Il contenzioso in esame scaturisce dall’applicazione da parte della Consob di sanzioni amministrative ex art. 193, comma 3, lettera a), TUF, nei confronti dei membri del collegio sindacale di una società di capitali quotata sul Mercato Telematico Azionario gestito da Borsa Italiana S.p.A., per asserita violazione dei propri doveri di vigilanza di cui all’art. 149, comma 1, TUF.
In particolare, la società in questione era stata coinvolta in una complessa operazione di investimento avente ad oggetto la compravendita dell’intero capitale sociale di due società non quotate, e la contestuale cessione del relativo credito da parte della società venditrice a due società, entrambe correlate alla società quotata in quanto controllate, seppur indirettamente, dall’amministratore delegato della predetta società. Tale cessione poggiava, peraltro, sull’acquisto, da parte della società venditrice, di una partecipazione di minoranza in una terza società, facente parte della medesima catena societaria delle due cessionarie, e il cui amministratore unico era uno dei membri del collegio sindacale dell’acquirente.
L’operazione era stata pertanto posta in essere dall’amministratore delegato della società senza informare i membri del consiglio, se non quando entrambe le compravendite erano state ormai finalizzate. La stessa società di revisione aveva rilevato in sede di trattative la criticità dell’operazione nonché i suoi profili di rischio chiedendo alla società chiarimenti ed evidenziando le correlazioni e i collegamenti tra le varie società coinvolte. In questa situazione il collegio sindacale era rimasto inerte, non avendo chiesto notizie o informazioni nonostante gli evidenti pericoli sottesi all’operazione, e senza nemmeno rilevare il conflitto di interessi in cui versava l’amministratore delegato nonché la carenza dei requisiti di indipendenza di cui all’art. 148, comma 3, TUF, di uno dei membri del collegio sindacale.
La sanzione applicata dalla Consob, il cui fondamento giuridico deve rinvenirsi nella norma di cui al combinato disposto degli artt. 193, comma 3, lett. a, e 149, TUF, veniva confermata dal giudice del gravame, che riteneva fosse evidente che l’acquisizione delle quote e la cessione dei crediti fossero logicamente connesse ed espressione di un disegno unitario, finalizzato a conseguire un unico obiettivo, ancorché mediante varie operazioni, e a raggirare la previsione dell’art. 2391-bis cod. civ. in materia di obblighi di trasparenza nella corporate governance delle società quotate.
Veniva proposto ricorso per cassazione sulla base dei seguenti motivi.
Anzitutto, i ricorrenti denunciavano violazione e falsa applicazione dell’art. 195, comma 2, TUF, degli artt. 97, 111 e 117, Cost., dell’art. 6 CEDU, nonché la violazione del principio del contraddittorio in relazione al procedimento sanzionatorio dinanzi alla Consob.
I ricorrenti ritenenvano che, nella prassi, il provvedimento sanzionatorio amministrativo irrogato dalla Consob non venisse mai comunicato agli interessati, né risultasse possibile per questi presentare deduzioni, con la conseguenza che si sarebbe palesata una chiara violazione del principio del contraddittorio, di conoscenza degli atti istruttori e della separazione tra funzioni istruttorie e funzioni decisorie.
I ricorrenti richiamavano, a sostegno delle proprie doglianze, la famosa sentenza Grande Stevens e altri vs Italia (cfr. Corte Europea dei diritti dell’uomo, 4 marzo 2014), che avrebbe stabilito , sebbene in relazione ad un procedimento sanzionatorio diverso da quella del caso di specie, una serie di garanzie procedimentali, quali il diritto a conoscere la proposta di sanzione, nonché il diritto di partecipare alla seduta di irrogazione della sanzione.
La Suprema Corte ha rigettato il primo motivo di ricorso, di natura processuale, argomentando, anzitutto, che i due procedimenti non sono equiparabili, in quanto il primo (quello del caso Grande Stevens) si riferisce a sanzioni penali ben più severe rispetto al secondo (quello del caso che qui ci occupa), che concerne invece sanzioni di natura amministrativa che non sono pertanto coperte dalle garanzie poste dall’art. 6 CEDU.
In secondo luogo, aldilà delle differenze sussistenti tra i due procedimenti, va rilevato che in ogni caso l’art 195 TUF non viola in alcun modo il principio del contraddittorio e non risulterebbe in contrasto, quindi, con l’art. 6 CEDU, “perché questo esige solo che, ove il procedimento amministrativo sanzionatorio non offra garanzie equiparabili a quelle del processo giurisdizionale, l’incolpato possa sottoporre la questione della fondatezza dell’ “accusa penale” a un organo indipendente e imparziale, dotato di piena giurisdizione, come la disciplina nazionale gli consente di fare tramite l’opposizione alla corte d’appello”.
Ne deriva che, in presenza di un giudizio di secondo grado con procedimento conforme ai parametri dettati dalla CEDU, come previsto in effetti dal sistema giurisdizionale italiano, i ricorrenti non possono dolersi della mancanza di un contraddittorio pieno, pur non potendo partecipare attivamente al procedimento di irrogazione della sanzione da parte della Consob.
Con il secondo motivo i ricorrenti eccepivano che in ogni caso il principio del contraddittorio sarebbe risultato leso dalla circostanza che il procedimento di opposizione si sarebbe svolto in camera di consiglio e non, viceversa, in un’udienza pubblica.
Il motivo è anch’esso infondato poiché i ricorrenti non hanno provato in che modo il procedimento svolto in camera di consiglio pregiudicherebbe il loro diritto di difesa, che, in ogni caso, non risulta violato in quanto le parti hanno comunque potuto svolgere le proprie deduzioni difensive.
Nelle more del secondo motivo di doglianza, i ricorrenti sollevavano altresì la questione di legittimità costituzionale del nuovo art. 193, comma 3, lett. a), TUF, che sarebbe stato in contrasto con gli artt. 76 e 77, Cost., e con l’art. 117, Cost., per la violazione della norma interposta rappresentata dalla CEDU, che in relazione alle sanzioni aventi carattere sostanzialmente penale richiede l’applicazione della norma soppravvenuta più favorevole.
A tal proposito, è infatti appena il caso di rilevare che il nuovo art. 193, comma 3, lett. a), TUF, prevede ora sanzioni di entità meno severa rispetto a quelle previste dalla legge in vigore al tempo in cui si era verificato il fatto contestato. Pertanto, in forza del principio del favor rei, i ricorrenti chiedevano che si applicasse la legge nuova, con conseguente riduzione della sanzione.
La censura è, tuttavia, priva di fondamento, posto che nel diritto amministrattivo, i principi dell’irretroattività, di legalità e di divieto di applicazione analogica sanciti dalla l. 689/1981 rendono inapplicabile il summenzionato principio del favor rei di cui all’art. 2, commi 2 e 3, cod. pen. In materia di sanzioni amministrative si applica, infatti, il principio secondo cui tempus regit actum, come peraltro sancito da una recente pronuncia della Corte Costituzionale, secondo cui il principio di retroattività della legge penale meno severa non ha mai avuto ad oggetto il complessivo sistema delle sanzioni amministrative, bensì singole e specifiche discipline sanzionatorie che, pur qualificandosi come amministrative ai sensi dell’ordinamento interno, siano idonee ad acquisire caratteristiche punitive alla luce dell’ordinamento convenzionale. Pertanto, il più favorevole trattamento riservato ad alcune sanzioni, come quelle tributarie e valutarie, trova fondamento nelle peculiarità che caratterizzano le rispettive materie e non può trasformarsi da eccezione a regola, coerentemente con il principio generale di irretroattività della legge e con il divieto di applicazione analogica delle norme eccezionali, come stabilito dagli artt. 11 e 14 delle preleggi (cfr. Corte Cost, sentenza n. 193 del 20 luglio 2016).
Con il terzo motivo si denunciava violazione e falsa applicazione dell’art. 2391-bis, cod. civ., nonché del Regolamento Consob n. 17221 del 12 marzo 2010, attuativo del predetto articolo. In particolare, i ricorrenti contestevano che l’operazione di investimento non fosse stata un’operazione con parti correlate, dovendovi essere, ai fini dell’art. 2391-bis cod. civ., un “collegamento negoziale” propriamente inteso tra i vari contratti in essere.
E’ stato tuttavia rilevato a tal riguardo che la finalità dell’art. 2391-bis, cod. civ., così come del suo regolamento attuativo, è di “approntare una regolamentazione idonea a preservare evidenti esigenze di trasparenza sia all’interno che all’esterno della società, in presenza di fenomeni connotati potenzialmente da una situazione di conflitto di interesse, ed in ragione del compimento di operazioni che, proprio per la presenza di parti correlate, possono essere piegate agli interessi di coloro che gestiscono la società a detrimento degli investitori”. Occorre, cioè, aver riguardo alla sostanza del rapporto e non solamente alla sua forma giuridica, posto che nel caso de quo appare evidente, come correttamente statuito dal giudice del gravame, che l’investitore intendeva realizzare un’operazione caratterizzata da un disegno unitario, senza prestare i dovuti accorgimenti che l’art 2391-bis avrebbe richiesto per operazioni di questo tipo.
Con il quinto e sesto motivo si è denunciata violazione e falsa applicazione dell’art. 148, comma 3, TUF, nonché del Codice di Autodisciplina.
Quanto al quinto motivo, i ricorrenti ritenevano che i rapporti di lavoro che, ai sensi dell’art. 148, comma 3, lett. c), TUF, legassero i sindaci alla società o alle sue controllate, facendo venir meno dunque la loro indipendenza fossero solo i rapporti di lavoro c.d. continuativi, dovendosi invece escludere dal novero delle fattispecie individuate dalla predetta norma i rapporti di lavoro c.d. occasionali, come quelli relativi, appunto, alla sottoscrizione di un contratto di compravendita come nel caso in esame.
La Suprema Corte ha tuttavia disatteso tale doglianza, argomentando come la norma in esame vada intesa in senso ampio, comprensiva di qualsivoglia rapporto patrimoniale o professionale, sebbene non connotato dal carattere della continuità, che invece risulta essere richiesto per le società non quotate ai sensi di cui all’art. 2399 cod. civ.
Infine, per quel che concerne il sesto e ultimo motivo, i ricorrenti sostenevano che la denuncia della mancanza del requisito di indipendenza di un sindaco avrebbe dovuto essere comunicata solo nell’ambito della revisione annuale, sicché risulterebbe erronea la sentenza del giudice del gravame di confermare la sanzione.
Anche il suddetto motivo è stato ritenuto infondato, posto che la norma di cui all’art. 149, comma 3, TUF, richiede che i sindaci comunichino senza indugio alla Consob gli episodi di irregolarità riscontrate nell’attività di vigilanza, tra le quali va senz’altro incluso il venir meno del requisito di indipendenza in capo a uno di essi.