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Giurisprudenza

Le plusvalenze derivanti da cessione di azienda vanno dichiarate per competenza

7 Febbraio 2017

Andrea Di Gialluca, Dottore Commercialista

Cassazione Civile, Sez. V, 30 novembre 2016, n. 24378

Di cosa si parla in questo articolo

Nella sentenza in esame, la Corte di Cassazione ha statuito che il criterio della competenza è inderogabile per il contribuente, il quale non può scegliere quando dichiarare le componenti positive o negative a sua discrezione, dovendolo, invece, fare solo nel periodo indicato dalla legge come di competenza. Pertanto, anche alle plusvalenze derivanti dalla cessione di azienda vanno dichiarate per competenza.

Oggetto della controversia giunta all’attenzione della Suprema Corte è una cessione di azienda realizzata da un’imprenditrice nel corso del 2000. Da tale operazione era scaturita una plusvalenza e (da quanto desumibile dalla lettura della sentenza) l’incasso del relativo provento ma la contribuente non aveva presentato la dichiarazione dei redditi e, quindi, nulla aveva tassato. Ciò quanto nel 2003 la vendita era stata annullata dal Tribunale (non sono specificati i motivi), con conseguente emersione di un componente negativo di reddito e la restituzione di quanto incassato.

L’Agenzia delle Entrate aveva successivamente notificato alla contribuente un avviso di accertamento ritenendo che la contribuente, nel non dichiarare la plusvalenza nel periodo in cui si era realizzata (2000), aveva violato il principio di competenza, il quale impone di dichiarare il reddito quando si produce formalmente, a prescindere dai momento di effettivo incasso. D’altronde, secondo gli Uffici, a seguito dell’annullamento della vendita (2003), la contribuente avrebbe riacquistato la qualifica di imprenditrice, ben potendo a quel punto dichiarare la perdita conseguente alla restituzione della somma, “recuperando” le imposte in precedenza versate sulla plusvalenza.

I giudizi di merito si erano conclusi con l’accoglimento del ricorso della contribuente, ma la Suprema Corte ha avallato l’operato degli Uffici.

La Corte di Cassazione ha, innanzitutto, ricordato che è regola costante quella per cui gli incrementi patrimoniali si denunciano secondo il criterio della competenza, che è inderogabile, non potendo il contribuente scegliere quando dichiarare le poste attive o passive a sua discrezione.

Ne consegue che la plusvalenza realizzata con la vendita dell’azienda va dichiarata secondo il criterio della competenza (ovverosia quando formalmente realizzata), a nulla rilevando che, eventualmente e successivamente, la vendita possa essere annullata con conseguente restituzione dell’incasso. I due momenti, formalmente distinti, comportano, infatti, due eventi fiscalmente autonomi: la realizzazione della plusvalenza per mezzo della vendita, da un lato, e la (successiva) emersione di un componente negativo conseguente all’annullamento della stessa vendita, dall’altro.

Cosi non era, invece, avvenuto nel caso di specie, nel quale la contribuente, a sua discrezione, non aveva dichiarato la plusvalenza ritenendo che successivamente la vendita sarebbe stata annullata dal Tribunale, con conseguente obbligo di restituzione al cessionario delle somme percepite.

La sentenza in esame, dunque, affronta il tema del principio di competenza fiscale, con specifico riguardo alle plusvalenze scaturite dalla cessione di azienda.

In merito al principio di competenza in generale[1], la pronuncia conferma quanto già statuito dalla pacifica giurisprudenza di legittimità[2] e dalla prassi dell’Amministrazione Finanziaria[3]: la competenza in materia di reddito d’impresa, di cui all’art. 109, comma , t.u.i.r., è, salvo le ipotesi tassativamente previste dalla legge, inderogabile[4].

Con riguardo alle cessioni di azienda[5], la sentenza esaminata afferma che non rilevano “gli eventi successivi” all’operazione, nel senso che la plusvalenza va tassata nel periodo di competenza indipendentemente dal fatto che, eventualmente e successivamente, la vendita possa essere annullata con conseguente restituzione dell’incasso e l’emersione di un componente negativo di reddito.

Va, peraltro, segnalato che la Corte di Cassazione, in altra circostanza, con la sentenza 13 marzo 2014, n. 5876, ha statuito che in caso di cessione d’azienda e successiva risoluzione del contratto, non emerge alcuna plusvalenza imponibile qualora non sia stato incassato il corrispettivo della cessione[6]. Tale posizione è stata poi di recente richiamata dalla giurisprudenza di merito, ovverosia dalla sentenza del 17 maggio 2016, n. 757 della Commissione Tributaria Provinciale di Firenze.

 


[1] Come noto, l’art. 109, comma 1, t.u.i.r. stabilisce che i ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi, salvo diversa espressa disposizione, concorrono a formare il reddito d’impresa nell’esercizio di competenza: pertanto, secondo tale criterio i costi e i ricavi si considerano conseguiti nel momento in cui hanno luogo i fatti e le operazioni aziendali che li originano, indipendentemente dal momento di effettivo incasso o pagamento.

[2] Ex multis: Cass. sent. 24 settembre 2008, n. 23987; Cass. sent. 3 agosto 2005, n. 16329; Cass. sent. 28 luglio 2006, n. 17195; Cass. sent. 9 dicembre 2002, n. 17491.

[3] Cfr. tra le altre: circolare 4 maggio 2010, n. 23/E; circolare 2 agosto 2012, n. 31/E; circolare 20 settembre 2012, n. 35/E; circolare 24 settembre 2013, n. 31/E.

[4] Rimane, tuttavia, fermo il diritto del contribuente, sulla base del divieto di doppia imposizione, a recuperare la maggiore imposta indebitamente corrisposta mediante gli strumenti e nei termini che il sistema fiscale gli mette a disposizione (cfr. tra le altre: Cass. sent. 8 luglio 2009, n. 16023; Cass. sent. 10 marzo 2008, n. 6331; circolare Agenzia delle Entrate n. 31/E del 2013).

[5] Nel caso specifico di cessione di azienda, ai sensi dell’art. 109, comma 1, t.u.i.r., è poi previsto che, come regola generale, i corrispettivi si intendono conseguiti e le spese di acquisizione dei beni sostenute alla data di stipulazione dell’atto o, se diversa e successiva, la data in cui si verifica l’effetto traslativo o costitutivo della proprietà o di altro diritto reale.

Non si tiene conto delle clausole di riserva della proprietà contenute negli atti di cessione. L’irrilevanza delle clausole di riserva della proprietà è stata più volte trattata dalla giurisprudenza (Cass. sent. 29 maggio 2013, n. 13315) nonché dall’Agenzia delle Entrate (circolare 13 maggio 2002, n. 41/E, risoluzione 1° agosto 2008, n. 338/E, risoluzione 10 ottobre 2016, n. 91/E). In estrema sintesi, si realizza un disallineamento tra la disciplina civilistica della cessione di azienda con riserva di proprietà e quella fiscale: mentre sul piano civilistico, infatti, la proprietà si trasmette con il pagamento dell’intero prezzo pattuito, dal punto di vista fiscale il negozio si conclude non con il formale trasferimento della proprietà bensì nel momento in cui si conclude il negozio giuridico.

[6] Nel caso di specie, si trattava di una cessione d’azienda attraverso la quale il cedente aveva incassato parte del prezzo, ottenendo per la restante parte il rilascio di diversi effetti bancari, molti dei quali in seguito non erano stati onorati. Il cedente e il cessionario avevano pertanto successivamente stipulato una convenzione con la quale avevano risolto il contratto. Non è chiaro, tuttavia, se la risoluzione del contratto fosse avvenuta nello stesso periodo d’imposta della cessione ovvero in uno successivo.

La Suprema Corte ha affermato che, se è vero che la plusvalenza fiscalmente rilevante, collegata alla cessione di un’azienda, si realizza al momento della conclusione del contratto e, dunque, le vicende successive relative all’adempimento degli obblighi contrattuali o all’estinzione dell’obbligazione per effetto di una transazione con carattere novativo non hanno alcun rilievo, nel caso di specie la cedente non aveva realizzato alcunché, dal momento che non aveva incassato l’importo della cessione, con la conseguenza che non poteva essersi determinata nessuna plusvalenza.

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