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Giurisprudenza

Abuso del diritto: per la Cassazione vi è elusione solo se la condotta rientra nelle ipotesi “tipiche”

2 Dicembre 2015

Stefano Loconte, Professore a contratto di Diritto Tributario e Diritto dei Trust, Università degli Studi LUM “Jean Monnet” di Casamassima; Gabriella Antonaci, Avvocato, Loconte & Partners; Marco Zambrini, Dottore, Loconte & Partners

Cassazione Civile, Sez. V, 25 novembre 2015, n. 24024

L’obbligo di motivazione persegue il fine di porre il contribuente in condizione di conoscere la pretesa impositiva in misura tale da consentirgli sia di valutare l’opportunità di esperire l’impugnazione giudiziale, sia, in caso positivo, di contestare efficacemente l’an e il quantum debeatur. Detti elementi conoscitivi devono essere forniti all’interessato, non solo tempestivamente (e cioè inserendoli ab origine nel provvedimento impositivo), ma anche con quel grado di determinatezza ed intelligibilità che permetta al medesimo un esercizio non difficoltoso del diritto di difesa.

La fattispecie di abuso del diritto nel nostro ordinamento non opera tout court nel caso di accertamenti che concernano la materia delle imposte sui redditi (come è nel caso di specie). In tale materia occorre tener conto, secondo la giurisprudenza di questa Corte, che il legislatore, con l’art. 37-bis, D.P.R. n. 600 del 1973, ha scelto di tipizzare la figura dell’abuso del diritto convogliandola su specifici elementi caratterizzanti e determinate operazioni negoziali, in assenza dei quali non sono configurabili (si ripete nella materia delle imposte sui redditi) altre ipotesi (atipiche) di pratiche abusive”.

Questi i principi di diritto affermati dalla sentenza della Corte di Cassazione 25 novembre 2015, n. 24024.

Nel caso di specie, la società contribuente aveva impugnato avvisi di accertamento, e la successiva conseguente cartella di pagamento, per Ires, Irap e Irpeg per gli anni di imposta dal 2004 al 2008. L’attività accertativa traeva origine dal ritrovamento di files, rinvenuti nel computer di un notaio svizzero tratto in arresto, relativi alla sottoscrizione di contratti di cointeressenza e partecipazione da parte di detta società, con la finalità, ritenuta abusiva, di contabilizzare formalmente costi per la riduzione degli utili da sottoporre a tassazione.

La società impugnava dinanzi alla Commissione tributaria provinciale competente  la cartella di pagamento, eccependone la nullità per carenza di motivazione e per intervenuta decadenza, nonché per la violazione del principio di trasparenza in ordine al calcolo degli interessi e dei compensi di riscossione.

Impugnava inoltre gli avvisi di accertamento, contestandone la carenza di motivazione, eccependo altresì l’inutilizzabilità ed inopponibilità degli atti acquisiti presso il notaio svizzero, oltre ad affermare la legittimità dei contratti sottoscritti a fronte di una indimostrata incidenza dei costi per la riduzione degli utili da sottoporre a tassazione.
Il concessionario e l’Amministrazione resistevano, eccependo il reciproco difetto di legittimazione passiva.

La Commissione adìta, riuniti i ricorsi, li rigettava, condannando la società ricorrente alle spese del giudizio.

I giudici di secondo grado confermavano integralmente la sentenza appellata dalla società, condannando l’Ufficio e il Concessionario della riscossione al pagamento delle spese del giudizio.

La società proponeva a sua volta ricorso per cassazione, censurando, sotto il profilo del vizio di violazione di legge e sotto il profilo del vizio di motivazione quanto sostenuto dai giudici di secondo grado in ordine alla eccepita carenza di motivazione degli avvisi di accertamento e alla ricostruzione della fattispecie esaminata in giudizio.

Secondo la Corte, la motivazione della sentenza impugnata, sarebbe “apodittica e costruita con inspiegati giudizi di valore”: il giudice ad quem aveva infatti definito la valutazione compiuta dall’Amministrazione, basata sul PVC, idonea a determinare una esauriente ricostruzione del reddito e una sufficiente configurazione e quantificazione delle sanzioni, e quindi idonea a permettere una compiuta difesa del contribuente, senza però spiegare perché la ricostruzione del reddito fosse “esauriente”, perché la quantificazione delle sanzioni fosse “sufficiente” e perché la difesa potesse dirsi consentita “compiutamente”.

Per questi motivi la Corte ha ritenuto la motivazione “decisamente incongrua ad esplicitare le ragioni della decisione”.

Gli Ermellini, riprendendo un consolidato orientamento giurisprudenziale[1], hanno ricordato come il principio  dell’obbligo di motivazione dell’atto impositivo “persegue il fine di porre il contribuente in condizione di conoscere la pretesa impositiva in misura tale da consentirgli sia di valutare l’opportunità di esperire l’impugnazione giudiziale, sia, in caso positivo, di contestare efficacemente l’an e il quantum debeatur. Detti elementi conoscitivi devono essere forniti all’interessato, non solo tempestivamente (e cioè inserendoli ab origine nel provvedimento impositivo), ma anche con quel grado di determinatezza ed intelligibilità che permetta al medesimo un esercizio non difficoltoso del diritto di difesa”.

Con riferimento alla ricostruzione della fattispecie, i giudici di legittimità hanno accolto le doglianze della società ricorrente. Gli Ermellini, infatti, hanno rilevato che la sentenza impugnata ha qualificato la fattispecie come “abuso del diritto”, senza che fossero stati provati dall’Amministrazione né l’antieconomicità delle operazioni, né tantomeno il disegno elusivo e la manipolazione degli schemi negoziali classici.
Riprendendo quanto affermato nella sentenza n. 405/2015, la Cassazione ha sottolineato che, con riferimento alle imposte dirette, il legislatore ha inteso tipizzare la fattispecie dell’abuso del diritto, indicando specificamente nell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 – (ormai abrogato dall’art. 10 bis dello Statuto del contribuente ad opera del decreto attuativo della delega fiscale n. 128/2015)[2] –  gli elementi caratterizzanti e le operazioni negoziali in assenza dei quali non possono configurarsi ipotesi atipiche di pratiche abusive.
Inoltre i giudici di legittimità, riprendendo un consolidato orientamento della Corte di Cassazione[3], hanno sottolineato che il divieto di porre in essere operazioni elusive non opera quando queste possano spiegarsi altrimenti che con il mero intento di conseguire un risparmio di imposta, rimarcando che è posto in capo all’Amministrazione finanziaria l’onere di provare sia il disegno elusivo, sia le modalità di manipolazione ed alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale.

Questo significa che “l’indagine per la valutazione della fattispecie “abuso del diritto” non può fermarsi all’affermazione del principio astratto, cui si riferisce il primo comma dell’art. 37-bis, D.P.R. n. 600 del 1973, ma occorre che venga identificata anche la specifica ipotesi di “pratica abusiva”, tra quelle indicate nel terzo comma della medesima disposizione, che eventualmente ricorra nel caso di specie”.

Nulla di tutto ciò invero risultava dalla motivazione della sentenza impugnata, che si era limitata solo a collocare nell’ambito del quadro generale dell’“abuso del diritto” la fattispecie sottoposta alla sua cognizione, nella quale non risultava né la condotta antieconomica delle operazioni contestate né la prova dell’Ufficio in merito al disegno elusivo posto in essere dal contribuente.

È opportuno ricordare che l’orientamento giurisprudenziale suesposto, sebbene sia consolidato ed in linea con le scelte di politica legislativa che hanno portato all’adozione del D. Lgs. n. 128/2015, si colloca in posizione minoritaria rispetto a quella delle Sezioni Unite che, superando la disciplina dell’art. 37-bis, hanno statuito che “il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale”[4].

E’ evidente che l’interpretazione data dalle Sezioni Unite, tendente ad inquadrare come abuso del diritto anche un’operazione “pur non contrastante con alcuna specifica disposizione”, provocava, per la sua genericità, notevoli incertezze interpretative, minando il rapporto tra Uffici ed operatori economici e, conseguentemente ostacolando le decisioni economiche delle imprese.

Con la sentenza in commento, la giurisprudenza di legittimità sembra fare un passo indietro a favore della certezza del diritto, sostenendo che la condotta abusiva nelle imposte dirette può aversi solo in relazioni a quelle  fattispecie indicate nell’articolo 37-bis DPR n. 600/1973.

Come in precedenza affermato, tuttavia, l’art. 37bis è stato abrogato dall’art. 1, comma 2, del D. Lgs. n. 128/2015, con decorrenza dal  1° ottobre 2015.

La nuova disciplina sull’abuso del diritto si applica anche alle operazioni poste in essere in data anteriore la data di entrata in vigore del decreto, sempre che a quella data non sia stato notificato l’avviso di accertamento.
Per gli accertamenti notificati entro il 30 settembre trova invece applicazione la normativa previgente.

Alla luce di quanto statuito dalla sentenza in commento, pertanto, gli accertamenti antielusivi ai fini delle imposte dirette notificati entro il 30 settembre 2015 potrebbero essere legittimi solo se riferibili alle operazioni tassativamente indicate all’art. 37-bis, comma 3, del D.P.R. n. 600/1973.

 


[1] Cass. n. 15842/2006; v. in senso conforme Cass. n. 25064/2006 e n. 23009/2009.

[2] La ratio di tale scelta legislativa è stata quella di tipizzare la figura dell’abuso del diritto che, nella vigenza dell’art. 37-bis del DPR n. 600/1973 aveva provocato, specie nel settore delle imposte dirette in cui non operano vincoli comunitari, delle incertezze interpretative ed applicative dovute proprio alla mancanza di una tipizzazione legislativa della figura dell’abuso del diritto, con conseguente rischio sia per l’Agenzia delle Entrate di incorrere in errore valutativo in merito alla condotta posta in essere dal contribuente, sia per quest’ultimo, troppo spesso mortificato nella sua libertà di esercizio dell’attività economico e costretto a subire verifiche ed accertamenti complessi e spesso anche illegittimi.

[3] Cass. n. 4603/2014.

[4] Cass. SS. UU. n. 30055/2008.

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