Un professionista avvocato veniva raggiunto da un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo ottenuto dalla banca procedente sulla base di alcune sottoscrizioni attribuite allo stesso nel contesto di un’operazione da cui scaturiva il debito azionato. La banca aveva dato corso a tale decreto a mezzo di iscrizione di ipoteca giudiziale su beni di proprietà dell’avvocato. Di conseguenza, costui proponeva opposizione dinanzi al giudice di prime cure formulando contestualmente domanda di risarcimento extracontrattuale. Il Tribunale accertava la falsità delle predette sottoscrizioni nonché l’estraneità dell’opponente all’operazione per il cui debito la Banca aveva agito in executivis, pertanto revocava il decreto ingiuntivo. Tuttavia rigettava la domanda di risarcimento, dichiarando che la stessa era stata circoscritta alla sola lesione dell’onorabilità e professionalità dell’attore, senza riguardare il caso di altri pregiudizi patrimoniali che questi avesse eventualmente sofferto. Alla medesima conclusione giungeva in secondo grado la Corte di merito investita dell’impugnazione in relazione all’esatta ampiezza da riconoscere alla domanda risarcitoria originariamente presentata. Pertanto, l’avvocato proponeva ricorso in Cassazione.
Con il primo motivo lamentava che la Corte aveva omesso di esaminare compiutamente la domanda risarcitoria assumendo che la stessa ricomprendeva l’intero genere di danno patrimoniale. In subordine, deduceva che la predetta ampiezza della domanda in oggetto scaturisse dal regime previgente la riforma attuata con legge n. 353/1990, il quale consentiva ampie modificazioni della domanda in sede di formulazione della citazione in appello. Da ciò derivava la conseguenza che la valutazione circa l’effettiva sussistenza della responsabilità risarcitoria in capo alla banca resistente non dovesse essere circoscritta alla sola lesione dell’immagine professionale ed onorabilità del ricorrente, bensì estendersi allo scrutinio di ogni possibile fonte di pregiudizio patrimoniale.
La Suprema Corte ha ritenuto infondati tutti i motivi svolti. In particolare, in ordine alla prima censura i giudici di legittimità, sulla scorta di un orientamento uniforme, replicano che ai fini dell’interpretazione della domanda giudiziale non sono applicabili i criteri ermeneutici dettati in campo contrattuale dall’art. 1362 cod. civ., non essendo individuabile una comune intenzione delle parti e, soprattutto, in virtù della ratio posta a fondamento della regola di corrispondenza fra chiesto e pronunciato ex art. 112 c.p.c., individuata nella garanzia del principio del contraddittorio. Ed ancora, la critica rivolta ai giudici di secondo grado in ordine al mancato esame della domanda risarcitoria nella sua massima estensione non può trovare accoglimento in quanto la prospettazione svolta dalla citazione in opposizione, unitamente alla documentazione prodotta nel corso del giudizio di primo grado, esponeva esclusivamente il danno all’immagine ed onorabilità professionale dell’attore, non lasciando spazio a doglianze di diverso taglio o contenuto. Né il ricorrente -osserva la Suprema Corte- si è curato di censurare il punto della decisione di secondo grado in cui si accertava l’insussistenza dei presupposti soggettivi (ossia la colposità della condotta) in capo alla banca per la configurabilità della responsabilità risarcitoria ex art. 2043 cod. civ.
Quanto alla possibilità contemplata dal regime previgente di ampliare il contenuto della domanda formulata in primo grado, la Cassazione rileva come la domanda svolta in appello dal ricorrente abbia comportato a tutti gli effetti una vera e propria mutatio libelli, ossia un radicale mutamento della domanda processuale e non una mera modifica/rettifica della stessa. Orbene, la “novazione” del thema decidendum sarebbe stata ed è da ritenersi in ogni caso inammissibile, anche alla luce del precedente regime invocato dal ricorrente.