Il Tribunale di Milano, con la sentenza in commento, dichiara l’inefficacia di un trust liquidatorio istituito da una società e, per l’effetto, la nullità del trasferimento dei beni immobili della società medesima al trustee. Essa fa applicazione dei principi e criteri di indagine individuati dalla Corte di Cassazione nella recente sentenza 9.5.2014, n. 11105.
In particolare il Tribunale afferma che:
a) il trust non è soggetto di diritto, ma un insieme di beni e rapporti con effetto di segregazione patrimoniale, nel quale il trustee – quale titolare dei medesimi – è l’unico soggetto di riferimento per i terzi;
b) il trust interno liquidatorio istituito da società ormai insolvente e poi dichiarata fallita per eludere la procedura fallimentare, ponendosi in contrasto con le norme imperative della legge fallimentare che presiedono alla liquidazione concorsuale, è – prima ancora che nullo – non riconoscibile nell’ordinamento italiano alla luce dell’art. 15, par. 1, lett. a) della Convenzione de L’Aja del 10 luglio 1985 sulla legge applicabile ai trust e sul loro riconoscimento, ratificata con legge 16 ottobre 1989, n. 364, secondo il quale un trust non puòviolare le norme imperative previste dalla lex fori in tema di “protezione di creditori in casi di insolvibilità”.
Il caso deciso riguarda una società ritenuta dal giudice già in stato di insolvenza prima dell’istituzione del trust, la quale nel 2011 delibera il suo scioglimento e la sua messa in liquidazione, nominando liquidatore uno dei due soci e istituendo quindi il trust nominando trustee l’altro socio, al quale trasferisce la proprietà di tutto il patrimonio societario, cioè l’intera azienda, comprensiva di beni immobili.
La società viene poi dichiarata fallita nel 2012 e il curatore agisce in giudizio per la declaratoria di nullità/inefficacia del trust, il quale non conteneva alcuna clausola che prevedesse la restituzione dei beni trasferiti al trustee agli organi del fallimento in caso di sentenza dichiarativa dello stesso.
Si tratta, all’evidenza, di un ‘trust interno’, regolato dalla Trusts (Jersey) Law delle Channel Islands del 1984 e successive modifiche, legge straniera costituente l’unico elemento di internazionalità.
Il Tribunale, facendo applicazione dei principi affermati dalla Cassazione nella sentenza n. 11105/14, rileva che il trust, istituito dalla società già insolvente, null’altro costituisce se non un mezzo per sottrarre i beni aziendali alla procedura fallimentare e, di conseguenza, al soddisfacimento della pretese creditorie. Tra l’altro, a dispetto di quanto indicato nell’atto istitutivo del trust, osserva il Tribunale, nessun beneficio avevano tratto i creditori dall’istituzione del trust, non avendo il trustee del medesimo svolto alcuna attività di tipo liquidatorio.
La sentenza non apporta sostanziali novità rispetto ai principi affermati dalla Cassazione nel 2014; si impongono tuttavia alcune osservazioni.
In primo luogo il Tribunale sembra dare per scontata, così come la Corte di Cassazione, la legittimità del trust interno, sebbene si richiami, in un passaggio della sentenza, la tesi dottrinale per cui la carenza di elementi di internazionalità dovrebbe, al contrario, condurre all’impossibilità di ‘riconoscimento’ del trust ai sensi dell’art. 13 della Conv. (ha affermato l’illegittimitàdi un trust interno il recente provvedimento di Trib. Belluno, 16.2.2014, in www.ilcaso.it).
Rispetto alla sentenza della Suprema Corte, il Tribunale ritiene il trust non ‘riconoscibile’, facendo applicazione della teoria della ‘causa concreta’ nonché degli artt. 13 e 15, par. 1, lett. e) Conv. nonchè dei principi di ordine pubblico (richiamati dall’art. 18 Conv.).
La Corte di Cassazione, in verità, non aveva fatto applicazione dell’art. 13 Conv., in quanto da essa ritenuto rivolto non al giudice bensì allo Stato, né dell’art. 18 Conv. , in quanto si trattava di fattispecie meramente interna.
Aveva invece la Suprema Corte applicato l’art. 15, par. 2, Conv., che attribuisce al giudice il potere di realizzare gli obiettivi del trust con mezzi giuridici diversi, ma a mio avviso si tratta di norma invocata in modo inesatto, trattandosi di disposizione indubbiamente espressione di un favor per il trust, nel caso di specie invece utilizzata per dichiararlo nullo/inefficace/irriconoscibile/inesistente (tali espressioni si ritrovano tutte, indistintamente, utilizzate da Cass. n. 11015/14).
Desta perplessità l’uso da parte del Tribunale, che sul punto si allinea alla Suprema Corte, del lemma ‘riconoscimento’ con riguardo a una fattispecie priva di elementi di internazionalità. Di ‘riconoscimento’ sembra potersi parlare, infatti, rispetto a fattispecie in cui vengono in gioco problemi di conflitto fra legge straniera e legge italiana in senso internazionalprivatistico, mentre nel caso di specie, essendo il trust privo di obiettivi elementi di internazionalità (ma nondimeno ritenuto ammissibile in virtù della – prevalente – particolare lettura della Conv. Aja) sarebbero dovuti venire in gioco esclusivamente problemi di conformità tra la concreta operazione posta in essere (cioè la sua ‘causa concreta’) e l’ordinamento interno.
Per quanto riguarda la questione della mancanza di una clausola prevedente la ‘risoluzione’ del trust in caso di successivo fallimento della società disponente, mi sembra di potere affermare che l’inserimento nell’atto di una clausola che limiti l’operatività del trust … in caso di insolvenza, pare del tutto inutile, perché il fatto dedotto nella clausola (l’insolvenza appunto) è già in essere al momento dell’istituzione del trust. Un siffatto trust, in definitiva, nascerebbe … morto, perché l’insolvenza dell’impresa disponente ne precluderebbe fin dall’origine l’operatività. La presenza della clausola al vaglio, in definitiva, non pare possa conferire validitàa una fattispecie (in ipotesi) viziata sotto il profilo genetico. Infatti, delle due l’una: o il trust è nullo per violazione di norme imperative, e allora la presenza della clausola non sarà certo strumento idoneo a conferirgli una validità che esso intrinsecamente non possiede; oppure è valido, e il verificarsi dell’evento dedotto nella clausola inciderà, a tutto concedere, sulla durata del trust.
Può ulteriormente aggiungersi che il trust in realtà non si ‘risolve’, semmai si risolvono gli atti traslativi dei beni al trustee (con problemi circa la sorte degli eventuali atti nel frattempo compiuti) e che una possibile soluzione per ricondurre i beni sotto il controllo del curatore possa essere quella di apporre una clausola che preveda “il fallimento come causa di cessazione delle posizioni beneficiarie”. In questo caso, il programma liquidatorio progettato nel trust terminerebbe in via automatica a causa dell’assenza dei soggetti cui è destinato (i beneficiari), per cui il trust diventerebbe ‘bare’(nudo) e il trust fund tornerebbe nella disponibilità del disponente (di regola beneficiario residuale del trust) e quindi del curatore fallimentare, che ne potrebbe disporre a suo piacimento (non necessariamente chiedendone il ritrasferimento, se non altro per ragioni tributarie).
Infine, anche il Tribunale di Milano (cosìcome la Suprema Corte e altre sentenze in materia) non considera la posizione dei creditori.
In particolare, nel caso di trust che preveda i creditori quali beneficiari, occorre chiedersi se:
a) occorra il consenso dei (tutti) i creditori affinché si perfezioni la fattispecie e si produca l’effetto di separazione patrimoniale,
oppure
b) i creditori (tutti) acquistino ipso iure la posizione beneficiaria (salvo rifiuto) e pertanto il trust si perfezioni a prescindere dal loro consenso.
Sembra evidente che, se si accede alla tesi sub a), la quale postula la natura contrattuale di siffatti trust, il creditore (beneficiario) potrà ben eccepire, appunto, il mancato perfezionamento della fattispecie e agire in giudizio, sia richiedendo provvedimenti cautelari aventi a oggetto i beni in trust; sia proponendo un’azione di accertamento dell’inefficacia del trust.
La tesi sub b), tuttavia, appare ampiamente diffusa. Parrebbe esservi sostanziale concordia infatti, nel ritenere che il beneficiario sia estraneo all’atto istitutivo di trust e acquisisca ipso iure, salvo rifiuto, la posizione beneficiaria (sembrerebbe ben riflettere tale concezione il fatto che nella prassi il beneficiario, a differenza del trustee, normalmente non presenzi alla costituzione del trust). Ciò non pare, comunque, dover suscitare soverchie perplessità, ove si consideri che la dinamica dell’acquisto ipso iure da parte di un soggetto estraneo al negozio, salva sua accettazione (che consolida l’acquisto) ovvero rinunzia (che importa perdita di quanto acquistato) appare analoga a quella che, nel diritto interno, si verifica in altri istituti, come il contratto a favore di terzo (cfr. art. 1411, comma 2, c.c. ) e il legato (cfr. art. 649 c.c.).
Pur ammettendo che la fattispecie istitutiva si perfezioni a prescindere dall’accettazione dei beneficiari, non v’è però chi non veda come i beneficiari (uno, più, persino tutti) possano rifiutare la posizione beneficiaria stessa, non potendo certo il trust essere loro “imposto” dal debitore.
Ritengo si possa concludere nel senso che il creditore che rifiuti la posizione beneficiaria potrà, in primo luogo, ottenere provvedimenti cautelari aventi a oggetto i beni in trust; in secondo luogo, agire per rimuovere gli effetti del trust nei suoi confronti. E ciò potrà fare mediante proposizione dell’azione revocatoria ordinaria (avente a oggetto gli atti traslativi dei beni al trustee ovvero la dichiarazione unilaterale di trust nel caso di trust autodichiarato, anch’essa costituente, a tali fini, atto di disposizione), qualora acceda alla tesi sub b) ovvero mediante proposizione di un’azione di accertamento del mancato perfezionamento della fattispecie (e, quindi, dell’inefficacia del trust e degli atti traslativi dei beni al trustee a esso conseguenti ovvero della dichiarazione unilaterale di trust nel caso di trust autodichiarato) qualora acceda alla tesi sub a).
Sembra invece difficile ritenere che il rifiuto determini l’inefficacia automatica dell’intero trust, sì che il creditore possa, pur in assenza di una sentenza di accertamento dell’inopponibilità del trust nei suoi confronti, aggredire i beni in trust come se non fossero mai usciti dal patrimonio del proprio debitore.