Con la sentenza n. 130 pronunciata il 27 luglio 2013 e depositata il 5 agosto 2013, la Commissione Tributaria Provinciale di Rieti, in aperto contrasto con il consolidato orientamento della Corte di Cassazione, in tema di indagini finanziarie, ha ritenuto non operante, per la categoria dei professionisti, il principio secondo cui i prelevamenti non giustificati sul conto corrente si presumono ricavi occulti.
La normativa vigente
Con riferimento alle risultanze degli accertamenti bancari, l’art 32, primo comma, n. 2, secondo periodo del D.P.R. n. 600 del 1973 dispone che “ i dati ed elementi attinenti ai rapporti ed alle operazioni acquisiti e rilevati… sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 38, 39, 40 e 41 stesso decreto, se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine; alle stesse condizioni, sono altresì posti come ricavi o compensi a base delle stesse rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni…”.
La norma prevede, che, le movimentazioni, attive e passive, non coerenti con la contabilità del soggetto stesso e, per quanto riguarda i prelevamenti, non riferite neppure ad uno specifico ed identificato destinatario, sono considerate ricavi o compensi accertati in capo al soggetto accertato.
Il caso esaminato dalla sentenza in commento
Nel caso in esame i giudici reatini sono stati chiamati a decidere sul ricorso di un avvocato avverso un avviso di accertamento fondato su indagini finanziarie effettuate sui conti correnti del professionista dalla Guardia di Finanza di Rieti.
In merito all’omessa contabilizzazione di maggiori ricavi derivanti dai versamenti sul conto corrente o da prelevamenti non giustificati, il Collegio giudicante, con decisione innovativa, ha ritenuto“ che se dal versamento privo di giustificazione è ragionevole desumere il potenziale occultamento di ricavi e quindi di redditi, la stessa presunzione non può operare per i prelevamenti effettuati dal professionista, specie se avvocato.”
Secondo i giudici, infatti, è “ ragionevole ritenere che la presunzione per i prelevamenti operi solo con riferimento ai redditi di impresa ed ai redditi di lavoro autonomo con esclusione delle professioni cosiddette liberali.”
Riepilogando, la sentenza in commento ritiene la presunzione prevista dal citato art. 32 operante solo nel caso di imprenditori, grandi o piccoli che siano, per i quali le spese non giustificate possono, ragionevolmente, ritenersi costitutive di investimenti e quindi di ulteriori ricavi, mentre non può operare per l’avvocato che, dal prelevamento, non produce alcun reddito.
La posizione della Corte di Cassazione
Secondo il consolidato orientamento della Corte di Cassazione (da ultimo sentenza n. 25984 del 20 novembre 2013), invece, “in tema di accertamento delle imposte sui redditi, in virtù della presunzione di cui all’articolo 32, Dpr 600/1973 – che, data la fonte legale, non necessita dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’articolo 2729 cc per le presunzioni semplici – sia i prelevamenti che i versamenti operati su conti correnti bancari vanno imputati a ricavi conseguiti dal contribuente nella propria attività d’impresa, se questo non dimostra di averne tenuto conto nella determinazione della base imponibile oppure che sono estranei alla produzione del reddito”.
Secondo i giudici di Legittimità, infatti, in tali situazioni opererebbe una vera e propria presunzione di evasione fiscale che il contribuente potrebbe superare solo fornendo, pezze giustificative alla mano, una prova contraria.
La Suprema Corte, nella citata sentenza del 20 novembre 2013, conferisce alla presunzione prevista dall’art. 32, comma 1, D.P.R. n. 600 del 1973 una portata generale applicabile, pertanto, non solo al reddito di impresa, ma anche al reddito da lavoro autonomo prodotto dal professionista.
L’art. 32, comma 1, n. 2, secondo periodo, D.P.R. n. 600 del 1973 al vaglio di legittimità della Corte Costituzionale
La questione affrontata dai giudici reatini e decisa dalla sentenza in commento è, oggi, altresì, al vaglio della Consulta.
La Commissione Tributaria del Lazio, infatti, chiamata a decidere identica situazione a quella in commento, con l’ordinanza n. 27/29/2013 (depositata lo scorso 10 giugno), ha sollevato la questione di legittimità costituzionaledell’articolo 32, comma 1, n. 2, secondo periodo, del D.P.R. 600/1973, così come modificato dalla L. 311/2004 (Finanziaria 2005) laddove al termine “ricavi” è stato aggiunto il riferimento ai “compensi”.
Secondo i giudici laziali, mentre la precedente formulazione della norma faceva riferimento ai soli “ricavi”, relativi esclusivamente ai redditi d’impresa, la nuova enunciazione – in vigore dal 1° gennaio 2005 – fa riferimento ai “compensi”, ed estende sostanzialmente la rettifica dei redditi ai prelevamenti su conti correnti dei lavoratori autonomi.
Secondo i giudici laziali solo il reddito d’impresa è caratterizzato dalla correlazione costi – ricavi. L’attività dei professionisti, invece, sarebbe completamente sganciata dal principio “bilancistico”, e, pertanto non potrebbe operare, nel caso di reddito da lavoro autonomo, la doppia correlazione prelevamento = costo e costo = ricavo, che rappresenta il fondamento della presunzione accertativa della citata normativa.
È infatti incontestabile che il professionista sostenga dei costi che concorrono alla formazione del reddito di lavoro autonomo, senza, però, che agli stessi seguano compensi, tantomeno in pari misura. Per i lavoratori autonomi, quindi, i costi non sono strettamente correlati alla produzione di compensi, come avviene invece nella produzione del reddito d’impresa, e pertanto, i prelevamenti dal conto corrente identificano un elemento di capacità contributiva estraneo alla tipologia del reddito in esame.