La sentenza in esame si sofferma sui criteri valutativi delle poste al bilancio di cui all’articolo 2426 del codice civile, e sulla responsabilità che deriva in capo agli amministratori e ai sindaci per non aver agito con la dovuta diligenza nella gestione dell’attività sociale, ai sensi e per gli effetti, rispettivamente, dell’articolo 2392, e del combinato disposto di cui agli articoli 2403 e 2407 del codice civile.
Nel merito, il Fallimento della società aveva proposto azione contro gli amministratori e contro i sindaci della società, per le diverse operazioni straordinarie poste in essere dalla società tra il 2006 e il 2007, in un momento in cui il capitale sociale doveva ritenersi oramai perduto e l’attività doveva essere conseguentemente condotta in funzione conservativa ai sensi degli articoli 2485 e 2485 del codice civile. La situazione di crisi in cui verteva la società si evincerebbe del resto, secondo il Fallimento, dalla sovrastima di alcune voci del bilancio attinenti agli esercizi 2006 e 2007, con particolare riferimento, inter alia, alla partecipazione in altra società rilevata (Y) dalla fallita (X) nel 2006 al 95%, incluso l’avviamento iscritto dagli amministratori in contabilità in relazione alla succitata operazione di acquisizione.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, la domanda attorea va senz’altro accolta. In base ai criteri di redazione del bilancio di cui al terzo comma dell’articolo 2426 del codice civile, infatti, tenuto conto dell’assenza nel tempo delle basilari condizioni di economicità dell’acquisto della società (Y), della mancata predisposizione per il biennio 2006/2007 di un piano industriale credibile di risanamento della stessa, che la società (X) aveva dovuto ripetutamente ricapitalizzarla in passato, la nota integrativa posta nel bilancio della società secondo cui “il valore della partecipazione non è stato svalutato in quanto si ritiene che la perdita sia di carattere non durevole” va senz’altro smentita e il relativo valore della società acquisita andava conseguentemente azzerato. E così, la documentazione posta a supporto per il calcolo di un presunto goodwill appare invero priva di fondamento, atteso che la società (Y), per la situazione di crisi in cui verteva, era semmai caratterizzata da badwill.
Ciò dimostra oltremodo che il capitale sociale della società (X) era stato totalmente perso e che la società si ritrovava, dunque, nella situazione di cui al combinato disposto degli articoli 2447 e 2327 del codice civile, situazione che ne’ gli amministratori ne’ i sindaci rilevarono. Si tratta, a questo punto, di stabilire se gli eventi pregiudizievoli dell’integrità del capitale sociale possano fondare un’ipotesi di responsabilità degli amministratori e dei sindaci, tenuto conto che le norme concernenti l’organo gestorio e di vigilanza in una società per azioni prevedono esplicitamente che l’onere di provare l’assenza di responsabilità per gli atti posti in essere a danno della società grava sugli amministratori e sui sindaci e non sul Fallimento. Al riguardo, come sottolineato puntualmente dalla giurisprudenza di questa Corte, “non solo i convenuti non hanno saputo fornire la prova positiva su di essi incombente che l’inadempimento ai rispettivi doveri di conservazione del patrimonio sociale e di controllo sulla legalità e correttezza della gestione e dei conti siano stati determinati da impossibilità della prestazione derivante da cause loro non imputabili; ma ritiene il Tribunale che sia stata raggiunta in causa la prova positiva del loro colpevole inadempimento”:
A sostegno della suddetta tesi, basti ricordare che la società non disponeva di un business plan che giustificasse un investimento nella società (Y), e che lo stesso collegio sindacale aveva ai tempi espresso dei dubbi sulla congruità del valore contabile della società (Y), nonché palesato una (peraltro ben giustificata) preoccupazione in merito all’operazione di acquisizione nella verifica periodica del 2008, preoccupazione che non venne inspiegabilmente riflessa nel bilancio definitivo del 2008, laddove proprio il collegio sindacale avrebbe dovuto invece doppiamente sottolineare le proprie perplessità in merito alla veridicità e correttezza del valore attribuito alla partecipazione nella società (Y) da parte del management, in base ai propri doveri di vigilanza di cui al combinato disposto degli articoli 2403 e 2407 del codice civile. Alla luce delle argomentazioni di cui sopra, la Corte dichiara, dunque, gli amministratori e i sindaci della società (X) responsabili per gli atti posti in essere a danno della società e per il suo conseguente dissesto, condannandoli a risarcire il Fallimento a titolo di responsabilità solidale ex articolo 2055 del codice civile, oltre che al pagamento delle relative spese processuali.
In conclusione, nella sentenza in parola la Corte esprime un principio cardine del diritto societario in tema di onere probatorio per gli atti posti in essere nei confronti della società, entrando al tempo stesso nel merito della tanto controversa quando ancora oggi dibattuta questione dei limiti alla sindacabilità degli atti gestori posti in essere dagli amministratori nell’esercizio delle loro funzioni sociali.