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Giurisprudenza

Il principio di inerenza quale condizione necessaria di deducibilità dei costi

10 Febbraio 2017

Laura Allevi

Cassazione Civile, Sez. V, 21 settembre 2016, n. 18448

Di cosa si parla in questo articolo

Con sentenza n. 18448 del 21 settembre 2016 la Suprema Corte è stata nuovamente chiamata a pronunciarsi in merito ad uno dei principi cardine nella formazione del reddito di impresa, vale a dire il principio di inerenza contenuto all’interno dell’art. 109 del TUIR.

Ricorrendo contro sentenza della CTR di Firenze che accoglieva parzialmente l’appello dell’intimata in sede di legittimità, l’amministrazione finanziaria contestava, tra le altre doglianze, il riconoscimento effettuato in secondo grado della deducibilità dei costi relativi ai compensi corrisposti ad amministratori cd. di comodo (e ritenuti tali dalla CTR in quanto privi di reali poteri decisionali).

Accogliendo tre motivi su cinque, la Corte di Cassazione ha precisato un principio fondamentale nel calcolo del reddito d’impresa e nella redazione del bilancio, nonché nel perseguimento dei fini fiscali dell’amministrazione finanziaria.

Ai sensi dell’art. 109 del d.p.r. n. 917 del 1986, i componenti positivi e negativi concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza qualora ne sia certa l’esistenza o determinabile in modo obiettivo l’ammontare. Su tale articolo dottrina e giurisprudenza si sono da sempre attestate sulla convinzione per cui un costo ovvero un componente negativo di reddito è deducibile nella misura in cui soddisfi i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità.

La Suprema Corte in questa sede ha colto l’occasione per precisare il concetto di inerenza e di conseguente deducibilità di un costo. Una spesa infatti si ritiene sia inerente quando è riferibile ad attività imprenditoriali da cui derivano ricavi o componenti positivi di reddito che concorrono a formare il reddito di impresa. La Corte precisa che corollario del principio di inerenza è il principio di correlazione costi-ricavi, secondo cui sono deducibili i costi che sono sì riferibili ai componenti positivi di reddito, ma non in maniera “molecolare” quale precisa contropartita di ogni entrata derivante dalla produzione (o prestazione) bensì quale contrapposizione economica teorica: il costo diverrebbe così deducibile dalla base imponibile di reddito per via della sua correlazione “potenzialmente idonea a produrre utili”.

La Corte ha ribadito inoltre che, al di là del fatto che la dimostrazione dell’esistenza del costo incombe sul contribuente, tale onere probatorio non si sostanzia nella mera contabilizzazione del costo all’interno della documentazione aziendale ovvero nella mera uscita finanziaria a sostegno del sostenimento della spesa: occorre invero dimostrare l’effettiva sussistenza dell’inerenza del bene o servizio acquistato all’attività imprenditoriale, mediante la prova della sua coerenza economica con l’attività d’impresa.

La deduzione dei compensi erogati ad amministratori di comodo, come tali riconosciuti anche dal giudice di seconde cure, implica sicuramente un giudizio negativo in ordine alla loro deducibilità, in quanto l’erogazione di emolumenti a soggetti non impegnati nella produzione di utili, e quindi in qualità di mere teste di legno, non è indice di inerenza all’attività né diretta né prospettica, posto che soggetti di comodo non coinvolti nel raggiungimento dell’obiettivo sociale di produzione di reddito netto rappresentano fini estranei all’attività imprenditoriale. I sintomi di una deviazione dalle finalità imprenditoriali, infatti, sono rilevabili sotto il profilo dell’entità della spesa, o della sua riferibilità soggettiva. Se da un lato è poco condivisibile il sindacato dei compensi agli amministratori sotto il profilo della loro entità, è comunque antieconomico versare un emolumento ad un soggetto per il quale sia accertato non rappresenti la volontà imprenditoriale e risulti di fatto estraneo alla vita aziendale, in qualità di costo estraneo all’impresa.

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