1. Il caso.
Un socio di una società per azioni agisce in giudizio, ex art. 2393 bis c.c., contro gli amministratori, per ottenere, in favore della società stessa, il risarcimento dei danni che le sarebbero stati cagionati.
Il socio, dopo aver notificato l’atto di citazione sia agli amministratori, sia alla società da essi gestita, cede parte delle proprie azioni a una diversa società, la quale si costituisce in giudizio aderendo alle domande proposte dall’attore.
Gli amministratori eccepiscono il «difetto della condizione processuale prevista dall’art. 2393 bisc.c.». Secondo il quarto comma di questo articolo, infatti, «i soci che intendono promuovere l’azione nominano, a maggioranza del capitale posseduto, uno o più rappresentanti comuni per l’esercizio dell’azione e per il compimento degli atti conseguenti».
Con ordinanza, il Tribunale assegna all’attore e all’interveniente, ex art. 182, comma 2 c.p.c., un termine per la costituzione in giudizio di tali rappresentanti.
L’attore si costituisce nuovamente in giudizio, questa volta in qualità di rappresentante comune dei soci.
Con la comparsa conclusionale, gli amministratori eccepiscono che il difetto della condizione prescritta dall’art. 2393 bis, comma 4 c.c., non è stato sanato dalla costituzione dell’attore in qualità di rappresentante comune. Assumendo che la citata disposizione preveda una rappresentanza «di tipo sostanziale», gli amministratori sostengono che la mancata nomina del rappresentante comune non può essere intesa quale difetto di rappresentanza in senso processuale e non è quindi superabile mediante l’art. 182, comma 2 c.p.c.
Il Tribunale ritiene infondata l’eccezione, affermando che la rappresentanza prevista dall’art. 2393 bis ha natura processuale. Il citato articolo, difatti, contempla una rappresentanza limitata al solo esercizio dell’azione sociale di responsabilità. A tale rappresentanza si applica quindi la sanatoria prevista dall’anzidetto art. 182 del codice di rito. I Giudici della Sezione specializzata in materia di impresa accolgono parzialmente le domande formulate dai soci, condannando gli amministratori e la società, in solido tra loro, alla rifusione delle spese.
Poiché non sono sorte questioni di particolare complessità in merito alla responsabilità degli amministratori prevista dall’art. 2392 c.c., ci concentreremo sui profili processuali dell’art. 2393 bis, particolarmente interessanti e, a quanto risulta, non ancora esaminati funditus.
2. La sostituzione processuale prevista dall’art. 2393 bis, comma 4 c.c.
Secondo il primo comma dell’art. 2393 bis, l’azione sociale di responsabilità «può essere esercitata anche dai soci che rappresentino almeno un quinto del capitale sociale o la diversa misura prevista nello statuto, comunque non superiore al terzo» e, nel caso delle società che facciano ricorso al mercato del capitale di rischio, dai soci che rappresentino almeno un quarantesimo del capitale sociale o la minor misura stabilita dallo statuto[1].
L’azione può essere esercitata dal singolo socio[2]. Quando, invece, i soci sono più d’uno, il comma 4 dell’art. 2393 bis impone la nomina di uno o più rappresentanti comuni.
Questa rappresentanza è alquanto peculiare, poiché si àncora a una sostituzione processuale[3]. I soci, infatti, si sostituiscono alla società nell’esercizio dell’azione di responsabilità che quest’ultima vanta nei riguardi degli amministratori[4].
La nomina dei rappresentanti comuni ha dunque lo scopo di evitare che l’unitaria azione sociale sia frammentata in tante azioni individuali quanti sono i soci che partecipano al giudizio.
La sussistenza di una sostituzione processuale è confermata da diversi indizi normativi.
Innanzitutto, l’azione esercitata dai soci è, secondo la rubrica dell’art. 2393 bis, quella «sociale di responsabilità», ossia quella regolata dall’art. 2393.
Tale sostituzione processuale non integra un’azione surrogatoria, giacché tra la società e il socio non sussiste un rapporto di credito-debito, come è invece richiesto dagli artt. 2740 e 2900 c.c.[5].
Correttamente si esclude che, ove la società assuma la lite aderendo alle domande degli attori, questi ultimi possano esserne estromessi. La minoranza, infatti, mantiene un proprio interesse a vegliare sulla conduzione della difesa processuale della società[6].
La dottrina prevalente, inoltre, esclude che l’intervento della società, litisconsorte necessaria, debba essere preceduto da una delibera assembleare. Al contrario, tale delibera dovrà essere adottata unicamente ove la società intenda promuovere autonomamente l’azione sociale ex art. 2393, intervenendo nel giudizio che la minoranza ha instaurato ex art. 2393 bis. Specularmente, si ammette che i soci svolgano un intervento adesivo autonomo nell’azione sociale di responsabilità avviata dalla società[7].
Ulteriore sintomo della presenza di una sostituzione processuale è il terzo comma dell’art. 2393 bis, a norma del quale «la società deve essere chiamata in giudizio […]». Difatti, l’unica ricostruzione alternativa alla sostituzione processuale, ossia l’azione diretta dei soci contro gli amministratori[8], non potrebbe in alcun modo spiegare la necessità della chiamata in causa della società[9].
Il litisconsorzio necessario nei confronti della società, comunque, sussisterebbe anche in assenza della sua esplicita previsione. La norma dell’art. 2900, comma 2, secondo cui il surrogante deve chiamare in causa il surrogato, opera, quale principio generale, per tutte le sostituzioni processuali, anche non surrogatorie, a prescindere da una norma espressa[10]. Tuttavia, una siffatta prescrizione, ove presente, offre un prezioso ausilio interpretativo, escludendo, come pocanzi chiarito, l’azione diretta[11], nonché la rappresentanza processuale della società da parte dei soci. In caso di rappresentanza, infatti, la società starebbe già in giudizio col nome, di modo che non avrebbe alcun senso prevederne la chiamata[12].
Il quinto comma dell’art. 2393 bis, inoltre, stabilisce che, in caso di accoglimento della domanda, la società debba rimborsare ai soci attori «le spese del giudizio e quelle sopportate nell’accertamento dei fatti che il giudice non abbia posto a carico dei soccombenti o che non sia possibile recuperare a seguito della loro escussione». Specularmente, il sesto comma prescrive che i corrispettivi per le rinunce e le transazioni vadano a vantaggio della società. La ratio delle due norme è evidente: l’azione dei soci è volta al risarcimento del patrimonio sociale, cosicché è su questo che devono riversarsi sia i vantaggi, sia gli oneri.
Il rinvio del settimo comma dell’art. 2393 bis all’ultimo comma dell’art. 2393 c.c. – secondo il quale l’efficacia della rinuncia all’azione e della transazione della società è subordinata al voto dell’assemblea in cui non si siano manifestate opposizioni di determinate dimensioni[13] – conferma che l’azione compete alla società, alla quale si sostituiscono i soci[14].
La dimostrazione definitiva di tale inquadramento si ricava dalla lettura combinata degli artt. 2393 bis e 2395 c.c. Quest’ultima disposizione attribuisce, «al singolo socio o al terzo che sono stati direttamente danneggiati da atti colposi o dolosi degli amministratori», un’azione la cui natura aquiliana, oltre che dall’inesistenza di qualsiasi rapporto contrattuale tra soci e amministratori, è suffragata dal secondo comma di quell’articolo, a mente del quale il termine di prescrizione è quinquennale[15]. Se, dunque, l’azione che i soci esercitano iure proprio è già prevista dall’art. 2395, quella dell’art. 2393 bis non può esserne un doppione e deve dar luogo a una sostituzione[16].
Tale sostituzione ha una valenza esclusivamente processuale, giacché, sul piano sostanziale, non è consentito ai soci di sostituirsi alla società nell’attività negoziale. Le ragioni di un tanto sono chiare: l’ingerenza dei soci in quell’attività renderebbe ingovernabile la nave e scardinerebbe la distinzione tra l’assemblea dei soci e il consiglio di amministrazione.
Proprio per questo, l’art. 2393 bis c.c. prevede che i soci possano esercitare «l’azione sociale di responsabilità», ma non fa cenno ad atti sostanziali, eccezion fatta per la rinuncia all’azione e la transazione, per i quali si fa significativamente luogo al voto dell’assemblea.
La sostituzione, allora, offre tutela ai soci di minoranza di fronte alla mala gestio degli amministratori, la cui dipendenza dalla maggioranza è tanto fisiologica[17] quanto pericolosa per le minoranze[18], alle quali occorre dare protezione[19]. L’azione della società – che, nella realtà applicativa, è l’azione della maggioranza societaria – riacquista quindi effettività mediante la sostituzione processuale consentita ai soci di minoranza[20]. La tutela di questa “parte debole”, poi, si ripercuote sull’intero mercato delle partecipazioni societarie, così come la tutela del consumatore agevola i consumi nel loro insieme.
Proprio alla luce di questi contrastanti interessi, la società, ove sia rappresentata dagli amministratori convenuti e aderisca alle difese di questi, abbisogna della nomina di un curatore speciale, ex art. 78, comma 2 c.p.c.[21].
3. Il rappresentante comune.
Poiché la rappresentanza prevista dall’art. 2393 bis, comma 4 è ancorata alla sostituzione, la quale ha natura meramente processuale, allora, per proprietà transitiva, il rappresentante comune dei soci ha una valenza eminentemente procedimentale. Pertanto, oltre al caso previsto dall’art. 317 c.p.c., l’ordinamento offre un’altra ipotesi di rappresentanza meramente processuale[22].
I Giudici, al fine di rafforzare quest’inquadramento e di negare che il vizio di rappresentanza dia luogo a un insanabile «difetto di legittimazione attiva»[23], hanno confrontato la disposizione in esame con l’art. 2347 c.c., secondo cui, «nel caso di comproprietà di un’azione, i diritti dei comproprietari devono essere esercitati da un rappresentante comune nominato secondo le modalità previste dagli articoli 1105 e 1106».
L’eterogeneità degli artt. 2347 e 2393 bis è rilevabile ictu oculi, giacché soltanto la prima disposizione ragiona di esercizio dei diritti, mentre la seconda si riferisce esclusivamente all’azione.
Da quanto sin qui esposto, risulta che il rappresentante, nominato in virtù del quarto comma dell’art. 2393 bis c.c., sta in giudizio con la sola attività; i soci stanno in giudizio col nome e sono parti sostanziali; la società, che sia stata convenuta in ossequio all’art. 2393 bis, comma 3, sta in giudizio con l’attività e col nome, essendo altresì parte sostanziale[24].
Da tale inquadramento si dirama tutta una serie di corollari applicativi[25], tra i quali, in ipotesi, l’applicabilità dell’art. 182 c.p.c.[26], di modo che la scelta del Tribunale di ricorrere a tale disposizione sembrerebbe condivisibile.
4. L’inapplicabilità dell’art. 182 c.p.c. e l’operatività degli artt. 299 ss. del codice di rito.
L’eccezione dei convenuti – secondo la quale la mancata nomina del rappresentante comune costituisce un difetto di legittimazione attiva, insanabile a seguito delle decadenze processuali[27] – è stata ritenuta infondata.
Il vizio, sopravvenuto all’introduzione del processo per effetto della cessione di parte delle azioni dell’attore, difatti, incide, non sulla titolarità dell’azione, ma sulla legittimazione processuale primaria dei soci di minoranza, escludendola quando essi siano più d’uno. In tale ipotesi, gli atti del processo sono inefficaci ove compiuti personalmente dai soci invece che dal loro comune rappresentante.
La fattispecie, allora, può essere accostata alla situazione del soggetto che, in costanza di causa, sia interdetto. Costui, inizialmente dotato del potere di compiere efficaci atti processuali, ne viene privato, cosicché, ex art. 75 c.p.c., è necessario che egli stia in giudizio a mezzo del tutore, il quale, processualmente capace, avrà una legittimazione processuale primaria (i.e. avrà il potere di compiere atti produttivi di effetti) e una legittimazione processuale rappresentativa (i.e. quegli stessi effetti si imputeranno al rappresentato)[28]. La particolarità dell’ipotesi in esame rispetto a quella del tutore, ovviamente, sta nel fatto che l’art. 2393 bis prevede una rappresentanza volontaria.
Se il rappresentante comune – necessario ab origine o divenuto tale in virtù della cessione delle azioni e dell’intervento adesivo autonomo del cessionario[29] – non è nominato, l’art. 182 c.p.c. non è in condizione di operare, giacché la sua applicabilità è limitata ai casi in cui il potere rappresentativo sia stato effettivamente conferito e sia affetto da un vizio imputabile all’attore[30].
La fattispecie è chiaramente anomala. La rappresentanza in discorso è meramente processuale, volontaria e, al tempo stesso, oggetto di un onere per quei legittimati straordinari che vogliano ottenere un provvedimento di merito.
È mia opinione, pertanto, che la vicenda non costituisca un vizio della rappresentanza e non sia quindi soggetta all’art. 182 c.p.c., ma vada assimilata, quoad effectum, secondo quanto anticipato, all’interdizione della parte, avvenuta nel corso del processo. Il provvedimento, emesso ex artt. 414 ss. c.c., priva la parte della capacità processuale e, dunque, della legittimazione processuale primaria. Tale accadimento, incidendo sull’effettività della difesa, produce l’interruzione del processo, ai sensi degli artt. 299 ss. c.p.c.
Allo stesso modo, l’art. 2393 bis c.c. stabilisce che, quando i soci attori sono più d’uno, essi non possono compiere e ricevere gli atti del processo se non mediante dei rappresentanti comuni. Pertanto, quando l’attore è inizialmente unico, ma poi ne intervengono degli altri, sopravviene una situazione (la pluralità di surroganti) che impedisce ai soci di agire senza un rappresentante. Ciò significa che tale accadimento fa venire meno la loro legittimazione processuale primaria, comporta «la perdita della capacità di stare in giudizio» (art. 299 ss. c.p.c.) e interrompe il processo.
In conseguenza di un tanto, l’applicazione dell’art. 182 c.p.c. risulta fuori luogo. Essa è stata cagionata da un’illusione ottica, a causa della quale si è ritenuto che, alla mancanza del rappresentante, dovesse rimediarsi con la sanatoria dei vizi della rappresentanza.
L’art. 182, in realtà, regola la sanatoria dei vizi del potere rappresentativo effettivamente conferito, presupponendo che la domanda sia stata proposta in nome altrui. Quando, però, la contemplatio domini manca, l’art. 182 non ha modo di operare, giacché non vi è alcun (affermato) potere rappresentativo da verificare o regolarizzare.
L’erronea sussunzione nell’art. 182 c.p.c., tuttavia, non ha prodotto delle abnormità applicative. Essa ha comunque garantito l’effettività della difesa dei soci, alla cui protezione sono strumentali gli artt. 299 ss. c.p.c. Difatti, la seconda costituzione dell’attore, in qualità di rappresentante comune, considerata dai Giudici milanesi come regolarizzazione ex art. 182 c.p.c., può essere riqualificata in termini di costituzione in prosecuzione ex art. 302 c.p.c. Mediante tale prosecuzione si è evitata l’estinzione del giudizio, prevista dall’art. 305 c.p.c.[31].
Al contrario, la carenza di legittimazione ad agire, prospettata dai convenuti, si presenterà unicamente laddove il socio scenda, durante il processo, sotto la soglia minima di partecipazione sociale richiesta dai primi due commi dell’art. 2393 bis c.c. In quest’ipotesi, o quella soglia è nuovamente superata grazie all’intervento di altri soci (ciò che è avvenuto nella vicenda in discorso), oppure viene meno la situazione che legittima la sostituzione processuale.
A tale sopravvenuta carenza della situazione legittimante – come pure alla cessazione della materia del contendere e dunque dell’interesse ad agire – farà seguito il difetto della situazione legittimata (i.e. azione)[32], di modo che il processo si arresterà con una pronuncia in rito[33].
5. La condanna alle spese.
I Giudici milanesi hanno condannato in solido la società sostituita e i suoi amministratori alla rifusione delle spese legali in favore del rappresentante comune dei soci.
La decisione è stata argomentata sulla base dell’art. 2393 bis, comma 5 c.c., secondo cui, «in caso di accoglimento della domanda, la società rimborsa agli attori le spese del giudizio e quelle sopportate nell’accertamento dei fatti che il giudice non abbia posto a carico dei soccombenti o che non sia possibile recuperare a seguito della loro escussione»[34].
La norma è motivata dall’esigenza di evitare ingiustificati arricchimenti della società in danno dei soci che ne hanno vittoriosamente esercitato l’azione contro gli amministratori. La disposizione contempla due obbligazioni, l’una parziaria, l’altra solidale. La prima obbligazione della società, nei confronti dei soci attori, infatti, ha a oggetto unicamente le somme che il giudice non abbia posto a carico degli amministratori. La seconda obbligazione, invece, grava sia sulla società sostituita, sia sugli amministratori stessi, ed è caratterizzata da un beneficio di escussione in favore della società medesima.
Pertanto, tenendo a mente questa seconda obbligazione, la condanna in solido alla rifusione delle spese è corretta[35].
Desta invece delle perplessità il fatto che la condanna, pronunciata a carico degli amministratori, sia stata emessa in favore del socio attore «in qualità di rappresentante comune dei soci».
Come già chiarito, il rappresentante comune sta in giudizio esclusivamente con l’attività, di modo che non gli sono applicabili le norme che presuppongono lo stare in giudizio col nome. Tra di esse, si annoverano proprio quelle che regolano le spese processuali. Le spese, infatti, devono essere rifuse al rappresentato o da costui, salvo il caso, previsto dall’art. 94 c.p.c., in cui esse sono poste a carico del rappresentante[36].
Pertanto, le spese vanno rifuse al socio attore, non in quanto rappresentante comune, ma in qualità di rappresentato o, per essere più precisi, in quanto parte che sta in giudizio col nome. I motivi di questa precisazione sono evidenti. Non è credibile che il socio, nominato quale rappresentante comune, rappresenti, oltre agli altri soci, anche se stesso. Si deve dire, piuttosto, che egli sta in giudizio con l’attività e col nome, esercitando, quanto a se stesso, una legittimazione processuale primaria e, con riguardo agli altri soci, una legittimazione processuale rappresentativa. Sia chiaro, comunque, che nulla osta a che il rappresentante comune sia un soggetto diverso dai soci, nel qual caso egli starà in giudizio con la sola attività.
È allora più corretta la pronuncia sulle spese emessa nei confronti della società sostituita, la quale è stata condannata alla «rifusione delle spese legali in favore degli attori come rappresentati in giudizio».
6. Conclusioni.
Le soluzioni processualistiche che abbiamo sviluppato, oltre a fondarsi sulle considerazioni teoriche sin qui esposte, consentono, dal punto di vista applicativo, un equo bilanciamento degli interessi in gioco, che non è stato compromesso dall’erronea applicazione dell’art. 182 c.p.c.
Da un lato, infatti, si evita che la discesa al di sotto delle soglie quantitative, fissate dai primi due commi dell’art. 2393 bis, comporti automaticamente la chiusura del processo in rito. Si consente, infatti, la continuazione del procedimento mediante l’intervento di un altro socio la cui partecipazione, cumulata con quella dell’attore, superi quelle soglie. Quando, al contrario, al giudice consti la discesa sotto le predette soglie e non sia effettuato alcun intervento da parte di altri soci, la sopravvenuta carenza di legitimatio ad causam impedirà la decisione sul merito.
Dall’altro lato, gli altri soci di minoranza possono effettuare un «intervento sostitutivo concorrente»[37], senza che la conseguente e sopravvenuta necessità di nominare un rappresentante comune dia luogo all’immediata estinzione del giudizio, essendovi, al contrario, la possibilità della sua prosecuzione.
È, invece, da escludere la possibilità di una riassunzione, ove i soci di minoranza, attori e interventori, non abbiano nominato un rappresentante comune[38].
Difatti, i convenuti non possono ottenere la nomina di un curatore speciale che supplisca alla mancanza del rappresentante comune, al fine di notificare la citazione in riassunzione al curatore medesimo. L’applicabilità degli artt. 78 ss. c.p.c., infatti, è impedita dalla natura volontaria della “rappresentanza necessaria” prevista dall’art. 2393 bis, comma 4 c.c.
La particolare natura di questa rappresentanza – volontaria e necessaria, ossia onerosa – è l’ennesima stranezza di un meccanismo che, come la sentenza in commento ha permesso di comprendere, presenta rimarchevoli anomalie processualistiche e, nel risiko societario, grandi potenzialità strategiche, essendo volto, dal punto di vista del Legislatore, alla migliore allocazione, tra maggioranza e minoranza, dei rischi di abuso, i quali, in ogni gruppo umano, non possono essere totalmente eliminati, ma, al più, sapientemente distribuiti.
[1] Franzoni, Società per azioni, III, Dell’amministrazione e del controllo, 1, Disposizioni generali. Degli amministratori, in Commentario Scialoja Branca, Bologna-Roma, 2008, pp. 544-545, ricorda il dibattito che si è sviluppato tra chi ritiene che tale requisito quantitativo, in analogia con l’art. 2378 c.c., debba essere soddisfatto durante tutto il processo e chi, al contrario, considera sufficiente che esso sussista al momento della proposizione della domanda giudiziale.
La necessità che le soglie quantitative siano rispettate nel corso di tutto il procedimento consente alla maggioranza societaria di “sabotare” l’azione sociale di responsabilità del socio di minoranza mediante una delibera di aumento del capitale. Di fronte a tale deliberazione, infatti, il socio, attore ex art. 2393 bis, si troverà costretto a partecipare all’aumento di capitale o a scendere al di sotto delle suddette soglie, perdendo il diritto a un provvedimento sul merito.
La questione è grave, giacché involge i rapporti tra maggioranza e minoranza e la necessità di evitare gli abusi di entrambi.
Si è proposto di ovviarvi, ritenendo che la soglia anzidetta debba sussistere unicamente al momento dell’introduzione del processo e non durante tutto il suo corso.
Questa soluzione, per quanto ragionevole de iure condendo, è, alla luce dell’art. 2393 bis c.c., scorretta de iure condito.
Anzi, occorre considerare che l’aumento di capitale potrebbe essere eseguito anche in via preventiva, precludendo ab origine alla minoranza di sostituirsi processualmente alla società e di aggredire gli amministratori. Prevedere normativamente che la discesa sotto la soglia quantitativa, in costanza di causa, non impedisca la pronuncia di merito, comporterebbe un’irragionevole disparità di trattamento tra chi ha perso il requisito quantitativo prima del processo, chi lo ha perduto durante il suo svolgimento e chi mai lo ha raggiunto.
Lo stesso Franzoni, pp. 547-549, riferisce i dubbi della dottrina intorno all’esperibilità di quest’azione sociale da parte di alcune particolari categorie di azionisti, quali quelli di risparmio, quelli titolari di un diritto di voto limitato, quelli che possiedono azioni di godimento.
[2] Franzoni, Società per azioni, III, cit., p. 544.
[3] In generale, sulla sostituzione processuale: Garbagnati, La sostituzione processuale, Milano, 1942, pp. 163 ss.; Di Blasi, voce Sostituzione processuale, in Nov. Dig. It., XVII, Torino, 1970, pp. 993 ss.; Mandrioli, Delle parti, in Commentario del codice di procedura civile diretto da Allorio, I, 2, Torino, 1973, pp. 925 ss.; Id., Diritto processuale civile, I,Nozioni introduttive e disposizioni generali, Torino, 2007, pp. 57 ss.; Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, II, Profili generali, Torino, 2010, pp. 182 ss.
Allorio, Diatriba breve sulla legittimazione ad agire, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1955, p. 219, ora in Problemi di diritto, I, L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale e altri studi, Milano, 1957, pp. 209 ss., distingue tra una «regola» della legittimazione ad agire – secondo cui essa sussiste quando l’attore si afferma titolare del diritto dedotto e il convenuto è affermato titolare del lato passivo del rapporto – e dei «canoni eccezionali», in cui la suddetta coincidenza non è necessaria (sostituzione processuale, interveniente adesivo dipendente e interveniente coatto che non sia evocato per contraddire su un rapporto che gli faccia capo) o non è sufficiente (litisconsorzio necessario).
Sul tema, più generale, della legittimazione ad agire, intesa quale titolarità dell’azione (i.e. del diritto al provvedimento sul merito della domanda), discendente, secondo la concezione parzialmente astratta dell’azione, dall’affermata titolarità del diritto (legittimazione ordinaria) o dalla sussistenza di una diversa situazione legittimante, espressamente preveduta dalla legge (art. 81 c.p.c.), si rinvia a: Betti, Legittimazione ad agire e rapporto sostanziale, in Giur. it., 1949, I, 1, pp. 763 ss.; Allorio, nota a Cass. 4 gennaio 1952, in Giur. it., 1952, I, 1, c. 101; Carnelutti, Titolarità del diritto e legittimazione, in Riv. Dir. Proc., 1952, II, 10, pp. 121-122; Allorio, Per la chiarezza delle idee in tema di legittimazione ad agire, in Giur. it., 1953, I, pp. 961 ss., ora in Problemi di diritto, I, L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale e altri studi, Milano, 1957, pp. 195 ss.; Carnelutti, Ancora su titolarità del diritto e legittimazione, in Riv. Dir. Proc., 1954, II, pp. 97 ss.; Satta, Interesse e legittimazione, in Foro it., 1954, IV, cc. 160 ss.; Satta, Diritto processuale civile, IV, Padova, 1954, pp. 103 ss.; Allorio, Diatriba breve sulla legittimazione ad agire, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1955, pp. 122 ss., ora in Problemi di diritto, I, cit., pp. 209 ss.; Garbagnati, La sostituzione, cit., pp. 131 ss.; Micheli, Considerazioni sulla legittimazione ad agire, in Riv. Dir. Proc., 1960, XV, pp. 566 ss.; Monacciani, Azione e legittimazione, Milano, 1961; Attardi, voce Legittimazione ad agire, in Dig. Disc. Priv., sez. civ., X, Torino, 1993, pp. 524 ss.; Mandrioli, Diritto processuale civile, I, cit., pp. 49 ss.; Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, II, cit., p. 175.
[4] Per la ricostruzione dell’art. 2393 bis c.c. in termini di sostituzione processuale: Mainetti, Il controllo dei soci e la responsabilità degli amministratori nella società a responsabilità limitata, in Le Società, 2003, n. 7, p.942; Pedrelli, Osservazioni sulla legittimazione ad agire in giudizio del singolo socio e della società nell’azione di responsabilità ex art. 2476 c.c., in nota a Tribunale di Marsala, 15 marzo 2005 e a Tribunale di Roma, 4 aprile 2005, in Giurisprudenza di Merito, fasc.7-8, 2005, pp. 1566 ss.
Nella giurisprudenza: Tribunale di Piacenza, 23 agosto 2004, in Il Corriere di merito, 2005, n.1, pp. 25 ss., con nota di Giordano; Tribunale di Catania, 14 ottobre 2004, in www.judicium.it, con nota di Santangeli; Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, 4 gennaio 2005, in www.judicium.it.
[5] Mandrioli, Diritto processuale civile, I,cit., p. 57; Consolo, Spiegazioni, II, cit., p. 182 ss.
Cass., sez. I, 22 marzo 2001, n. 4075, in Giust. civ. Mass. 2001, 542, proprio alla luce di queste ragioni, ha escluso che il socio possa surrogarsi alla società nell’azione di rendiconto verso il mandatario della società stessa.
In senso contrario, Franzoni, Società per azioni, III, cit., p. 545, facendo riferimento a Dalmotto, Commento sub art. 2393, in Il nuovo diritto societario, diretto da Cottino, Bonfante, Cagnasso, Montalenti, Torino-Bologna, 2008, pp. 812 ss., ha invece affermato che il quarto comma «elimina ogni dubbio sul carattere surrogatorio dell’azione, pur rimanendo controverso se questa azione sia riconducibile integralmente all’art. 2900 cod. civ.». Poiché, tuttavia, il carattere surrogatorio dipende dall’applicabilità dello stesso art. 2900 (applicabilità esclusa dal fatto che il socio non è un creditore della società), allora la fattispecie dell’art. 2393 bis realizza una sostituzione processuale non surrogatoria. Lo stesso Franzoni, Società per azioni, III, cit., p. 545, d’altronde, citando Mucciarelli, L’azione sociale di responsabilità contro gli amministratori di società quotate, in Giur. Comm., 2000, I, pp. 52 ss., ha escluso che all’art. 2393 bis sia applicabile il principio, valido per la surrogatoria, secondo il quale la sostituzione è limitata quantitativamente all’ammontare del credito del surrogante.
[6] Franzoni, Società per azioni, III, cit., p. 547.
[7] Circa l’azione prevista dall’abrogato art. 129 T.U.F., v. Mucciarelli, L’azione sociale di responsabilità contro gli amministratori di società quotate, cit., pp. 83 ss., la cui ricostruzione è adottata da Franzoni, Società per azioni, III, cit., p. 547, in merito all’art. 2393 bis c.c.
Non condividiamo quest’impostazione. L’intervento adesivo autonomo, conosciuto anche come «litisconsortile», si ha quando il terzo interviene per far valere, nei confronti di alcune parti soltanto, «un diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo dedotto […]». Occorrerebbe che si dimostrasse, allora, che il socio di minoranza interviene nell’azione sociale di responsabilità – la quale ha la propria causa petendi nella lesione del patrimonio sociale e il proprio petitum nella condanna risarcitoria degli amministratori – deducendo un diritto che afferisce a quell’oggetto o dipende da quel titolo.
In realtà, il socio non deduce nulla di tutto ciò, ma – stante l’interesse alla causa, che gli deriva dalla titolarità dei diritti patrimoniali – interviene «per sostenere le ragioni» (art. 105, comma 2 c.p.c.) della società. Il suo intervento, dunque, è adesivo dipendente.
Se poi davvero il socio deducesse, mediante l’intervento, un diritto proprio, allora egli agirebbe ex art. 2395 c.c., ossia richiedendo il risarcimento del danno sofferto personalmente, quale conseguenza diretta della mala gestio. Pertanto, petitum e causa petendi sarebbero diversi da quelli che la società ha dedotto ex art. 2393, di modo che l’intervento non concernerebbe «un diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo dedotto […]» e sarebbe inammissibile, salvo il ricorrere di una connessione impropria ex art. 103 c.p.c.
[8] Per la distinzione tra azione diretta e sostituzione processuale, v., tra gli altri, Consolo, Spiegazioni, II, cit., pp. 187-189.
[9] Sull’impossibilità, per il socio, di domandare, in via cautelare, la revoca dell’amministratore di società per azioni (ciò che è previsto dall’art. 2476 c.c. in tema di società a responsabilità limitata), si veda Tribunale di Marsala, 15 marzo 2005, inGiur. merito 2005, 7/8, pp. 1563 ss., con nota di Pedrelli.
[10] Secondo la dottrina prevalente, infatti, la previsione dell’art. 2900 c.c., secondo cui il sostituito è litisconsorte necessario, costituisce un’applicazione del principio generale espresso dall’art. 102 c.p.c.: Calamandrei, Istituzioni di diritto processuale civile secondo il nuovo codice, II, Padova, 1941, pp. 196-197; Andrioli, Diritto processuale civile, I, Napoli, 1979, p. 591; Proto Pisani, Opposizione di terzo ordinaria, Napoli, 1965, p. 102; Menchini,Il giudicato civile, in Giurisprudenza sistematica di diritto processuale civile diretta da Proto Pisani, Torino, 2002, p. 190; Consolo, Spiegazioni, II, cit., pp. 197-198.
L’art. 2476 c.c., in tema di azione sociale di responsabilità esercitata dal socio di S.R.L., non prevede la necessità di chiamare in causa la società. Tuttavia, la giurisprudenza ha sostenuto che, nei suoi riguardi, sussista un litisconsorzio necessario: Tribunale di Piacenza, 23 agosto 2004, cit.; Tribunale di Catania, 14 ottobre 2004, cit.; Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, 4 gennaio 2005, cit.
Ciò, d’altronde, consentirebbe di evitare gli abusi della minoranza: Martines, Abuso del diritto, la chicane del socio di minoranza, in Contr. e impresa, 1998, 27; Pedrelli, Osservazioni sulla legittimazione ad agire in giudizio del singolo socio, cit. Il rischio di tali abusi è stato evidenziato anche da Bonelli, L’art. 129 Legge Draghi: l’azione sociale di responsabilità esercitata dalla minoranza dei soci, e l’assicurazione contro i rischi incorsi nella gestione, in Aa. Vv., La riforma delle società quotate. Atti del convegno di studio di S. Margherita Ligure, 13-14 giugno 1998, Milano, 1998, p. 152.
Non è allora condivisibile la pronuncia delTribunale di Marsala, 15 marzo 2005, cit., secondo cui«la norma di cui all’art. 2476, III comma, c.c., […] nell’attribuire al singolo socio un potere autonomo di proposizione della domanda di responsabilità sociale non fa altro che configurare una ipotesi tipica di sostituzione processuale, rispetto alla quale non ha senso parlare di litisconsorzio necessario, posto che società e socio sono la stessa parte giuridica, sia pure nelle rispettive e differenti vesti di sostituito e di sostituto. Tale evidenza, del resto, trova logica conferma a contrario nella stessa disposizione di cui all’art. 2393 bis, III comma, c.c., laddove, proprio perché si tratta di deroga ai menzionati principi generali e per ritenute ragioni di opportunità, è espressamente previsto, in caso di società per azioni, che l’azione di responsabilità promossa dai soci che rappresentino almeno un quinto del capitale sociale sia comunque notificata alla società, che deve essere chiamata in giudizio».
[11] Come quelle previste dagli artt. 1595 e 1676 c.c.
[12] Per l’esclusione della rappresentanza e la sussistenza della sostituzione processuale nei casi in cui è prevista la chiamata in causa del titolare del diritto, v. Consolo, Spiegazioni, II, cit., p. 183.
[13] Ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 2393, reso applicabile dall’art. 2393 bis, ult. comma, «la società può rinunziare all’esercizio dell’azione di responsabilità e può transigere, purché la rinunzia e la transazione siano approvate con espressa deliberazione dell’assemblea, e purché non vi sia il voto contrario di una minoranza di soci che rappresenti almeno il quinto del capitale sociale o, nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, almeno un ventesimo del capitale sociale, ovvero la misura prevista nello statuto per l’esercizio dell’azione sociale di responsabilità ai sensi dei commi primo e secondo dell’articolo 2393 bis».
La differenza di queste soglie rispetto a quelle richieste per l’introduzione dell’azione sociale di responsabilità ex art. 2393 bis può essere dovuta, secondo Franzoni, Società per azioni, III, cit., p. 551, a un difetto di coordinamento in sede di riforma, oppure spiegarsi in ragione del maggiore interesse della società alla prosecuzione della lite rispetto alla sua anticipata chiusura.
[14] Conviene sottolineare che la rinuncia, oggetto delle disposizioni in esame, è quella all’azione, non quella agli atti. L’efficacia della rinuncia agli atti, prevista dall’art. 306 c.p.c., pertanto, non richiede la deliberazione assembleare, giacché essa consente alla società di agire successivamente contro gli amministratori, ex art. 2393 c.c., facendo valere un diritto risarcitorio identico, per causa petendi, personae e petitum, a quello dedotto dai soci ex art. 2393 bis. Nel caso di rinuncia agli atti, peraltro, sono gli stessi soci di minoranza a potersi nuovamente sostituire alla società nell’esercizio dell’azione di responsabilità.
[15] In merito all’art. 2395 c.c.: Galgano e Genghini, Il nuovo diritto societario, I, Le nuove società di capitali e cooperative, Milano, 2006, pp. 490 ss.; Bonelli, Gli amministratori di S.p.A., Torino, 2013, p. 214; Franzoni, Società per azioni, III, cit., pp. 575 ss.; Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2011, p. 1451; Musardo, Sulla destinazione alla società del risarcimento del danno riflesso, in Giur. Comm., fasc.1, 2015, pp. 101 ss., in nota a Cass., sez. I, 11 dicembre 2013, n. 27733; Giampaolino, Imputazione dell’atto dell’amministratore e responsabilità della società (artt. 2395, 1227 e 2055 c.c.), in Giur. Comm., fasc.6, 2015, pp. 1375 ss., in nota a Tribunale di Roma, 27 ottobre 2014.
Nella giurisprudenza, quanto alla necessità che il danno sia stato subito dal socio o dal terzo quale conseguenza diretta dell’atto dell’amministratore: Cass., sez. I, 23 giugno 2010, n. 15220, in Diritto e Giustizia online 2010; Cass., sez. III, 22 marzo 2012, n. 4548, inGiust. civ. Mass. 2012, 3, 378 e in Riv. dottori comm. 2012, 2, 447.
Alla necessità di un danno diretto, subito dal patrimonio del socio o del terzo, consegue l’esclusione, dall’ambito di operatività dell’art. 2395 c.c., di quelle condotte degli amministratori che abbiano impedito il conseguimento di utili, danneggiato il patrimonio della società e reso impossibile la liquidazione delle quote sociali, trattandosi di atti che colpiscono direttamente la società e hanno un effetto soltanto riflesso sui soci: Cass., sez. III, 22 marzo 2011, n. 6558, in Foro it. 2012, 4, I, 1165.
Alla responsabilità degli amministratori, nei confronti dei soci e dei terzi, si accompagna, anche nel caso in cui l’atto gestorio sia stato compiuto con dolo, quella della società, essendo sufficiente, ai fini di tale concorso, che l’atto si manifesti come esplicazione dell’attività della società stessa: Cass., sez. I, 5 dicembre 2011, n. 25946, in Guida al diritto 2012, 12, 58, con nota di Pirruccio.
Sulla natura extracontrattuale della responsabilità prevista dall’art. 2395 c.c.: Cass., sez. I, 25 luglio 2007, n. 16416, in Giust. civ. Mass. 2007, 7-8 e in Foro it. 2007, 12, I, 3393; Cass., sez. I, 5 agosto 2008, n. 21130, in Giust. civ. Mass. 2008, 7-8, 1244, in Foro it. 2009, 2, I, 447, nonché in Giur. comm. 2010, 2, II, 240, con nota di Dal Soglio.
Anche la dottrina sostiene la natura aquiliana della responsabilità ex art. 2395 c.c. V., per tutti, Franzoni, Società per azioni, III, cit., pp. 575 ss.
[16] In questo senso, si veda anche Franzoni, Società per azioni, III, cit., p. 546.
[17] Bonelli, Gli amministratori di S.p.A., cit., p. 194; Franzoni, Società per azioni, III, cit., pp. 539-540; Dittrich, Il curatore speciale processuale, in Riv. Dir. Proc., 2013, 4-5, pp. 825 ss.
[18] Secondo Cass., sez. un., 15 gennaio 2010, n. 520, in Guida al diritto 2010, 6, 63, «nell’attuale disciplina della società azionaria – ed in misura ancor maggiore in quella della società a responsabilità limitata – l’esercizio dell’azione sociale di responsabilità, in caso di mala gestioimputabile agli organi della società, non è più monopolio dell’assemblea e non è più, quindi, unicamente rimessa alla discrezionalità della maggioranza dei soci. Una minoranza qualificata dei partecipanti alla società azionaria (art. 2393 bis c.c.) ed addirittura ciascun singolo socio della società a responsabilità limitata (art. 2476 c.c., comma 3) sono infatti legittimati ad esercitare tale azione (anche nel proprio interesse, ma a beneficio della società) eventualmente sopperendo all’inerzia della maggioranza».
Nello stesso senso, Tribunale di Milano, 9 ottobre 2008, inForo it. 2010, 1, I, 335.
Sulla necessità di tutelare le minoranze assembleari e sui rischi che ciò può comportare: Montalenti, Corporate governance: la tutela delle minoranze nella riforma delle società quotate, in Giur. Comm., 1998, I, pp. 329 ss.; Angelici, La tutela delle minoranze, in Società, 1999, pp. 786 ss.; Oppo, L’azione «sociale» di responsabilità promossa dalla minoranza nelle società quotate, in Riv. Dir. Civ., 1998, II, pp. 405 ss.
Il rischio di un’eccessiva tutela delle minoranze, che potrebbero agire giudizialmente al solo scopo di disturbare o ricattare la maggioranza e gli amministratori che ne sono espressione, è stato espresso da Marchetti, Osservazioni sui profili societari della bozza di T.U. dei mercati finanziari, in Riv. Società, 1998, p.148, allarmato dai pericoli insiti in previsioni legislative che consentono la sostituzione processuale da parte di minoranze esigue.
Salafia, Gli organi direttivi nelle società quotate in mercati regolamentati, in Società, 1998, pp. 257 ss., afferma che la disciplina dell’art. 2393 bis, comma 5, secondo la quale, in caso di soccombenza, le spese stanno a carico dei soci attori e non della società, ha la funzione di dissuadere azioni temerarie.
Negli Stati Uniti, al contrario, la soccombenza dei soci nella cd. derivative action non ne comporta automaticamente l’obbligo di rifusione delle spese processuali sostenute dagli amministratori. Quell’obbligo sussiste in capo alla società, purché si dimostri che i soci hanno introdotto il processo in buona fede. Sul punto, v. la nota 19.
[19] Per la tutela delle minoranze societarie negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Germania, Francia, Portogallo, Belgio e Grecia, si veda Franzoni, Società per azioni, III, cit., pp. 542-543.
[20] Franzoni, Società per azioni, III, cit., p. 540, riferisce di come l’azione sociale di responsabilità sia stata scarsamente utilizzata, se non in ambito fallimentare, giacché è raro che una maggioranza aggredisca giudizialmente gli stessi amministratori che essa ha designato. L’art. 2393 bis c.c. ritrova il proprio antesignano nell’abrogato art. 129 T.U.F., che limitava la sostituzione processuale alle società quotate e richiedeva che gli attori fossero iscritti nel libro dei soci da almeno sei mesi.
[21] Secondo il Tribunale di Roma, 4 aprile 2005, cit., il conflitto d’interessi sussiste qualora la società si costituisca in giudizio a mezzo dell’amministratore convenuto e chieda il rigetto della domanda attorea.
Nel caso che stiamo esaminando, al contrario, la società sostituita non ha aderito né alle domande dell’attore, né a quelle dei convenuti, rimettendosi a una decisione di giustizia e, stando a quanto lasciano trasparire gli omissis del provvedimento in commento, si è costituita a mezzo di un rappresentante diverso dai convenuti. La nomina del curatore speciale, non a caso, non risulta essere stata richiesta.
Sulla nomina del curatore speciale in ambito societario, v., per tutti, Dittrich, Il curatore speciale processuale, cit., pp. 825 ss., il quale attribuisce natura cautelare al procedimento di nomina, con conseguente applicabilità, in quanto compatibili, degli artt. 669 bis ss. c.p.c. Egli, inoltre, critica il tralatizio orientamento giurisprudenziale secondo cui è sufficiente, ai fini della suddetta nomina, che il conflitto sia meramente potenziale.
Per la possibilità che sia necessario nominare un curatore speciale nel corso del processo introdotto ex art. 2393 bis c.c., v. Franzoni, Società per azioni, III, cit., p. 546.
[22] Per le ragioni che spiegano la generale inammissibilità della rappresentanza meramente processuale, v. Mandrioli, Diritto processuale civile, I, cit., pp. 321 ss.
[23] Sull’imprecisione con cui la prassi si riferisce alla legittimazione attiva, imprecisione ricorrente anche in questo caso e frutto di anacronismi espressivi: Allorio, Diatriba breve, cit., p. 211, il quale, a p. 215, discorreva di un indirizzo «che è da temere non sia per essere tanto presto modificato»; Mandrioli, Diritto processuale civile, I,cit., p. 56, nota 10; Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, II, cit., pp. 180-181.
[24] L’individuazione delle tre accezioni con cui il codice di rito utilizza il termine ‘parte’ (parte che sta in giudizio con l’attività; parte che sta in giudizio col nome; parte sostanziale) si deve a Garbagnati, La sostituzione processuale, cit., pp. 243 ss. La classificazione è stata poi condivisa dalla dottrina. Si vedano: De Marini, La successione nel diritto controverso, Roma, 1953, pp. 151 ss.; Carnelutti, Diritto e processo, Napoli, 1958, pp. 92 ss.; Mandrioli, La rappresentanza nel processo civile, Torino, 1959, pp. 130 ss.
[25] La parte che sta in giudizio con l’attività, ovverosia quella che compie e riceve gli atti del processo, è oggetto, tra gli altri, degli artt. 120, 157, 278, 282 e 309 c.p.c.
Alla parte che sta in giudizio col nome, e alla quale sono dunque imputati gli effetti degli atti processuali, si riferiscono gli artt. 91, 226 e 299 del codice di rito.
Alla parte sostanziale, intesa come il titolare della situazione giuridica su cui si produrranno gli effetti del giudicato sostanziale, si riferiscono invece gli artt. 2908 e 2909 c.c.
[26] Si discute se la sanatoria dell’art. 182 c.p.c. possa intervenire anche quando la procura manchi del tutto, o soltanto qualora essa sia affetta da nullità.
Nel primo senso si esprime Turroni, Il nuovo art. 182, cpv., c.p.c. Sempre rimediabili i difetti di capacità processuale e di procura al difensore, in Giur. it., 2009, pp. 1575 ss.
Per la limitazione della sanatoria alla nullità della procura effettivamente rilasciata: Briguglio, Le novità sul processo ordinario di cognizione nell’ultima, ennesima riforma in materia di giustizia civile, in www.judicium.it; Brunelli, Commento sub art. 182 in Commentario breve al codice di procedura civile, a cura di Carpi e Taruffo, Padova, 2009, pp. 659 ss.; Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, II, cit., pp. 15-16, il quale evidenzia anche che, nonostante l’ampia formulazione dell’art. 182, la chiusura in rito del processo interviene soltanto in conseguenza della mancata sanatoria dei vizi di rappresentanza imputabili all’attore, il quale non si è premurato di regolarizzare la procura rilasciata al proprio rappresentante o ha convenuto un ente in persona di un soggetto privo di poteri rappresentativi.
Aderisco a questa seconda corrente (inapplicabilità dell’art. 182 c.p.c. in caso d’inesistenza della procura), ritenendo insuperabile l’argomento che fa leva sull’art. 125, comma 2 c.p.c., a norma del quale il rilascio della procura deve avvenire, al più tardi, entro la costituzione in giudizio.
Si ritiene, in prevalenza e condivisibilmente, che la sanatoria operi ex nunc, con la conseguenza che le decadenze, nel frattempo maturate, restano ferme. Da ultimo, a tale proposito: Cass., sez. III, 18 febbraio 2016, n. 3181, in Giust. Civ. Mass. 2016; Cass., sez. lav., 20 giugno 2016, n. 12686, in Giust. Civ. Mass. 2016.
[27] L’identificazione di tali decadenze è offerta, seppure ad altro riguardo, da Cass., sez. I, 29 maggio 2009, n. 12672, in Riv. giur. edilizia 2009, 5-6, I, 1817, secondo la quale «la connotazione concettuale di condizione dell’azione, e non di presupposto processuale […] ne consente, peraltro, la verifica fino al momento della decisione. Ma tale principio di diritto enunciato in diversi precedenti (e plurimis, Cass., sez. I, 22 Novembre 2002, n. 16494) dev’essere integrato con le regole processuali sulla tempestiva assunzione di mezzi di prova, incluse le prove documentali. […] La prova dell’esistenza (sopravvenuta) della condizione dell’azione resta quindi consentita nel rispetto dei termini perentori, a pena di decadenza, propri del processo civile riformato: e cioè, nel caso di giudizio di primo grado […], fino all’udienza di prima comparizione delle parti e trattazione della causa (attualmente prevista dall’art. 183 c.p.c.): salva la concessione di un termine ad hoc, o la rimessione in termini exart. 184 bisc.p.c., eventualmente autorizzata dallo stesso collegio dinanzi al quale si alleghi la sopravvenuta integrazione, nelle more, della condizione dell’azione […]».
[28] La legittimazione processuale rappresentativa è una legittimazione secondaria che presuppone (ma non s’identifica con) quella primaria, spettante al rappresentato e derivante dalla capacità processuale, ex art. 75 c.p.c. A questo proposito: Mandrioli, Premesse generali allo studio della rappresentanza nel processo civile, Milano, 1957, pp. 159 ss.; Id., La rappresentanza, cit., pp. 157-158.
[29] L’anomalia della vicenda sta nel fatto che, con quell’intervento, il terzo non deduce un diritto proprio, ma, al pari dell’originario attore, sostituisce processualmente la società, affermando – quale mera condizione che legittima la suddetta sostituzione (e non come petitum o causa petendi) – la titolarità delle partecipazioni sociali.
L’intervento, allora, non è sussumibile nei tre tipi disciplinati dall’art. 105 c.p.c.
Il terzo – agendo nei confronti dei soli amministratori e sostituendosi alla società nell’azione di responsabilità, identica per causa petendi e petitum a quella esperita dall’attore – pone in essere un quarto tipo di intervento, che potremmo designare con l’espressione «sostitutivo concorrente».
Ciò che preme chiarire, in ogni caso, è che l’intervento in discorso non è quello previsto, dall’art. 111 c.p.c., per la successione a titolo particolare nel diritto controverso. La titolarità delle quote (poi parzialmente cedute), infatti, non costituisce l’oggetto processuale, ma una condizione dell’azione sociale di responsabilità, rilevando come questione di rito.
Secondo Consolo, Spiegazioni, II, cit., pp. 200 e 201, nel caso della surrogatoria, il rapporto obbligatorio sussistente tra il surrogante e il surrogato può essere accertato con autorità di cosa giudicata sostanziale soltanto qualora sia proposta l’istanza prevista dall’art. 34 c.p.c. La particolarità di questa ipotesi sta in ciò che la pregiudizialità non è sostanziale, ma meramente processuale, giacché il diritto del sostituto non fa parte della fattispecie costitutiva di quello del sostituito. Inoltre, ove l’azione sia rigettata per difetto di quel rapporto obbligatorio, si avrà un rigetto in rito fondato eccezionalmente su fatti sostanziali e non processuali.
La necessità dell’intervento da parte del cessionario, cui si deve accompagnare la designazione di un rappresentante comune, non è automatica, ma presuppone che, in conseguenza della cessione, le partecipazioni del cedente siano scese, come accaduto nel caso in esame, sotto la soglia minima indicata dall’art. 2393 bis, commi 1 e 2.
[30] V. nota 26.
[31] Dalla sentenza non è invece possibile evincere se, durante l’interruzione, siano stati compiuti atti processuali e se, pertanto, siano stati violati gli artt. 298 e 304 c.p.c.
[32] Secondo Fazzalari, Note in tema di diritto e processo, Milano, 1957, p. 133 per ‘situazione legittimante’ si intende la «situazione in cui il soggetto deve trovarsi per essere titolare di un potere o destinatario di effetti. Il concetto di legittimazione è stato anzi elaborato specialmente dal punto di vista della situazione legittimante, nell’intento di operare una distinzione fra la mera capacità e le altre e varie situazioni in cui il soggetto può comparire in questo o quel paradigma normativo».
Sulla distinzione tra legittimazione e situazione legittimante, si veda, in particolare: Carnelutti, Teoria generale, cit., p. 320.
Allorio, Per la chiarezza delle idee in tema di legittimazione attiva, cit., pp. 198-199, sottolinea quanto la distinzione tra la situazione legittimante e quella legittimata sia fondamentale per evitare le pericolose confusioni in cui incorre la giurisprudenza: «ci si può […] rassegnare a che la parola legittimazione abbia due significati: indichi cioè, in primo luogo, la posizione in cui, secondo le regole del diritto processuale, taluno può chiedere, in nome proprio […] di pronunciare in merito su una certa controversia, ma designi in secondo luogo, e promiscuamente, la posizione di titolarità attiva o soggettiva passiva, secondo le regole del diritto sostanziale, del rapporto di cui si contende, naturalmente nell’ipotesi che questo rapporto esista. Quale guadagno si ricavi, però, a impiegare la stessa parola per due idee che sono intimamente diverse, e che corrispondono a due situazioni, alle quali non si potrà mai applicare lo stesso trattamento giuridico, è domanda alla quale sarebbe ben difficile rispondere […]».
[33] Condivido, quindi, l’opinione di chi ritiene che le soglie suddette debbano essere osservate, non solo al momento della proposizione della domanda, ma durante tutto il processo, pena la sua estinzione. A questo riguardo, v. nota 1.
[34] Questa formula è più ampia di quella dell’abrogato art. 129 T.U.F., giacché concerne anche le spese affrontate nell’accertamento dei fatti, ossia quelle sostenute prima dell’introduzione del processo e dunque escluse dall’ambito di applicazione degli artt. 91 ss. c.p.c. Questo raffronto tra le due disposizioni è tratto da Dalmotto, Commento sub art. 2393, cit., pp. 818 ss. e da Franzoni, Società per azioni, III, cit., p. 550.
Sulla condanna alle spese, v., tra gli altri: Mandrioli, Diritto processuale civile, I, cit., pp. 355 ss.; Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, II, cit., pp. 249 ss.
[35] Ove, invece, gli amministratori siano condannati alla rifusione parziale, la condanna solidale alla corresponsione dell’integralità delle spese è errata. Occorre, in tale ipotesi, condannare in solido la società alla rifusione della parte di spese cui sono stati condannati gli amministratori. Le spese residue, invece, graveranno, in quanto obbligazione parziaria, sulla sola società.
[36] A mente di questa disposizione, «gli eredi beneficiati, i tutori, i curatori e in genere coloro che rappresentano o assistono la parte in giudizio possono essere condannati personalmente, per motivi gravi che il giudice deve specificare nella sentenza, alle spese dell’intero processo o di singoli atti, anche in solido con la parte rappresentata o assistita».
Secondo Mandrioli, La rappresentanza, cit., p. 135, la condanna del rappresentante, ex art. 94 c.p.c., non significa che costui stia in giudizio col nome, ma discende dal carattere colposo o doloso del comportamento, fonte, secondo i principi generali, di obbligazioni risarcitorie.
[37] V. nota 29.
[38] Manca, infatti, il legittimato processuale al quale notificare la citazione in riassunzione (art. 303 c.p.c.), salvo che si intenda concedere ai convenuti la possibilità di istare per la nomina di un curatore speciale ex art. 78 c.p.c., rispetto al quale effettuare poi la riassunzione. L’art. 78 c.p.c., tuttavia, subordina tale nomina alla mancanza della persona cui spetta la rappresentanza (o l’assistenza) dell’incapace, della persona giuridica, dell’associazione non riconosciuta, nonché alla sussistenza di un conflitto d’interessi tra il rappresentato e il rappresentante. Tali presupposti sono assenti nel caso che stiamo esaminando.
Cionondimeno, stante il parallelo tra la perdita della legitimatio ad processum dell’interdetto e quella dei soci di minoranza, si potrebbe immaginare un’analogia legis, che, tuttavia, mi pare da escludere, sol che si consideri come la rappresentanza, prevista dall’art. 2393 bis, benché costituisca l’oggetto di un onere, ha natura volontaria. Ciò significa che, quando i soci non nominano un rappresentante comune, non vi è alcuna possibilità, per la società sostituita e per gli amministratori, di riassumere il processo e di ottenere un giudicato sostanziale sulla pretesa.
La soluzione può essere considerata insoddisfacente in vista di una rapida definizione delle liti (piuttosto che dei soli processi), ma è inevitabile alla luce del diritto vigente.
È invece certo che i soci attori possano domandare la nomina del curatore speciale quando il rappresentante comune, da essi effettivamente nominato, versi in conflitto d’interessi con costoro.
Il conflitto d’interessi tra soci e rappresentante comune può derivare anche dal conflitto sussistente tra gli interessi del rappresentante stesso e quelli della società.