In attesa della pronuncia delle Sezioni Unite, cui nel frattempo è stata rimessa analoga questione[1], il Tribunale di Modena, con ordinanza resa all’esito di un giudizio sommario di cognizione, si è pronunciato sulla questione della nullità del contratto di conto corrente derivante dalla mancata sottoscrizione dello stesso da parte dell’istituto bancario, escludendo tale sanzione[2].
Una società e suoi garanti (fideiussori) convenivano in giudizio un istituto bancario chiedendo l’accertamento del saldo del conto corrente e il riaccredito di somme illegittimamente addebitate dalla banca per interessi anatocistici, usurari e c.m.s. Producevano in giudizio, come primo documento, copia del contratto di conto corrente in cui la società correntista dichiarava di aver ricevuto «Vostra in data odierna del seguente tenore letterale» e, in fondo al documento, di aver ricevuto «copia del contratto».
Nell’ambito della consulenza tecnica disposta dal Giudice, il consulente tecnico di parte, nominato dalla società correntista e dai fideiussori, rilevava la nullità del contratto di conto corrente per assenza di firma della banca, invocando l’art. 117 T.U.B. (a norma del quale «i contratti sono redatti per iscritto e un esemplare è consegnato ai clienti» , che sanziona con la «nullità» l’inosservanza di tale requisito di forma) e invocando giurisprudenza a sostegno di tale interpretazione, e cioè che qualora il contratto bancario sia privo della sottoscrizione della banca o del cliente non possa ritenersi soddisfatto il requisito imposto ex lege della forma scritta. Il consulente tecnico di nomina giudiziale, correttamente qualificando la questione come questione «giuridica», rimetteva la rilevazione/decisione sulla presunta nullità, derivante della mancata firma contestuale di banca e correntista, al giudice.
È anzitutto da condividere, a livello di metodo, la rimessione della questione dal consulente tecnico al giudice: se il requisito della forma scritta ad substantiam richieda o non richieda che l’espressione della volontà delle parti si manifesti necessariamente con la doppia sottoscrizione del documento è una valutazione giuridica che, come tale, non compete al consulente tecnico, e ciò indipendentemente dalla formulazione e dall’ampiezza del quesito a lui rivolto. Sebbene al consulente tecnico sia richiesto di verificare la effettiva pattuizione tra le parti di determinate clausole e quindi la coerenza di queste rispetto agli addebiti sul conto corrente, il consulente non può, nemmeno strumentalmente, condurre questo tipo di (diversa, perché giuridica) valutazione. Un conto è, ai fini della rettifica del saldo di conto corrente, espungere le spese e commissioni «non concordate» e tecnicamente calcolare gli interessi passivi applicando quelli «convenzionalmente pattuiti», altro è l’indagine sula sussistenza del requisito della forma scritta di quelle convenzioni, che è appunto un’indagine giuridica e non «tecnica».
Il Tribunale di Modena, in linea con buona parte della giurisprudenza di merito[3], ha deciso la questione, nel senso della validità del contratto di conto corrente, e lo ha fatto motivando la sua decisione in modo compiuto e convincente, anche per la molteplicità di argomenti addotti.
Apertamente, il Tribunale di Modena dichiara di «non ignora[re] l’orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità in relazione al tema del contratto di c/c firmato dal solo correntista (Cassazione, sent. n. 5919/2016)».
Infatti, recentemente, due sentenze della suprema Corte, la n. 5919/2016 (citata dal Giudice modenese) e la n. 8395/2016[4], hanno affermato che i c.d. contratti monofirma sarebbero nulli per inosservanza della forma scritta prescritta dalla legge, nullità derivante dalla mancanza della contemporanea presenza sul medesimo modulo della sottoscrizione del cliente e dell’istituto di credito. L’orientamento, formatosi su queste due pronunce, entrambe in materia di intermediazione finanziaria e contratti quadro ed entrambe emesse dal medesimo collegio della prima sezione della suprema Corte, in contrasto peraltro col precedente consolidato orientamento inaugurato con Cass. 4564/2012[5], non è stato però condiviso dalla prevalente giurisprudenza di merito, tra cui anche il Tribunale di Modena.
Il Tribunale di Modena non riesuma tuttavia il precedente orientamento, ma valorizza le argomentazioni di quello più recente, che pur hanno condotto a una conclusione, per i giudici di merito, non condivisibile.
Nell’osservare, il Tribunale di Modena, che la Cassazione non ha ripudiato «l’insegnamento più volte ribadito, secondo cui il requisito della forma scritta ad substantiam è soddisfatto anche se le sottoscrizioni delle parti sono contenute in documenti distinti, purché risulti il collegamento inscindibile del secondo documento al primo, sì da evidenziare inequivocabilmente la formazione dell’accordo», afferma che la circostanza che nella copia di contratto prodotta dagli attori, la società garantita dichiari di aver ricevuto «Vostra in data odierna del seguente letterale tenore» e, in fondo al documento, di aver ricevuto «copia del contratto», «induce a ritenere che il documento prodotto sub 1) atto di citazione dagli attori non sia la “Vostra” (cioè della Banca) che in esso si dichiara di aver ricevuto».
Per il tribunale modenese, «da tale dichiarazione, resa dalla debitrice solidale, è possibile ricavare che la società garantita ha ricevuto un documento firmato della Banca (“Vostra” indica una paternità, non solo una provenienza materiale). Pertanto, in assenza della dimostrazione, mediante produzione da parte degli opponenti, che il documento cui allude il doc. 1), in possesso della garantita, non rechi la sottoscrizione della Banca, il contratto deve ritenersi valido».
Con questo convincente ragionamento, il Tribunale di Modena introduce il tema della confessione, come prova processuale disciplinata dal codice civile agli artt. 2730 c.c. ss., contestando, di fatto, che la stipulazione del contratto per cui è richiesta la forma scritta ad substantiam «non po[ssa] essere desunta dalla confessione di uno dei contraenti», contrariamente a quanto sostenuto dalla suprema Corte.
Il Tribunale di Modena non è infatti convinto dalla motivazione della suprema Corte in tema di confessione, ed osserva che «non si rinviene nella disciplina codicistica un’espressa esclusione della confessione (sia stragiudiziale, che non può provarsi per testimoni ex art. 2735 comma II cc, ma qui risulta da un documento; sia giudiziale, che non incontra limiti), come invece avviene per la prova per testimoni, presunzioni e giuramento. La Corte si limita a evidenziare che la consegna del documento firmato da uno dei contraenti non può essere equiparata allo smarrimento incolpevole e quindi sfuggirebbe all’eccezione di cui all’art. 2725 comma II cc», senza dunque convincere del perché la prova del contratto (qui, dell’esistenza del documento firmato dalla banca) per cui è richiesta forma scritta sotto pena di nullità non possa essere offerta mediante confessione.
E, infatti, guardando la pronuncia della suprema Corte, questa, a sostegno dell’interdizione della confessione ai fini della prova dell’esistenza del documento firmato dalla banca, invoca non una norma ma un risalente precedente giurisprudenziale (Cass. 2 gennaio 1997, n. 2) che effettivamente associa prova testimoniale e confessione, escludendole entrambe, ma in quel caso si trattava di provare l’esistenza e il contenuto di una vendita di un bene immobile (prova che, per la suprema Corte, può essere data solo con l’acquisizione, al processo, dell’atto scritto, non essendo consentite né la prova testimoniale, né la confessione), e perciò di un «fatto» qualitativamente diverso e più complesso.
Procediamo ora a un inquadramento normativo e dogmatico, per provare a trarre qualche ulteriore conclusione sul caso concreto. La confessione, o dichiarazione confessoria, resa fuori dal giudizio verbalmente, può essere provata a mezzo testimonianza, purché non verta su un oggetto sul quale la prova testimoniale non è ammessa (art. 2735, comma 2, c.c.); mentre la confessione resa per iscritto (e il tipico caso è quello della quietanza di pagamento)[6], necessita della prova della dichiarazione stessa, prova che può essere fornita secondo le ordinarie regole probatorie. La prova della dichiarazione, se fornita, conferisce alla confessione efficacia di prova legale[7].
La confessione può avere ad oggetto solo fatti della causa, siano essi costitutivi o estintivi o modificativi o impeditivi, attesa l’inequivocità dell’art. 2730 c.c. a norma del quale «la confessione è la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti di causa ad essa sfavorevoli e favorevoli all’altra parte», ma può ben estendersi, sub specie facti, anche a situazioni giuridiche rilevanti, come quelle comportanti la costituzione di un rapporto contrattuale, fermo restando che la qualificazione giuridica dei fatti è riservata al giudice, secondo il principio iura novit curia[8]. Questi, e non altri, sono i limiti della confessione come mezzo di prova.
Dichiarando di aver ricevuto copia del contratto, il correntista confessa il fatto della consegna della copia sottoscritta dalla banca, e cioè un fatto o, se si vuole (includendo, tale dichiarazione, per taluni, la confessione della sussistenza in capo al sottoscrittore del potere di rappresentanza), una situazione giuridica rilevante, che resta entro i limiti imposti dalla legge all’operatività della confessione come mezzo di prova legale. La consegna di un documento sottoscritto non è certo una dichiarazione negoziale di volontà, ma una dichiarazione di scienza; non è l’asseverazione di un diritto, ma l’asseverazione di un fatto[9].
Vi è poi, a livello normativo, il limite generale, che riguarda la prova per testimoni (e non la confessione, come puntualizza il Tribunale di Modena) dell’art. 2725 c.c. per gli «atti per i quali è richiesta la prova per iscritto o la forma scritta»: la prova testimoniale è ammessa soltanto nel caso di smarrimento incolpevole del documento. La Corte di cassazione, è vero, è stata sempre rigorosa nel richiedere la prova sia della diligenza nella custodia e sia dei fatti specifici che hanno determinato la perdita, affermando, ad esempio, che l’aver lasciato l’unica copia in mano dell’altra parte non è stata considerata come sufficiente ragione di perdita incolpevole del documento[10], ma questo limite riguarda la prova testimoniale e non la confessione.
Il Tribunale di Modena si sposta poi dal piano probatorio e quello della nullità, sempre in chiave processuale, affermando: «Ad avviso del Tribunale, ove il fatto di tale consegna risulti da confessione stragiudiziale, come nel caso di specie, occorre invece porre l’accento sulla considerazione per cui chi fa valere una nullità dovrebbe allegare e provare il fatto costitutivo della sua eccezione, che pare doversi individuare nell’assenza di firma della banca (anche) nel documento che risulta essere in suo possesso (o in possesso del debitore garantito), ciò mediante la produzione di tale documento, qui non avvenuta, che smentisca la confessione stragiudiziale (si ripete che tale documento, cioè la ‘copia per il correntista’ ovvero la proposta contrattuale, non è il doc. 1 attori, sia perché il doc 1 attori vi si riferisce, sia perché nel doc. 1 è scritto “copia per la banca”, sia perché la Banca figura quale destinataria e La Società come mittente)».
E tale argomentare è senz’altro convincente: nella normale logica del nostro processo, imperniato sulla regola dell’art. 2697 c.c., è chi solleva l’eccezione di nullità a dover provare il fatto costitutivo posto a fondamento di quell’eccezione, ed è quindi il correntista a dover provare, con produzione documentale, che la copia del contratto a lui destinata (posto che è provato che l’abbia ricevuta) fosse priva di sottoscrizione della banca.
Il Tribunale adduce infine tre persuasivi argomenti che negano l’incidenza, in questo argomentare, della rilevabilità d’ufficio della nullità: 1) «il rilievo d’ufficio non può che basarsi sul quadro di allegazioni che risulta dagli atti introduttivi»; 2) «nel caso di specie, la peculiarità, data dal fatto che si ammette che le due firme non coesistano sullo stesso documento, implica che per poter procedere al rilievo d’ufficio debbano essere in atti (non una ma) due copie non firmate dalla banca»; 3) «se una di queste copie, acclarata la sua disponibilità in mano al correntista, non è allegata, il principio di vicinanza della prova, che si aggiunge alla ovvia considerazione per cui chi allega un fatto (assenza di firma nella copia in suo possesso) ha l’onere di provarlo, preclude che dalla mancata produzione del documento derivino effetti favorevoli (qui, la pronuncia di nullità) per chi deve e può produrlo».
Se il primo argomento risponde al più generale principio della domanda, per cui anche il rilievo officioso non può che basarsi su fatti condotti nel processo dalle parti, il secondo argomento è applicazione del primo: posto che due firme possono non coesistere sullo stesso documento, per poter procedere al rilievo d’ufficio, debbano essere acquisite al processo due copie non firmate dalla banca, e non una, la copia per la banca e quella per il correntista.
Il terzo argomento introduce il tema della vicinanza della prova:se una delle due copie del contratto di conto corrente, la cui disponibilità in capo al correntista è provata perché confessata, non è allegata, il principio di vicinanza della prova preclude che dalla mancata produzione del documento derivino effetti favorevoli (qui, la pronuncia di nullità) per chi deve e può produrlo.
Non si può che condividere anche questa considerazione, che evoca il tema delle c.d. nullità di protezione, come lo sono quella del 117 T.U.B. e quella del 23 T.U.F, ricordando, come altra giurisprudenza di merito, in disaccordo col recente orientamento di legittimità, afferma, che: «ponendosi nella prospettiva della funzione che alla previsione di forma è stata assegnata dal legislatore, l’eccezione del cliente circa la mancanza di sottoscrizione della banca non può che risultare del tutto priva di fondamento, siccome non pertinente all’esigenza che quella prescrizione formale è volta ad assicurare, finendo per trasformare un presidio posta a tutela dell’informata e consapevole partecipazione dei clienti in un formalistico strumento per conseguire risultati del tutto al di fuori delle previsioni e dello scopo della norma»[11].
Il Tribunale di Modena porta dunque efficaci argomenti a sostegno della validità del contratto di conto correte monofirma, che si aggiungono ad altri già addotti in recenti pronunce di merito. Tra questi, vi è quello, forse più decisivo, addotto in una recente pronuncia della Corte d’appello di Napoli, nel confermare l’orientamento per cui qui si propende[12]: la forma scritta non coincide né con la sottoscrizione in quanto tale né, tantomeno, con la sottoscrizione dei due contraenti, che è esattamente il presupposto (indimostrato) da cui muove la recente decisione delle suprema Corte quando afferma che la produzione in giudizio della scrittura da parte del contraente che non l’ha sottoscritta realizza un equivalente della sottoscrizione con effetti «ex nunc» e non «ex tunc».
L’art. 2702 c.c. sull’«efficacia della scrittura privata» infatti,nonstabilisce che la scrittura privata è quella redatta per iscritto e sottoscritta dalle parti. L’art. 2702 c.c. afferma, invece, che la scrittura privata fa piena prova, sino a querela di falso, della provenienza delle dichiarazioni da chi l’ha sottoscritta, se colui contro il quale la scrittura è prodotta ne riconosce la sottoscrizione ovvero se questa è legalmente considerata come riconosciuta. È, allora, il firmatario dell’atto, e non la controparte, che può togliere la piena efficacia alla scrittura, disconoscendola.
In chiave processuale, l’art. 214 c.p.c. (rubricato «disconoscimento della scrittura privata»), afferma che colui contro il quale è prodotta una scrittura privata, se intende disconoscerla, è tenuto a negare formalmente la propria scrittura o la propria sottoscrizione. Ciò significa, come spiega la Corte d’appello di Napoli, che potrebbe esservi una scrittura privata anche senza sottoscrizione, che varrebbe come tale fino a quando non venga disconosciuta la scrittura.
La Corte d’appello di Napoli ragiona poi su un caso limite, che, pur del tutto improbabile nella prassi bancaria, è efficace a testare la bontà di questa ricostruzione: «ci si può chiedere quale regime applicare ad un contratto per il quale la legge richieda la forma scritta ad substantiam, che, anziché essere redatto su un formulario prestampato, venga scritto di pugno da una parte e sottoscritto solo dall’altra parte. Ora, pare davvero poco sostenibile che la parte che lo ha sottoscritto possa affermarne la nullità, anche se l’autore della scrittura non disconosca il testo scritto, ed anzi vi abbia dato esecuzione».
Che la sottoscrizione non sia un elemento naturale della scrittura privata, trova poi un’accidentale conferma in quella stessa giurisprudenza che afferma che, con la produzione in giudizio del documento non sottoscritto, si può concludere il contratto, sia pure con efficacia ex nunc. Se, infatti, la produzione in giudizio vale a determinare la conclusione del contratto, come accettazione dell’altrui proposta, spiega la Corte d’appello di Napoli, vuol dire possono esistere comportamenti concludenti che tengono luogo della sottoscrizione, ferma restando la necessità di un testo contrattuale scritto. E, così, l’avvenuta e reiterata esecuzione del contratto, provata anche mediante la produzione degli estratti conto, unita alla sua mancata contestazione ed al suo mancato disconoscimento, rappresentano certamente comportamenti che palesano la volontà di dare esecuzione a quel contratto scritto[13].
Come rilevato in un recente studio di dottrina sul «neoformalismo negoziale di protezione»[14], che pure sembra criticare la teoria del «fine di protezione» di una delle parti del rapporto negoziale, perché riduttivo delle funzioni della forma vincolata, mentre la forma scritta è, sul piano oggettivo, la modalità con cui l’atto deve esteriorizzarsi e, dal punto di vista soggettivo, è «il modo con cui la volontà delle parti deve manifestarsi all’esterno», la sottoscrizione come «segno significante che in forma scritta esprime consenso al regolamento contrattuale» va associata alla sola funzione che può esserle riconosciuta secondo un criterio di regolarità[15]. Ciò significa che si possono congruentemente dare le alternative alla sottoscrizione.
La stessa alternativa tra la figura della forma vincolata per la validità, e quella stabilita per la prova, la cui mancanza lascia impregiudicata la validità, l’efficacia, l’esecuzione, la ricognizione dell’atto, «non esclude che ove manchi sul documento in cui si raccolga il regolamento contrattuale, la sottoscrizione abbia equipollentisiccome essa non fa parte di quest’ultimo, né occorre la contestualità delle firme dei contraenti»[16].
Per quella dottrina, «alla sottoscrizione – in ipotesi mancante – del contratto si può dunque parificare la produzione in giudizio del documento contenente il regolamento negoziale non firmato dal contraente che a essa provveda per avvalersi dell’atto e accreditare il rapporto: tale l’equipollenza, ora ammessa anche con riguardo ai contratti da farsi in forma scritta sotto pena di nullità, si può affidare al medio logico della sottoscrizione della procura al difensore»[17].
Si rimarca, infine, che, in questi casi, il cliente non si duole di non avere prestato un consenso informato alla conclusione del contratto, né adduce che sia carente un documento contrattuale dove sia rappresentata la sua volontà negoziale e neppure sostiene che non si sia dato corso al rapporto (di conto corrente, nel caso di specie), ma si avvale unicamente della legittimazione di cui all’art. 117 T.U.B. «per formalisticamente dedurre ed eccepire la mancanza di sottoscrizione in calce a quel contratto»[18].
[1] Con l’ordinanza n. 10447 del 27.4.2017 la Prima sezione della Corte di Cassazione ha rimesso al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la questione «se, a norma dell’art. 23 T.U.F., il requisito della forma scritta del contratto di investimento esiga, accanto a quella dell’investitore, anche la sottoscrizione ad substantiam dell’intermediario», su Diritto Bancario, con commento di Cusumano, Nullità del contratto quadro privo della sottoscrizione della banca: rimessa la questione alle Sezioni Unite. L’ordinanza, nel ricordare gli argomenti a sostegno dei due orientamenti, sottolinea l’esigenza di scongiurare comportamenti opportunistici e contrari a buona fede da parte dell’investitore quando la banca non abbia sottoscritto il contratto quadro di investimento, prospettando anche la convalida del contratto nullo in forza dell’art. 1423 c.c., che consente alla legge di disporre diversamente.
[2] Sul tema recentemente, sempre su Diritto Bancario, il commento critico a Corte d’Appello di Bologna, 13 gennaio 2017, n. 89, di Grippo, Belleggia, Difetto di sottoscrizione del contratto di investimento da parte della banca e limiti alla rilevabilità d’ufficio delle nullità c.d. «relative», con cui la Corte d’appello di Bologna ha accolto l’impugnazione promossa dal cliente della Banca contro la sentenza che in prime cure aveva rigettato, tra le altre, la domanda di nullità di un contratto quadro relativo alla prestazione dei servizi di investimento (in base al quale aveva acquistato obbligazioni Argentina poi andate in default)per assenza della sottoscrizione da parte della banca intermediaria. La questione, benché relativa a un contratto di investimento e non a un contratto bancario, è analoga a quella de qua, avendo l’art. 23 T.U.F. contenuto identico rispetto art. 117 T.U.B., prevendendo che «i contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento […] sono redatti per iscritto e un esemplare è consegnato ai clienti» e che «nei casi di inosservanza della forma prescritta, il contratto è nullo».
[3] Tra quelle più recenti, Trib. Catania, 17.02.2017, n. 790 (conto corrente); Trib. Napoli, 13.2.2017, n. 1924 (conto corrente); Trib. Ascoli Piceno, 31.01.2017, n. 87 (conto corrente); Trib. Bergamo, 11.1.2017, n. 26 (servizi di investimento); App. Napoli, sez. III, 28.12.2016 (conto corrente); Trib. Pistoia, 19.11.2016, n. 1267 (conto corrente); App. Venezia, 3.11.2016, n. 2477 (servizi di investimento); Trib. Reggio Emilia, 28.04.2015, n. 682 (conto corrente); Tribunale di Milano, 04.08.2014 (conto corrente); Tribunale di Milano, 12.11.2013 (servizi di investimento); Trib. Monza, 13.5.2012 (conto corrente); App. Torino, 3.04.2012, tutte su www.expartecreditoris.it, www.ilcaso.it.
[4] La prima richiamata anche dalla recente Cass. civ., sez. I, 14.03.2017, n. 6559, in materia di contratti bancari.
[5] Cass. civ., sez. I, 22.03.2012, n. 4564: «La previsione di forma contenuta nell’articolo 23 del d.Lgs. n. 58 del 1998 (TUF) è soddisfatta dalla sottoscrizione del contratto da parte del solo investitore, allorché la copia prodotta in giudizio dal cliente rechi la dicitura ‘un esemplare del presente contratto ci è stato da voi consegnato’. L’obbligo di forma scritta è altresì rispettato quando, alla sottoscrizione del contratto da parte del solo investitore, abbiano fatto seguito, anche alternativamente, la produzione in giudizio di copia del contratto da parte della banca, oppure la manifestazione di volontà della medesima di avvalersi del contratto stesso, risultante da plurimi atti posti in essere nel corso del rapporto (ad es. comunicazione degli estratti conto)».
[6] Cass. civ., sez. III, 10.03.2000, n. 2813.
[7] Cass. civ. sez. III, 10.08.2000, n. 10581: «la confessione stragiudiziale fatta alla parte, una volta provata (con qualsiasi mezzo, ivi compresa la confessione, valendo in tal caso le ordinarie regole probatorie), ha il medesimo valore di prova legale della confessione giudiziale, ed è dotata di efficacia vincolante sia nei confronti della parte che l’ha resa (alla quale non è riconosciuta alcuna facoltà di prova contraria), sia nei confronti del giudice, che, a sua volta, non può valutare liberamente la prova, né accertare diversamente il fatto confessato».
[8] V. Andrioli, Confessione (dir. proc. civ.), in Nss. Dig.It., IV, Torino, 1959, 11. In giurisprudenza, v. Cass. civ., sez. II, 21.10.1992, n. 11498.
[9] Comoglio, Le prove, in Tratt. dir. privato diretto da Rescigno, Torino, 1985, 330 s.
[10] Cass. ci., 22.01.1985, n. 251.
[11] App Venezia, 3.11.2016, cit.
[12] App. Napoli, 28.12.2016, cit.
[13] Così, sempre, App. Napoli, 28.12.2016.
[14] P. Gaggero, Neoformalismo negoziale di “protezione” e struttura della fattispecie, in Contr. e impr., 2016, 6, 1463.
[15] V., sul tema della paternità, Orlandi, La paternità delle scritture. Sottoscrizione e firme equivalenti, Milano, 1997; in giurisprudenza, sull’essenziale profilo funzionale della sottoscrizione, v. Cass., 30.05.1989, n. 2588, in Notiz. giur. lav., 1989, p. 761, e Cass., 26.01.1987, n. 720, in Giust. civ., 1988, I, p. 242 ss.
[16] Gaggero, cit., con richiamo a Sacco, La forma, in Sacco, De Nova, Il contratto, nel Tratt. dir. priv. diretto da Rescigno, 10, II, Torino, 2002, p. 291 ss. e, ivi, p. 301; sulla contestaulità di firme v. Cass., 11.05.1983, n. 3262, in Giust. civ. Mass., 1983, e Cass., 13.07. 1993, n. 7747, ivi, 1993, p. 1170 («Il requisito della forma scritta ad substantiam non richiede necessariamente l’espressione della volontà delle parti con la sottoscrizione di un documento cartolarmente unico, sicché il documento, contenente tutti gli estremi del contratto, e sottoscritto da una delle parti, rechi anche la sottoscrizione dell’altra, ma deve ritenersi osservato anche quando tale seconda sottoscrizione sia contenuta in un documento separato, se inscindibilmente collegato al primo, sì da evidenziare inequivocabilmente l’incontro dei consensi nella suddetta forma»).
[17] Gaggero, cit., con richiamo a Cass., 27.05.2003, n. 8423, in Giust. civ. Mass., 2003, e Cass., 11.03.2000, n. 2826, cit., 1093 ss.
[18] Così, efficacemente, App. Venezia, 3.11.2016, n. 2466, cit.