Con la pronuncia in rassegna la Corte di Cassazione affronta il tema della presunta mutualità e onerosità dei versamenti effettuati dai soci in favore delle società prevista dall’art. 46 Tuir secondo cui “Le somme versate alle società commerciali (…) si considerano date a mutuo se dai bilanci o dai rendiconti di tali soggetti non risulta che il versamento è stato fatto ad altro titolo”.
Sul punto la sentenza in rassegna ribadisce che la presunzione de qua può essere superata solo in ragione di precisi elementi tassativamente stabiliti dalla legge, ossia fornendo evidenza probatoria circa la diversa qualificazione giuridica del versamento con la precisa indicazione nei bilanci o nei rendiconti di un titolo diverso dal mutuo.
La vicenda esaminata dagli Ermellini trae origine da una verifica fiscale condotta dalla Guardia di Finanza nei confronti di una società di capitali in esito alla quale risultava che sia gli utili realizzati dalla società sia i compensi spettanti all’amministratrice non venivano mai incassati dai rispettivi beneficiari; conseguentemente, i predetti importi permanevano nelle disponibilità della società e, dunque, come confermato in sede di accertamento, era ragionevole ritenere che dette somme costituissero in realtà un finanziamento fruttifero a favore della società e che quindi, sulla base della presunzione di cui sopra, fosse legittimo accertare in capo ai soci e agli amministratori di tale società il frutto del predetto finanziamento sotto forma di interessi.
La Suprema Corte richiamando il suo precedente orientamento[1] si è soffermata, in particolare, sul delicato tema dell’onere della prova sostenendo che la presunzione di onerosità del prestito può essere vinta esclusivamente nei modi e nelle forme stabilite dalla legge dimostrando, attraverso i bilanci, che il versamento effettuato in favore della società è stato fatto a titolo diverso dal mutuo a nulla valendo, nel caso di specie, la diversa prova contraria fornita dai contribuenti consistente nella solidità finanziaria della società che non aveva alcuna ragione di ricorrere all’indebitamento verso i soci.
Sul tema delle presunzioni applicabili al caso de quo è importante segnalare il diverso orientamento della dottrina[2] secondo cui, quanto alla fruttuosità o meno delle somme erogate dai soci alla società non sussisterebbe alcuna specifica previsione normativa nel Tuir; si è sostenuto, infatti, che l’art. 46 disciplinerebbe la presunta mutualità di tali somme ma nulla dice riguardo l’onerosità delle stesse. Secondo tale filone interpretativo, la norma che sancisce la fruttuosità dei versamenti andrebbe rinvenuta nella disciplina civilistica, in particolare nell’art. 1815 c.c. a norma del quale “Salvo diversa volontà delle parti, il mutuatario deve corrispondere gli interessi al mutuante. (…)”. Da tale assunto ne discende che solo nel caso in cui fosse civilisticamente provata l’onerosità del mutuo allora si renderebbe applicabile la disciplina prevista dall’45, comma 2 del Tuir, secondo cui “per i capitali dati a mutuo gli interessi, salvo prova contraria, si presumono percepiti alle scadenze e nella misura pattuite per iscritto. (…)”. Ma per fa ciò, come detto, occorre prima stabilire che le somme date a mutuo siano date a titolo oneroso. In altri termini, per stabilire se il mutuo concesso dal socio abbia natura onerosa o meno, occorre fare riferimento unicamente alla disciplina civilistica e solamente nel caso in cui sia accertato, alla luce delle prescrizioni civilistiche, che il mutuo abbia natura onerosa, operano, facendo salva sempre e comunque la prova scritta contraria, le presunzioni poste dall’art. 45 del Tuir riguardo alla percezione, alla competenza e alla misura degli interessi.
Pertanto, sulla base di quanto precede, nel caso in cui si dovesse ricorrere alla doppia presunzione de qua, una rinvenibile nella mutualità delle somme versate dai soci alla società, l’altra nell’onerosità della prima presunzione ovvero la fruttuosità del mutuo, sarebbe opportuno che per lo meno in relazione alla seconda si tenga in debita considerazione anche di quanto disposto dalla normativa civilistica (art. 1815 c.c.), ammettendo, dunque, qualunque prova contraria idonea a superare la presunta onerosità del finanziamento[3] – e non solo, quindi, l’evidenza risultante dai bilanci o dai rendiconti attestante che le somme nelle disponibilità della società sono state elargite dai soci ad altro titolo diverso dal mutuo.
[1] Cass. n. 16445 del 2009; Cass. n. 12251 del 2010.
[2] Cfr. Norma di comportamento n. 194/2016 Associazione italiana Dottori Commercialisti ed Esperti contabili e Assonime approfondimento n. 11 del 2013.
[3] Secondo l’Associazione italiana dei Dottori Commercialisti, i mezzi di prova per dare evidenza della “diversa volontà delle parti” potrebbero essere: bonifici con causale “finanziamento infruttifero soci”, atto pubblico, scrittura privata, scambio di corrispondenza.