Con la sentenza in oggetto la Suprema Corte di Cassazione si è trovata a decidere se a fronte di un credito d’imposta derivante dall’adempimento di obblighi fiscali assolti all’estero, la disciplina dettata dalle norme all’epoca vigenti, ed in particolare gli artt. 18 del D.P.R. n. 597 del 1973 (imposta sui redditi delle persone fisiche) e art. 9 del D.P.R. n. 598 del 1973 (l’imposta sui redditi delle persone giuridiche) prevedesse termini perentori per far valere i suddetti crediti, con la conseguente decadenza del diritto di credito al verificarsi di una intempestiva richiesta, ovvero se il rispetto delle suddette modalità fosse esclusivamente finalizzato ad ottenere la detrazione automatica delle imposte pagate all’estero, lasciando comunque impregiudicato il diritto al rimborso del credito d’imposta maturato anche quando, al ricorrere di determinati presupposti, fosse mancata la tempestiva richiesta di scomputo nella dichiarazione relativa all’anno d’imposta in cui i tributi esteri erano stati definitivamente versati.
Ciò detto, la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto più corretto orientarsi sulla seconda posizione interpretativa; nel dettaglio la sentenza di secondo grado impugnata dalla società contribuente evidenziava che secondo il dato letterale dell’art. 18 del D.P.R. 597/73 e dell’art. 9 del D.P.R. n. 598/73, “la detrazione deve essere chiesta a pena di decadenza nella dichiarazione relativa all’anno in cui le imposte estere sono state pagate in via definitiva”. Da tale dato ha ritenuto che la contribuente avrebbe dovuto inserire l’importo relativo alle imposte pagate all’estero a titolo di detrazione d’imposta nel modello di dichiarazione 1983, relativo ai redditi dell’anno 1982, anno di pagamento delle imposte estere e che la mancata indicazione abbia reso inammissibile per la società contribuente la successiva richiesta di rimborso.
Secondo questa ricostruzione interpretativa effettuata dal giudice di secondo grado, la decadenza risulterebbe collegata al dato formale della omessa richiesta di detrazione nella dichiarazione dei redditi dell’anno relativo al pagamento delle imposte estere, restando con ciò inefficace, ai fini dello scomputo del credito d’imposta, ogni successiva rettifica dei contenuti della dichiarazione da parte del contribuente.
Tale ricostruzione però, come evidenziato dai giudici di legittimità non tiene conto innanzitutto che da tempo costituisce dato dogmatico ampiamente riconosciuto quello secondo cui la dichiarazione dei redditi non è un atto negoziale o dispositivo, ma una dichiarazione di scienza (cfr. Sent. Cass. n. 15063 del 2002) e che pertanto, nel caso di errore, di fatto o di diritto, commesso dal contribuente, la dichiarazione è emendabile e ritrattabile quando possa altrimenti derivarne l’assoggettamento ad oneri contributivi più gravosi rispetto a quelli che, in base alla legge, devono restare a carico del dichiarante.
L’interpretazione del sistema disciplinante il rapporto giuridico tra contribuente e fisco fa dunque salvo il diritto del contribuente ad emendare la dichiarazione per evitare l’assoggettamento ad oneri che non gli spettano e va innanzitutto ricondotto, prima ancora che alla natura della dichiarazione dei redditi, ai principi costituzionali della capacità contributiva dettati dall’ art. 53 Costituzione, nonché alla oggettiva correttezza dell’azione amministrativa ai sensi dell’art. 97, co. 1, Costituzione.
Fatta questa ricostruzione del rapporto tra contribuente e fisco che abbia come fondamento i suddetti principi costituzionali, una interpretazione degli artt. 9 e 18 citati che imponga, a pena di decadenza, l’obbligo di indicare il credito nella dichiarazione relativa all’anno in cui le imposte estere sono state pagate in via definitiva, oltre che essere errata risulta estranea ai principi costituzionali.