La recente sentenza del Tribunale di Cremona consente l’uso del trust in funzione liquidatoria nella crisi d’impresa. Una società a responsabilità limitata già in stato di dissesto può avvalersi di tale istituto, contestualmente alla messa in liquidazione e nonostante successivamente venga dichiarata fallita, destinando tutto il patrimonio sociale, oltre ai beni di soci, a favore dei creditori beneficiari. Il trust, in questi termini, assurge a efficace strumento privatistico, che può sostituire altri istituti tipici, come ad esempio la cessio bonorum, collocandosi su un piano alternativo alle procedure concorsuali.
Per confermare la validità del trust il Tribunale affronta due problemi in particolare: a) la compatibilità tra le disposizioni che regolano il trust e le norme interne sulla liquidazione della società; b) le sorti del trust dopo la dichiarazione di fallimento dell’impresa.
Il fatto
Il fallimento di una società a responsabilità limitata intende recuperare il patrimonio sociale conferito in un trust liquidatorio, in quanto ritiene che la stessa società disponente, già in stato di dissesto, abbia compiuto l’atto con lo scopo fraudolento di spossessarsi dei beni in danno dei creditori e di ostacolare la procedura di liquidazione. Pertanto la parte attrice agisce in giudizio contro il trustee, al fine di ottenere l’eliminazione degli effetti segregativi prodotti dal trust sui beni in esso conferiti. Il Giudice è chiamato ad esprimersi in merito alla nullità del trust o allo scioglimento ex art. 78 L.F., in subordine alla simulazione del negozio e in ulteriore subordine, in caso di validità del trust, alla revoca dell’atto istitutivo. Inoltre, con riferimento ai beni personali di un socio conferiti anche essi nel suddetto trust, invocando la validità dell’atto istitutivo limitatamente a quella parte, il fallimento domanda il subentro del curatore nella qualità di beneficiario o guardiano o di trustee. Infine, viene richiesto che il trustee fornisca il rendiconto.
Compatibilità con l’ordinamento interno: la validità del trust liquidatorio
Il trust liquidatorio costituito quando la società già si trova in stato di crisi non può essere ab origine nullo (o inefficace), secondo quanto stabilito dall’art. 13 della Convenzione dell’Aja, poiché non contrasta con le norme di applicazione necessaria relative alla liquidazione concorsuale previste dall’ordinamento interno. Dette regole, a seguito della riforma fallimentare, sono rivolte a favorire la privatizzazione delle procedure concorsuali. L’autonomia privata assume un rilievo fondamentale e ad essa vengono demandate le scelte in merito alla risoluzione della crisi d’impresa. Quando l’impresa si trova in stato di crisi, la libertà lasciata alle parti di decidere in via stragiudiziale e negoziale i rapporti con i creditori non risulta compressa dalle regole pubblicistiche relative alle procedure concorsuali (in particolare quelle sulla par condicio creditorum). Non c’è presunzione che in tale fase le procedure negoziate dalle parti abbiano scopo fraudolento, in quanto le stesse non si concludono necessariamente e inevitabilmente con la dichiarazione di fallimento. Alla luce di un quadro normativo così delineato, il Tribunale per confermare la validità del trust fa un parallelismo con l’istituto tipico della cessione dei beni ai creditori exart. 1977 e ss. c.c., in riferimento al quale l’indizio dello stato di insolvenza dell’impresa non ha mai sollevato dubbi di nullità.
Va esclusa anche la tesi della simulazione del trust, i cui elementi costitutivi sono stati esaminati in diverse pronunce del Tribunale di Reggio Emilia (si citano ad esempio le ordinanze del 14 maggio 2007 e del 14 marzo 2011). L’indagine volta a riscontrare eventuali vizi va effettuata sulla causa in concreto del trust, cioè sul programma che si è prefissato il disponente nel momento in cui ha deciso di dar vita al trust. Elemento significativo per il Tribunale (che esclude in particolare l’ipotesi dello sham trust) è il fatto che il conferimento nel trust dei beni personali di soci ha favorito il procedimento liquidatorio, incrementando il patrimonio a garanzia del soddisfacimento dei creditori. Diversamente, con la procedura di liquidazione ordinaria i beni personali dei soci non avrebbero potuto essere aggrediti, in quanto la società a responsabilità limitata risponde dei debiti unicamente con il suo patrimonio, in forza dell’autonomia patrimoniale perfetta di cui gode. Nella sentenza in commento si afferma che “il trust non sembra simulato, ma al contrario effettivo e meritevole di tutela ed anzi vantaggioso per i creditori(…)”.
Inoltre, non rileva il fatto che la società ha potuto spogliarsi dei beni e cancellarsi dal registro delle imprese, anticipando il termine annuale per la dichiarazione di fallimento. Infatti, ai sensi degli artt. 2484-2495 c.c. la cancellazione dal registro delle imprese comporta automaticamente l’estinzione della società, indipendentemente dall’esito e dalle modalità del procedimento liquidatorio (relativamente agli eventuali debiti rimasti insoluti risponderanno i soci). Al contrario, l’anticipata estinzione della società che si trova in stato di crisi irreversibile può, in concreto, evitare ulteriori costi all’impresa (tasse, dipendenti, consulenti fiscali, ecc.). Si evidenzia, inoltre, il regime di pubblicità notizia per le vicende dell’impresa, posto a tutela dei creditori e su cui grava l’onere di tenersi informati in merito allo stato della debitrice.
Le sorti del trust liquidatorio in caso di dichiarazione di fallimento
In caso di fallimento dell’impresa il trust non può sopravvivere. Neppure è ipotizzabile la sostituzione del trustee con il curatore fallimentare. Ciò poiché si avrebbero due parallele procedure liquidatorie con identità di scopo che non possono coesistere. Infatti, la procedura fallimentare pubblica prevale su quella privata del trust assorbendola. Ne consegue che lo scopo del trust diviene impossibile da raggiungere. Non assume, tuttavia, rilevanza la tesi della nullità e/o inefficacia, anche qualora queste si considerassero sopravvenute.
Per ottenere lo scioglimento del trust e il ritorno dei beni alla massa fallimentare, non è corretta l’applicazione degli artt. 72 e ss. L.F. che si riferiscono ai rapporti di durata e non esauriti, di cui è titolare il fallito. Invero, il trust è più simile ad un atto unilaterale di costituzione di una fondazione, piuttosto che ad un mandato (tesi sostenuta dall’orientamento dottrinale che ritiene applicabile in via analogica l’art. 78 L.F.). Il trust esaurisce i suoi effetti con la sua costituzione e con la dotazione degli assets destinati allo scopo, dopo di che il settlor “esce di scena” (in tal senso, anche Tribunale Reggio Emilia 2 maggio 2012).
Secondo il Tribunale, la disciplina applicabile è quella dell’atto istitutivo del trust o in mancanza della legge regolatrice prescelta (legge di Jersey). L’art 51 della legge di Jersey prevede che la Corte può adottare i provvedimenti ritenuti più opportuni. Dunque, la strada da percorrere secondo il Tribunale è quella del ricorso da parte del curatore fallimentare all’autorità giudiziaria (previa autorizzazione del giudice delegato), la quale in sede di volontaria giurisdizione accerterà l’impossibilità del trust di raggiungere lo scopo e disporrà la devoluzione dei beni del trust al curatore stesso (similmente a quanto accade per le fondazioni ai sensi dell’art. 31 c.c.).
Qualora all’autorità giudiziaria non spettino gli ampi poteri riconosciuti dalla legge di Jersey, il curatore avrà comunque a disposizione il rimedio specifico della revocatoria per tornare in possesso dei beni conferiti nel trust (azione da proporre contro l’atto di dotazione e non contro l’atto istitutivo, neutro dal punto di vista patrimoniale).
Quanto al diritto di rendiconto, esso spetterà al curatore soltanto a seguito di dichiarazione di estinzione del trust e devoluzione dei beni al fallimento.