modello è l’investitore consapevole, non l’investitore per forza prudente. L’impresa può certo essere prudente, ma può anche assumere rischi, se si tratta per l’appunto di un rischio calcolato – un sinonimo, il rischio calcolato, di alea razionale -. Anche dal versante della responsabilità dell’amministratore, che risponda al consiglio o alla società ed ai soci di un investimento da lui compiuto, mi parrebbe più efficiente discutere della qualità e quantità del rischio che da quell’operazione è derivato alla società, che della tipologia di strumento finanziario o della sua stessa complessità. Quale che sia la denominazione dello strumento, potrebbe essere difficile considerare manifestamente irragionevole, e quindi fonte di responsabilità dell’amministratore, la negoziazione di un rischio caratterizzato dal 70 % di probabilità di conservare il capitale con una plus del 20 %.

Da ultimo.

Il principio di trasparenza dell’alea statuito dalla Corte di Giustizia, con la lucidità con cui ne scioglie oggi i termini la Corte di Giustizia, concerne un contratto bancario – il mutuo –, prototipo degli strumenti finanziari (denaro – tempo – denaro) eppure sovente relegato con risolutezza dentro i confini del codice civile e del Testo Unico Bancario, anche quando incorpora i più schietti tratti del rischio finanziario (denominazione in valuta estera; indicizzazione; derivati impliciti connessi a parametri di tasso o di cambio).

Invece, i termini del principio di trasparenza non si trovano sciolti altrettanto lucidamente nella Mifid II – nella quale pure esso è contemplato – ad onta del fatto che la Mifid II sia la sede naturale per la disciplina della trasparenza del rischio, trattandosi della disciplina più organica degli investimenti in strumenti finanziari.

Come sempre, il legislatore si dimostra un riformatore prudente, e il vero riformatore è il giudice.

Un riformatore, il giudice, a volte bello vispo: mentre molti interpreti, de iure condito e nonostante il Regolamento 1286/2014, contrastano l’assoggettamento dei contratti bancari alla disciplina dell’intermediazione finanziaria, per il dichiarato timore di troppa trasparenza, ecco la Corte di Giustizia che sorpassa tutti, statuendo il principio della massima trasparenza, a proposito di un contratto bancario.

Converrà allora, mentre studiamo i chilometri di parole scritte dal legislatore di Mifid II, prestare la massima attenzione anche al Regolamento UE PRIIPs 1286/2014, e comunque immaginare in anticipo cosa potrà dire domani un giudice che voglia attribuire, alle parole della legge, vim ac potestatem.

 


[1] A. Lupoi, Il tramonto dell’informazione letterale, l’alba dell’informazione numerica ?, in ww.dkirittobancario.it; D. Maffeis,Direttiva 2014/17/UE: rischi di cambio e di tasso e valore della componente aleatoria nei crediti immobiliari ai consumatori, in Banca borsa tit. cred., 2016, 190 – 205;Id., I derivati incorporati sono derivati ed incidono sulla qualificazione civilistica dei contratti di finanziamento, ne Le Società, 2016, pp. 1385 – 1396.

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