Come noto, con il D.Lgs. n. 6/2003 è stata estesa alle società di capitali la facoltà di prevedere una durata indeterminata del contratto sociale, controbilanciandola con il diritto del socio di recedere ad nutum, “conformemente alla disciplina prevista in materia di contratti”[1]. La volontà del socio di esercitare tale diritto deve essere comunicata alla società con un preavviso di almeno centottanta giorni, salvo lo statuto preveda un termine più lungo, ma comunque non superiore a un anno (artt. 2437, comma 3, e 2473, comma 2, cod. civ.).
La pronuncia in esame offre interessanti spunti di riflessione in merito ad un tema ampiamente trattato – seppur con opinioni discordanti – sia in dottrina che in giurisprudenza, ossia l’esercizio del diritto di recesso nelle società di capitali. Segnatamente, la questione affrontata dalla sentenza in epigrafe riguarda la possibilità o meno di assimilare, ai fini della configurabilità in capo al socio del diritto di recesso, le ipotesi in cui lo statuto preveda un termine della società particolarmente lungo a quelle in cui la durata risulti indeterminata. In altre parole, ci si interroga se sia consentito al socio l’esercizio del proprio diritto di recesso, ove lo statuto, pur prevedendo un termine finale di durata, lo fissi in un momento talmente lontano nel tempo da farlo ritenere come sostanzialmente indefinito.
Una prima tesi – che attribuisce all’art. 2285 cod. civ.[2], collocato nella disciplina delle società di persone, carattere generale – ritiene la questione vada risolta in senso positivo[3]. Sarebbe infatti irragionevole negare al socio il diritto di recedere dal contratto sociale anche quando la durata della società ecceda determinati orizzonti temporali: se si escludesse il diritto di recesso in ipotesi del genere, la ratio della norma di assicurare ai soci l’exit dalla società verrebbe facilmente vanificata e il socio si troverebbe ad essere irrimediabilmente prisonnier de la société[4].
Secondo un orientamento radicalmente opposto, occorrerebbe invece limitare l’applicazione della norma menzionata alle sole società di persone, così rispettandone la collocazione topografica[5]. La tesi in questione si fonda sull’assunto che le previsioni di cui all’art. 2285 cod. civ. rilevano specificamente in tale tipologia societaria, riflettendo le peculiarità che la figura del socio assume all’interno di quella compagine sociale, e non possono essere trasposte nelle società di capitali, dove l’interesse all’investimento è largamente prevalente. Ad escludere un’applicazione analogica della norma vi sarebbero altresì esigenze di tutela dei terzi, posto che solo nelle società di persone i soci rispondono illimitatamente con il loro patrimonio per i debiti sociali. Simili forme di garanzia non si rinvengono, invece, nelle società di capitali, dove anzi il recesso esercitato da un socio potrebbe pregiudicare le ragioni del ceto creditorio che, avendo fatto affidamento sul patrimonio sociale, è interessato a mantenerne l’integrità.
A quest’ultima tesi ha aderito la Suprema Corte nella sentenza in commento, così confermando l’orientamento ad oggi prevalente sia in dottrina che in giurisprudenza.
Questi sono, in sintesi, i fatti di causa. Un socio di una società per azioni instaurava un procedimento arbitrale al fine di sentire affermare il proprio diritto di recedere dalla società, la cui durata era prevista fino al 31 dicembre 2100. Costituitasi regolarmente, la società convenuta eccepiva che il socio aveva approvato una durata pari al tempo stabilito in statuto e rinunciato altresì ad esercitare il recesso in caso di proroga del termine, riconoscendo dunque la facoltà di exit dalla compagine sociale solo tramite l’alienazione delle proprie azioni. Il lodo arbitrale si pronunciava a favore del socio, riconoscendo il suo diritto di recesso e la decisione veniva confermata in appello, sull’assunto che la durata fino al 31 dicembre 2100 – essendo “largamente superiore alle aspettative di vita di un socio” – sarebbe stata equiparabile a una durata indeterminata.
La Corte di Cassazione, disattendendo le pronunce di merito, ha, al contrario, accolto il ricorso proposto dalla società sulla scorta delle seguenti motivazioni.
La prima è di natura logico-giuridica. Viene rilevato che il diritto di recesso contemplato dall’art. 2437, comma 3, cod. civ. è norma derogabile, atteso che l’ultimo comma della disposizione vieta i patti finalizzati a escludere ovvero rendere maggiormente gravoso l’esercizio di tale diritto nelle sole ipotesi di cui al primo comma; ne deriva che la fissazione di un termine di durata all’interno dello statuto sociale configura una legittima modalità di esclusione del diritto di recesso del socio riconosciuto dalla legge nel caso di durata interminata della società.
La seconda si fonda sull’interpretazione letterale dell’art. 2437, comma 3, cod. civ. La disposizione limita la facoltà di recesso all’ipotesi tassativa in cui la società abbia durata indeterminata, sicché l’applicazione ad ulteriori fattispecie sarebbe radicalmente preclusa.
La terza motivazione è di ordine sistematico. Essa pone in risalto la diversa ratio che ispira la disciplina del recesso nelle società di persone, da un lato, e nella società di capitali, dall’altro: mentre nelle prime prevale l’intuitus personae quale interesse preminente, nelle seconde occorre bilanciare i diritti del socio recedente con quelli dei creditori sociali, rispetto ai quali – come si diceva – il patrimonio sociale rappresenta l’unico asset su cui poter soddisfare le proprie ragioni.
[1] Così recita testualmente la Relazione illustrativa al D.Lgs. n. 6/2003, par. 1.3.
[2] Come noto, la norma prevede il diritto di recesso del socio in caso di società contratta a tempo indeterminato ovvero per tutta la vita di uno dei soci.
[3] In dottrina, cfr. specialmente M. VENTORUZZO, Recesso da società a responsabilità limitata e valutazione della partecipazione del socio recedente, in Nuova giur. civ. comm., 2005, 434 ss. Cfr., altresì, O. CAGNASSO, La società a responsabilità limitata, in Tratt. dir. comm., diretto da G. COTTINO, Padova, 2007, 162, secondo cui “la previsione dell’ammissibilità della società a responsabilità limitata e per azioni a tempo indeterminato comporta la possibilità che una società formalmente a tempo determinato non sia qualificata come tale, data la lunghezza del termine”. In giurisprudenza, cfr. Cass. 22 aprile 2013, n. 9962, in Giur. it., novembre 2013, con nota di P. REVIGLIONO, Diritto civile, Nota in tema di durata della s.r.l., 2271 ss.
[4] L’espressione è mutuata da M. VENTORUZZO, op. loc. cit.
[5] In dottrina, cfr. M. STELLA RICHTER jr, In tema di recesso dalla società a responsabilità limitata, in Riv. dir. comm., 2020, 17 ss. del dattiloscritto consultabile in www.academia.edu; G. ZANARONE, Della società a responsabilità limitata, in Commentario al cod. civ., fondato da P. SCHLESINGER, diretto da F.D. BUSNELLI, Milano, 2010, 799 ss. In giurisprudenza, cfr., ex multis, Trib. Milano, 4 aprile 2019, Trib. Napoli, 1 luglio 2019, con nota di G. GARESIO, Recesso ad nutum: gli angusti confini della durata indeterminata delle società di capitali, in Giur. it., n. 2019, 2684 ss., Trib. Roma, 28 novembre 2017, in Pluris. Ad una tesi intermedia sembra aver aderito Cass. 29 marzo 2019, n. 8962, in Giur. it., 2019, con nota di M.L. PASSADOR, Vincoli perpetui e diritto di exit, 2443 ss., che, pur escludendo l’applicazione analogia alle società di capitali dell’art. 2285 cod. civ., ammette il diritto di recesso del socio ove la durata della società superi “la ragionevole data di compimento del progetto imprenditoriale”.