Con sentenza n. 14266 del 13 luglio 2016, la Corte di Cassazione si è pronunciata sul ricorso proposto in primo grado da un contribuente avverso il silenzio rifiuto dell’Amministrazione finanziaria ad un’istanza di rimborso IRAP. La Commissione Tributaria Provinciale infatti, in merito all’assenza del presupposto organizzativo sottostante la disciplina dell’IRAP, accoglieva il ricorso del contribuente per carenza dei presupposti di impiego di capitali e di utilizzo di lavoro di terzi da parte di un medico radiologo.
L’Agenzia delle Entrate ricorreva, sia in appello che in Cassazione, asserendo che il contribuente aveva aderito al condono di cui alla legge n. 289 del 2002, ex art. 7 per gli anni dal 2000 al 2002 e definito l’IRAP per gli anni 2003 e 2004 mediante il concordato preventivo previsto dall’art. 33 del d.l. n. 269 del 2003.
Nel corso del giudizio di legittimità, invero, la materia del contendere ha riguardato l’ammissibilità o meno dell’eccezione posta dall’Amministrazione finanziaria in merito alla possibilità di introdurre la sanatoria fiscale nel frattempo intervenuta come circostanza capace di risolvere il ricorso a proprio favore. La Suprema Corte, nel pronunciarsi, e con riferimento a giurisprudenza consolidata, ha affermato che tale sanatoria non costituisce domanda nuova in quanto trattasi di circostanza verificatasi nel corso del processo, che influisce su di esso e come tale è ammissibile.
La Suprema Corte, in questo senso, si è sbilanciata affermando che il condono, poiché determina la formazione di un nuovo titolo giuridico in capo al contribuente, costituisce modalità “transattiva della controversia” e presuppone quindi la rinuncia alla richiesta del rimborso, facendo venir meno i presupposti del ricorso avverso l’iniziale silenzio rifiuto dell’Amministrazione.
Secondo la Corte Costituzionale (sentenza Corte cost. n. 172 del 1986) il condono fiscale ha natura meramente procedurale e più esattamente, (sentenza Corte cost. n. 321 del 1995), costituisce una forma atipica di definizione del rapporto tributario, la quale, prescindendo da un’analisi delle varie componenti, esaurisce il rapporto stesso mediante definizione forfettaria e immediata, nella prospettiva di recuperare risorse finanziarie e ridurre il contenzioso. Il condono si limiterebbe quindi, in via eccezionale, per ragioni connesse ad esigenze della finanza pubblica, a collegare il pieno effetto liberatorio dell’obbligazione all’adempimento anche solo parziale della stessa.
Secondo giurisprudenza di legittimità, inoltre, (sentenza Cassazione civ., sez. unite, n. 1518 del 2016) l’istituto del condono tributario, operando secondo meccanismi di diritto pubblico diversi dalla modificazione negoziata dell’obbligazione per via di novazione, transazione o conciliazione, pone il contribuente di fronte ad un’autonoma e libera scelta fra coltivare la controversia verso il fisco nei modi ordinari, oppure corrispondere quanto dovuto per la definizione condonistica, ma senza la possibilità di riflessi o interferenze con quanto dovuto sulla linea del procedimento fiscale ordinario. A detta della Suprema Corte, “ciò si muove lungo i binari di fattispecie legali vincolate che fuoriescono dallo schema del libero scambio di consensi tra le parti”; ne deriva che, sfuggendo il controllo del contenuto dell’obbligazione tributaria in capo al contribuente, a quest’ultimo è data possibilità di scegliere solo il ‘come’ adempierla. Nel momento in cui l’obbligazione si intende adempiuta, ne consegue, verrebbe a cessare la materia del contendere, rendendo la sanatoria fiscale, anche in gradi di giudizio successivi al primo, un’eccezione impropria (con cui il ricorrente fa valere un fatto giuridico avente efficacia modificativa o estintiva della pretesa fiscale), non soggetta alle preclusioni di cui all’art.57 del d.lgs. n. 546 del 1992 e rilevabile d’ufficio da parte del giudice ove risulti dagli atti di causa anche a seguito di nuova produzione ex art. 58 del d.lgs. n. 546 del 1992.