Nel caso in esame il Tribunale di Milano è chiamato a pronunciarsi in merito all’esperibilità di un sindacato giudiziale relativamente al quantum del compenso dell’amministratore di società, così come determinato dai soci.
Il Tribunale conferma su tale punto l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, escludendo la possibilità in capo al giudice di sindacare nel merito la misura del compenso spettante all’amministratore, trattandosi di decisione “squisitamente discrezionale”, che solo i soci possono e debbono esprimere al momento della designazione del soggetto preposto alla gestione del proprio investimento. La denuncia al giudice potrebbe riguardare al massimo la circostanza che il compenso risulti sproporzionato, pertanto manifestamente eccedente i limiti della discrezionalità imprenditoriale: solo in tal caso sarebbe infatti demandabile al giudice una valutazione, diretta peraltro non ad accertare la convenienza o l’opportunità della delibera, bensì ad identificare un eventuale vizio di illegittimità desumibile dalla irragionevolezza della misura del compenso stabilita a favore dell’amministratore. Sul punto, il Tribunale precisa che il parametro di valutazione del giudice debba ricomprendere la natura e l’ampiezza dei compiti dell’amministratore, il compenso corrente nel mercato per analoghe prestazioni in relazione a società di analoghe dimensioni, nonché la situazione patrimoniale e l’andamento economico della società.
Nel caso in esame, il Tribunale considera indici deponenti a sfavore dell’irragionevolezza del compenso il fatto che l’amministratore abbia prestato la propria attività per oltre vent’anni, essendovisi dedicato in via esclusiva e senza limiti di orario con risultati indubbiamente positivi; le maggiori onerosità e complessità dell’incarico, sopravvenute con l’insorgere della crisi economica e finanziaria, la quale ha costretto l’amministratore a spendersi di più in virtù dell’esistenza di una prospettiva di rilancio della società.