Con la pronuncia in esame, la Corte di Cassazione ha chiarito che, in caso di cessione di ramo d’azienda, ove su domanda del lavoratore ceduto venga giudizialmente statuito che non ricorrano i presupposti di cui all’art. 2112 c.c., le retribuzioni in seguito corrisposte dal destinatario della cessione, che abbia utilizzato la prestazione del lavoratore successivamente alla messa a disposizione di questi delle energie lavorative in favore del cedente, “non producono effetto estintivo, in tutto o in parte, dell’obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la controprestazione lavorativa”.
Trattasi di un principio di diritto che dà seguito al revirement giurisprudenziale in materia di qualificazione non risarcitoria, ma retributiva, dell’obbligazione del cedente a seguito della declaratoria di illegittimità della cessione del ramo d’azienda; revirement autorevolmente confermato dalla Corte costituzionale con sentenza n. 29 del 2019.
Ancora una volta, assume rilievo il bene della vita in relazione al quale la tutela è richiesta e non il tenore letterale della domanda o della qualificazione giuridica ipotizzata dall’attore.
Nel caso di specie, l’oggetto della materia del contendere trova le sue origini nella declaratoria di nullità della cessione dei contratti di lavoro dei ricorrenti e della dichiarata persistenza del rapporto di lavoro subordinato con l’impresa cedente. A tali conclusioni era pervenuto il giudice di primo grado, il quale rigettava la domanda intesa ad ottenere dal cedente il pagamento dei premi di risultato, dei buoni pasto e delle azioni di shares dovuti ai lavoratori. In seguito, la Corte di Appello di Roma rigettava il gravame di questi ultimi ritenendo che, nell’ipotesi di dichiarata nullità della cessione, “l’omesso ripristino della funzionalità del rapporto, a fronte di una tempestiva messa a disposizione delle energie lavorative, rilevava unicamente in termini risarcitori e non sul piano della omessa corresponsione delle retribuzioni”.
Consegue il ricorso innanzi alla Corte di Cassazione posto a fondamento della Sentenza in oggetto, nel quale si sosteneva il carattere retributivo di alcuni voci della richiesta; carattere che non avrebbe dovuto incidere ai fini decisori, in quanto semplice parametro di quantificazione economica, essendo stata altresì avanzata alla Corte del merito la soluzione “risarcitoria” ed in considerazione del potere del giudice del merito di mutare il titolo della domanda, purché sostenuta da elementi di fatto idonei a giustificarla.
I giudici della Suprema Corte, rilevando l’intervenuto mutamento giurisprudenziale e richiamando alcuni passaggi argomentativi delle più rilevanti pronunzie ad esso riferibili, hanno ribadito che al dipendente spetta la retribuzione “tanto se la prestazione di lavoro sia effettivamente eseguita, sia se il datore di lavoro versi in una situazione di mora accipiendi nei suoi confronti”. Ebbene, una volta offerta la prestazione lavorativa al datore di lavoro dichiarato tale in via giudiziale, il rifiuto di questi rende “giuridicamente equiparabile la messa a disposizione delle energie lavorative del dipendente alla utilizzazione effettiva”, sicché grava sul datore di lavoro il conseguente obbligo di pagare la controprestazione retributiva.
Rileva, infine, l’opzione interpretativa della Cassazione, secondo la quale l’attività lavorativa subordinata resa in favore di un ‘soggetto che non sia più cessionario dell’azienda’ risulta equiparabile all’attività eseguita dal lavoratore in favore di qualsivoglia soggetto terzo; in tal caso, l’eventuale retribuzione corrisposta da tale soggetto terzo si andrebbe a cumulare con quella dovuta dal cedente; parimenti, allora, la retribuzione corrisposta dal ‘non più cessionario’ non deve ritenersi detratta dall’importo della retribuzione cui il cedente è obbligato.