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Insider trading e regime sanzionatorio. Lo sguardo (severo) della Corte d’Appello di Milano

10 Febbraio 2021

Francesco Mocci, Studio Legale Zitiello Associati

Di cosa si parla in questo articolo

Sommario: 1. Il caso oggetto del giudizio e la sentenza del 25 giugno 2020 – 2. Alcuni principi espressi dalla Corte d’Appello – 3. Il quantum della sanzione: una soluzione che lascia perplessi

 

1. Il caso oggetto del giudizio e la sentenza del 25 giugno 2020

Nell’estate del 2015, la società tedesca Heidelberg Cement AG ha annunciato e perfezionato l’acquisizione di Italcementi S.p.A., le cui azioni erano all’epoca ammesse alla negoziazione sul comparto MTA del mercato gestito da Borsa Italiana S.p.A.

Il risultato è stato ottenuto tramite due passaggi: dapprima l’acquisto della partecipazione, pari al 45% del capitale sociale, detenuta da Italmobiliari S.p.A. e successivamente la proposizione dell’OPA obbligatoria sulle azioni costituenti la rimanente parte del capitale sociale della target.

Come noto, il prezzo al quale viene lanciata l’OPA è solitamente premiante rispetto alle quotazioni di mercato del titolo, perché l’offerente deve invogliare gli azionisti ad aderire all’offerta. Nel caso Italcementi, la differenza era addirittura del 60,85% (euro 10,6 rispetto a euro 6,59, prezzo di chiusura il 28 luglio 2015, data della pubblicazione del comunicato price sensitive da parte della società emittente).

Dall’esame dei corsi di borsa, la Consob ha rilevato alcuni movimenti sospetti dei prezzi e ha indagato su una serie di acquisti di azioni Italcementi avvenuti tra il 17 luglio 2015 (data in cui l’informazione relativa all’operazione di acquisizione aveva acquisito i crismi dell’informazione privilegiata: era infatti, a dire dell’Autorità, precisa, non pubblica e idonea se resa pubblica ad avere un effetto significativo sul prezzo del titolo) e il 28 luglio 2015 (quando l’informazione è stata resa di dominio pubblico e ha quindi perso il carattere privilegiato).

All’esito dell’attività ispettiva, la Consob ha ritenuto integrate alcune condotte di insider trading, tra le quali l’acquisto di 15.000 azioni da parte di una persona che era venuta a conoscenza prima del pubblico dei dettagli dell’operazione Italcementi e ne aveva approfittato per lucrare, sempre secondo la ricostruzione dell’Autorità, il premio riconosciuto dall’offerente per l’adesione all’offerta.

In forza del disposto di cui all’art. 187 bis del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (il “TUF”) pro tempore vigente, la Consob ha così condannato il presunto insider trader al pagamento di una sanzione di euro 200.000, oltre alle pene interdittive accessorie e alla confisca dei beni fino alla concorrenza del profitto dell’illecito.

Il provvedimento sanzionatorio è stato impugnato avanti alla Corte d’Appello di Milano dal presunto responsabile, che ha contestato la commissione dell’illecito di abuso di informazioni privilegiate e, in subordine, la quantificazione della sanzione da parte della Consob, anche alla luce dei mutamenti normativi, favorevoli al reo, che erano nel frattempo intervenuti.

La Consob si è costituita nel giudizio chiedendo il rigetto dell’opposizione.

La Corte d’Appello di Milano ha respinto nel merito le doglianze dell’opponente, ritenendo che questi avesse in effetti commesso la violazione contestata, acquistando le azioni Italcementi al fine di aderire all’OPA (come in effetti ha poi fatto), essendo venuto a conoscenza dell’operazione prima dell’ostensione al pubblico. Quanto all’ammontare della pena pecuniaria, la Corte ha ridotto la sanzione a euro 100.000.

2. Alcuni principi espressi dalla Corte d’Appello

La sentenza della Corte d’Appello ha toccato diversi aspetti della disciplina dell’insider trading, diventata di particolare popolarità in questi ultimi anni per effetto della rivisitazione della materia degli abusi di mercato da parte del legislatore europeo e nazionale e di diversi interventi della Consulta.

La Corte d’Appello ha innanzitutto ricordato i requisiti perché un’informazione possa dirsi privilegiata, oggi consacrati nell’art. 7 del Regolamento (UE) n. 596/2014 del Parlamento Europeo e del Consiglio (il “MAR”), richiamato dall’art. 180, comma 1, lett. b-ter del TUF. All’epoca dei fatti, la definizione si rintracciava, senza grandi differenze, nell’art. 181 del TUF.

Si tratta dei caratteri della precisione, della non pubblicità, dell’inerenza a strumenti finanziari quotati ([1]) e dell’idoneità a influire significativamente sui prezzi degli strumenti finanziari (c.d. “price sensitivity”), tutti considerati ricorrenti fin dal 17 luglio 2015: in quella data, infatti, si tenne un incontro presso la Consob cui parteciparono esponenti aziendali delle società interessate e vennero spiegati all’Autorità i passaggi fondamentali dell’operazione di acquisizione.

Successivamente, la Corte ha sottolineato come l’illecito amministrativo de quo possa essere commesso non solo dai c.d. “insider primari”, ossia i soggetti istituzionalmente vicini alla fonte di produzione della notizia riservata (i membri del consiglio di amministrazione, il direttore generale e i sindaci della società emittente; i soci dell’emittente; coloro che abbiano accesso alle informazioni nell’esercizio di un’occupazione, una professione o una funzione, come consulenti, contabili e componenti degli organi di controllo interno; i c.d. “criminal insiders”), ma anche dai c.d. “insider secondari”, ossia tutti coloro che possiedono comunque l’informazione, conoscendone o dovendone conoscere la natura privilegiata.

È notoriamente una delle differenze principali che corrono tra la fattispecie penale di abuso di informazioni privilegiate, che concerne solo gli insider primari, e quella amministrativa, che ha un perimetro soggettivo più ampio.

Meno chiara è la considerazione svolta dalla Corte d’Appello in merito a un riallineamento delle figure degli insider primari e secondari che sarebbe stato operato dal d.lgs. 10 agosto 2018, n. 107, che ha modificato il TUF per renderlo coerente con il MAR.

Infatti, per effetto della novella, l’art. 187 bis del TUF contiene oggi un semplice rimando al MAR e al suo art. 14 per l’individuazione della fattispecie di illecito amministrativo; l’uso di tale tecnica normativa, oramai piuttosto diffusa ([2]), era del resto resa obbligatoria dalla natura direttamente applicabile negli Stati membri della fonte comunitaria, che non ammetteva modifiche o integrazioni da parte del legislatore nazionale. Ciò a differenza del quadro normativo previgente, dove la cornice europea era rappresentata da una direttiva (direttiva CE 2003/6 del Parlamento Europeo e del Consiglio, c.d. “MAD”), che necessitava del recepimento negli Stati membri.

L’art. 14 del MAR a sua volta rimanda all’art. 8, che, nel modellare la fattispecie dell’abuso di informazioni privilegiate, prevede testualmente che “il presente articolo si applica anche a qualsiasi persona che possieda informazioni privilegiate per circostanze diverse da quelle di cui al primo comma (riguardante gli insider primari, NdR) quando detta persona sa o dovrebbe sapere che si tratta di informazioni privilegiate”.

Non si rintraccia francamente una portata rivoluzionaria in questa previsione, che appare del tutto sovrapponibile a quella di cui all’art. 187 bis, comma 4, del TUF nella versione precedente: “La sanzione prevista al comma 1 si applica anche a chiunque, in possesso di informazioni privilegiate, conoscendo o potendo conoscere in base ad ordinaria diligenza il carattere privilegiato delle stesse, compie taluno dei fatti ivi descritti”.

Da tempo, quindi, insider primari e secondari sono trattati in modo analogo, per lo meno con riferimento alla fattispecie di illecito amministrativo.

Forse occorrerebbe semplicemente aggiornare il lessico e non usare più i termini di insider primario e secondario, posto che non esiste alcuna decisiva differenza, sul piano sanzionatorio, tra chi apprende la notizia di prima mano e chi invece la acquisisce in modo meno lineare; anche perché, in linea strettamente teorica, non è detto che quello che chiamiamo comunemente insider secondario abbia ricevuto la notizia da un insider primario (per lo meno, la stessa notizia poi utilizzata per compiere l’illecito).

Potrebbe infatti verificarsi il caso in cui un soggetto che è a conoscenza di notizie su un emittente o su uno strumento finanziario non particolarmente precise (e quindi non qualificabili in termini di informazioni privilegiate) le trasmetta a un terzo, il quale le utilizza come tessere di un più ampio mosaico informativo e raggiunge un livello di conoscenza rilevante ai fini della disciplina dell’insider trading.

Su questo punto è interessante la dissertazione della Corte in merito alla non necessità della dimostrazione del passaggio dell’informazione da un insider primario a un insider secondario perché quest’ultimo possa rispondere di abuso di informazioni privilegiate: quello che è indispensabile è la prova, da parte della Consob, della conoscenza / conoscibilità della natura privilegiata dell’informazione che viene poi sfruttata per compiere operazioni sui mercati.

La tesi è ampiamente condivisa in giurisprudenza ([3]) ed è coerente con la fattispecie di illecito amministrativo delineata dal legislatore comunitario (e ripresa da quello italiano), imperniata sul possesso dell’informazione privilegiata e sul suo utilizzo. È quindi corretto che l’onere probatorio copra solo questi aspetti, unici elementi costitutivi della fattispecie.

Tuttavia, si tratta di una precisazione dal trascurabile impatto pratico.

Infatti, la Consob deve comunque dimostrare il possesso, da parte dell’incolpato, di un’informazione privilegiata, ovvero un’informazione che sia, inter alia, precisa e non pubblicamente disponibile. Se il presunto reo non è un soggetto che istituzionalmente o in ragione della sua professione può avere un facile accesso a notizie riservate dell’emittente (come un suo amministratore o sindaco, o un avvocato o un commercialista che assiste la società nelle operazioni straordinarie), tanto da non essere iscritto nella c.d. insider list, è naturale che gli sforzi probatori debbano coprire anche l’origine del possesso dell’informazione.

La notizia altro non è, in effetti, che la conoscenza di un evento o di una circostanza, che se non è acquisita per testimonianza diretta è necessariamente appresa da una fonte esterna, in tutto o in parte. Escludendo casi di scuola (come per esempio il ritrovamento fortuito di un documento riservato) e l’ipotesi delpuzzle informativo composto dal reo unendo frammenti di notizie secondarie, la fonte esterna altro non sarà che un altro soggetto. E la dimostrazione della conoscenza dell’informazione privilegiata finirà per riguardare anche la catena, più o meno lunga, che lega l’origine dell’informazione con l’utilizzatore.

Del resto, è sufficiente leggere le motivazioni dei provvedimenti sanzionatori della Consob e delle sentenze in materia di insider trading per avvedersi che l’Autorità amministrativa si affanna sempre nel tentativo di accertare l’osmosi informativa tra più soggetti, fino ad arrivare a colui che effettua l’acquisto sul mercato.

Non sfugge alla regola anche la pronuncia della Corte d’Appello di Milano, oggetto di queste nostre brevi note; per dimostrare il possesso dell’informazione privilegiata da parte del ricorrente, la Corte ambrosiana, al di là delle enunciazioni di principio, è costretta infatti a ricostruire con estrema precisione i contatti che il ricorrente aveva avuto nei giorni prima dell’acquisto incriminato con un altro soggetto e, ancora, la contiguità di quest’ultimo con altri due soggetti che erano certamente a conoscenza dell’imminente operazione di acquisizione di Italcementi.

Infine, sempre in tema di obblighi probatori da parte della Consob, la Corte d’Appello si sofferma su quella che può essere considerata la prova-principe in ogni procedimento sanzionatorio in tema di abuso di informazioni privilegiate: la prova per presunzioni, di cui all’art. 2727 c.c., ossia “le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato”. Presunzioni che, a mente dell’art. 2729 c.c., devono essere precise, gravi e concordanti.

Infatti, le condotte di insider trading sono notoriamente ardue da dimostrare, per il lasso notevole di tempo che intercorre tra il loro compimento e la loro scoperta, per la natura impersonale delle negoziazioni (la cui paternità è spesso celata con interposizioni di persone non riconducibili all’insider) e soprattutto per la difficoltà intrinseca di ottenere prove tangibili degli scambi di notizie riservate.

Pretendere la prova diretta dei fatti contestati si risolverebbe in effetti nella certezza dell’impunità per gli insider un poco accorti.

La dimostrazione di cui è onerata la Consob copre infatti non solo fatti materiali (come l’acquisto degli strumenti finanziari), che lasciano tracce inequivocabili (gli ordini impartiti agli intermediari negoziatori, per esempio), ma anche fatti appartenenti alla sfera psicologica, come conoscenze, pensieri ed intenzioni che, anche se talvolta sono espressi in parole, non sono registrati e documentabili.

Si pensi alla trasmissione dell’informazione riservata al presunto insider: la Consob non ha a disposizione intercettazioni telefoniche o ambientali che attestino il contenuto dei contatti intercorsi e spesso tale passaggio avviene in assenza di testimoni, proprio per la natura confidenziale della notizia.

La conoscenza dell’informazione privilegiata viene così tratta sulla base di un ragionamento presuntivo, fondato su un giudizio di probabilità (“id quod plerumque accidit”). Vengono valorizzati una pluralità di indizi, come l’esistenza di contatti tra soggetti a conoscenza dell’informazione riservata e l’incolpato attestati da tabulati telefonici o da ammissioni rese durante le indagini, la prossimità temporale tra i contatti e l’acquisto dei titoli, lo scostamento rispetto alle abitudini di investimento del presunto reo.

L’evento (ossia lo sfruttamento dell’informazione privilegiata) deve essere però l’unica conseguenza seriamente plausibile dei fatti conosciuti che sono alla base del ragionamento presuntivo. Non devono quindi esistere spiegazioni alternative che abbiano la stessa dignità causale dell’ipotesi accusatoria: così, tipicamente, motivazioni differenti alla base dei contatti avuti dall’incolpato con gli insider primari, coerenza dell’investimento contestato con precedenti operazioni effettuate, etc.

Da un estremo (la difficoltà di provare l’illecito da parte della Consob) si può però facilmente passare all’altro (la difficoltà di discolparsi da parte dei presunti insider). Diventa infatti molto insidiosa la posizione dell’accusato di insider trading che, per il solo fatto di avere avuto contatti con persone a conoscenza di informazioni riservate, si trova di fronte a una sorta di presunzione di colpevolezza, molto difficile da scardinare ([4]).

Nel caso di specie, la Corte d’Appello ha ritenuto corretto e solido il ragionamento presuntivo utilizzato dalla Consob e non meritevoli di accoglimento le obiezioni del ricorrente, ritenendo improbabili le ipotesi ricostruttive alternative offerte da quest’ultimo. Per tale ragione, ha respinto nel merito il ricorso.

3. Il quantum della sanzione: una soluzione che lascia perplessi

Merita particolare attenzione la parte della sentenza in cui la Corte d’Appello di Milano si dedica alla quantificazione della sanzione.

Si ricorderà che la Consob aveva comminato una pena pecuniaria di euro 200.000, a fronte di una cornice edittale compresa tra euro 100.000 ed euro 15 milioni, prevista dall’art. 187 bis del TUF all’epoca vigente, come modificato dalla l. 28 dicembre 2005, n. 262 (c.d. “legge risparmio”), che aveva sancito la quintuplicazione dei limiti edittali originari.

Dopo il provvedimento dell’Autorità, la norma sanzionatoria è stata però interessata da due modifiche normative e da un intervento della Corte Costituzionale.

Brevemente: l’art. 6, comma 3, del d.lgs. 12 maggio 2015, n. 72, ha dichiarato l’inapplicabilità della quintuplicazione delle sanzioni a suo tempo prevista dalla legge risparmio, ripristinando così i limiti edittali previsti originariamente (pena pecuniaria compresa tra ventimila euro e tre milioni di euro).

Tuttavia, il secondo comma della stessa norma ha previsto l’applicabilità della “dequintuplicazione” alle sole violazioni commesse dopo l’entrata in vigore dei provvedimenti attuativi adottati da Consob, in aderenza al principio del tempus regit actum piuttosto che a quello del favor rei.

Su sollecitazione proprio della Corte d’Appello di Milano, la Corte Costituzionale, con la sentenza del 20 febbraio 2019, n. 63, ha però dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 6, comma 2, del d.lgs. 72/2015, nella parte in cui escludeva la retroattività delle modifiche apportate dal comma 3 della medesima disposizione alle sanzioni amministrative previste dall’art. 187 bis del TUF.

Infine, l’art. 187 bis del TUF è stato ulteriormente modificato con il d.lgs. 10 agosto 2018, n. 107 e prevede oggi una forbice edittale compresa tra euro ventimila (il limite minimo non è dunque cambiato) ed euro cinque milioni: considerato l’inasprimento rispetto al regime previgente, la modifica non è applicabile alle violazioni commesse in precedenza.

Per effetto dell’intervento della Consulta, troverà quindi applicazione, con riguardo agli illeciti amministrativi di insider trading commessi tra il 2005 (anno di entrata in vigore dell’art. 187 bis del TUF) e il 2018 (anno di entrata in vigore del d.lgs. 107/2018) la sanzione pecuniaria originariamente prevista dall’art. 187 bis del TUF, depurata della quintuplicazione operata dalla legge risparmio: sanzione ricompresa tra i limiti edittali di ventimila euro e tre milioni di euro.

Il caso oggetto delle presenti note è stato appunto commesso in tale finestra temporale.

La Corte d’Appello di Milano, pertanto, era chiamata a un ricalcolo della sanzione applicata dalla Consob. Se è vero, infatti, che la sanzione di euro 200.000 comminata dall’Autorità è compatibile anche con la cornice edittale dell’art. 187 bis del TUF come rinveniente dall’arresto del Giudice delle leggi, è indubitabile che la Consob avesse modulato la pena pecuniaria tenendo conto della vicinanza con i limiti edittali all’epoca esistenti ([5]).

In particolare, l’Autorità aveva applicato una sanzione pari al doppio del limite minimo e a un settantacinquesimo del limite massimo: valutando quindi in modo abbastanza benevolo il comportamento del ricorrente.

La stessa sanzione, iscritta nella nuova forcella, perde tale connotato. Infatti, euro 200.000 equivalgono a dieci volte il limite minimo e a un quindicesimo del limite massimo.

Ci si sarebbe quindi aspettata una rimodulazione della sanzione in misura proporzionale, con applicazione di una pena pecuniaria pari a euro 40.000 (40.000 : 20.000 = 200.000 : 100.000).

E invece la Corte d’Appello ha ritenuto più equa una sanzione di euro 100.000, valutando l’entità del profitto conseguito e la natura dolosa dell’elemento soggettivo. Ad avviso del Giudice, “la necessità di rideterminazione della sanzione non si traduce nell’applicazione di un’automatica riduzione percentualistica delle sanzioni inflitte in base al precedente assetto sanzionatorio. Il giudice del merito è, infatti, rimesso nella piena facoltà di rideterminare la sanzione, con l’obbligo di irrogarla nell’ambito della nuova cornice edittale e secondo i criteri previsti dall’art. 133 c.p., in modo che sia proporzionata alla gravità dell’illecito, nonché dell’intensità dell’elemento soggettivo”.

La soluzione adottata, e le motivazioni che la sorreggono, lasciano perplessi.

Infatti, nell’esercizio della sua “facoltà di rideterminare la sanzione” la Corte d’Appello è pur sempre soggetta al principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato e al disposto particolare dell’art. 187 septies del TUF, che è rimasto inalterato negli ultimi anni.

La norma da ultimo richiamata, al comma 6-ter, dispone che “con la sentenza la corte d’appello può rigettare l’opposizione… o accoglierla, annullando in tutto o in parte il provvedimento o riducendo l’ammontare o la durata della sanzione”.

Ne deriva che al Giudice del merito è sottratto il potere di applicare una sanzione di ammontare maggiore rispetto a quella inflitta dalla Consob; va da sé che il legislatore, nel parlare di ammontare e di durata, ha inteso evidentemente impedire alla Corte d’Appello di rideterminare la sanzione in maniera più gravosa per il ricorrente ([6]). Ed è sul concetto di più gravoso che occorre ragionare.

Se infatti la valutazione della Consob era stata sufficientemente indulgente, il Giudice non potrà, compiendo una nuova valutazione della gravità dei fatti, ritenere più congrua una sanzione diversa più afflittiva per il reo. Non potrà, per esempio, ritenere che si debba attribuire maggior peso all’elemento soggettivo, o considerare con più rigore l’entità del profitto conseguito, o valorizzare alcuno degli elementi che concorrono alla determinazione della pena in maniera deteriore per l’incolpato.

È però proprio questo il ragionamento della Corte d’Appello di Milano, che ha riesaminato le risultanze emerse dalle indagini della Consob e ha compiuto una nuova valutazione, più severa (da quanto si legge nella sentenza), degli elementi del profitto e dell’elemento soggettivo: così giustificando una maggiore distanza della pena dal minimo edittale rispetto alla determinazione effettuata dall’Autorità di vigilanza.

Il mero artificio matematico per cui anche la nuova sanzione si colloca all’interno dei limiti edittali come risultanti all’esito dell’intervento della Consulta ed è comunque più bassa rispetto a quella oggetto dell’opposizione non sembra un argomento decisivo: la Consob aveva valutato il ricorrente meritevole di una sanzione vicina al minimo edittale e tale considerazione avrebbe dovuto rappresentare un limite invalicabile per la Corte d’Appello.

Cambiato il quadro sanzionatorio, la sanzione comminata con la sentenza in commento è più gravosa per l’incolpato rispetto a quella originaria: in violazione, ad avviso di chi scrive, dell’art. 187 septies del TUF e dei principi generali del processo.

 

[1] Per la precisione: ammessi, o per i quali è stata presentata una richiesta di ammissione, alla negoziazione su un mercato regolamentato o un sistema multilaterale di negoziazione o negoziati su un sistema organizzato di negoziazione (cfr. art. 2 del MAR).

[2] Si vedano, ad esempio, gli artt. 190.4 e 194-ter del TUF che, nel prevedere, rispettivamente, le sanzioni amministrative per le violazioni al Regolamento (UE) n. 600/2014 del Parlamento Europeo e del Consiglio (di seguito, il “MiFIR”) e del Regolamento (UE) n. 575/2013 del Parlamento Europeo e del Consiglio (di seguito, il “CRR”), non descrivono le condotte censurate ma si limitano ad indicare le disposizioni del MiFIR e del CRR la cui inosservanza fa scaturire la responsabilità.

[3] Particolarmente chiara in questo senso Cass. 12 maggio 2020, n. 8785: “ai fini della configurabilità dell’illecito diinsidertradingsecondario, non assumono alcuna decisività le modalità attraverso cui l’informazioneprivilegiatasia stata acquisita dall’accipiens, né occorre provare la consapevole comunicazione dell’informazione da chi originariamente l’abbia detenuta (cfr. ancheCass. pen., Sez. 5, 20/01/2010 – dep. 03/03/2010, n. 8588). La sanzione amministrativa stabilita per la condotta di trading del cosiddettoinsidersecondarionon postula, pertanto, né che sia accertata la divulgazione imputabile al primaryinsider, né che si dia prova di un’appropriazione dell’informazione da parte del secondaryinsider, incentrando la propria operatività, piuttosto, sulla conoscenza (o, meglio,conoscibilità) dellanaturaprivilegiatadell’informazione stessa in possesso dell’agente. Basta, dunque, per la sanzionabilità ai sensi dell’art. 187-bis, comma 4, TUF, la dimostrazione della compravendita di titoli da parte di chi sia a conoscenza della informazioneprivilegiataper ricavarne la necessaria prova del possesso, prescindente dalla verifica su come quell’informazione sia stata ottenuta. La fattispecie sanzionatrice suppone, in sostanza, che sia accertato non un collegamento causale orientato tra l’informazione posseduta e l’attività trasmissiva di un informatore qualificato, quanto il nesso eziologico tra il possesso dell’informazione e l’utilizzo che se ne faccia compiendo operazioni su strumenti finanziari”. Venendo meno la necessità di un trasferimento dell’informazione perché si realizzi l’illecito, il presupposto per la responsabilità dell’insider secondario finisce per coincidere con quello dell’insider primario, anch’esso sanzionabile ai sensi dell’art. 187-bis del TUF..

[4] Si veda, ad esempio, il caso deciso dalla Corte di Appello di Torino con sentenza del 4 luglio 2018, n. 1276, dove la Consob, ad esito del procedimento amministrativo, aveva sanzionato il presunto responsabile di comunicazione illecita di informazione privilegiata per il solo fatto che dei soggetti, a seguito di un fugace incontro, avessero investito in titoli di una società di cui era consigliere di amministrazione. La Corte d’Appello di Torino ha ribaltato la decisione dell’Autorità di vigilanza, perché se “non vi è dubbio sulla possibilità di utilizzare il ragionamento presuntivo nell’accertamento degli illeciti di cui si discute”, tuttavia “gli elementi indiziari da valutare” devono permettere “una ricostruzione univoca dell’occorso”, che consenta “di ritenere accertati i profili soggettivi degli illeciti contestati in termini di consequenzialità sufficiente, anche alla stregua di canoni di ragionevole probabilità”. Significativa in tema di prova dell’illecito è inoltre la decisione resa dalla Corte di Appello di Genova con sentenza del 31 gennaio 2019, n. 150, che, dopo aver riconosciuto la possibilità di ricorrere alle presunzioni semplici, ha aggiunto che “la relazione tra il fatto noto e quello ignoto non deve avere carattere di necessità, essendo sufficiente che l’esistenza di quest’ultimo derivi dal primo come conseguenza ragionevolmente possibile e verosimile, secondo un criterio di normalità”. In questo modo, l’opponente è onerato del compito di dimostrare la fallacia della ricostruzione dell’Autorità di Vigilanza, fornendo possibili letture alternative dei fatti che hanno portato all’accertamento della violazione.

[5] L’art. 194-bis del TUF, con una disposizione dal contenuto analogo all’art. 133 c.p. e all’art. 11 della L. 24 novembre 1981, n. 689, limita la discrezionalità dell’Autorità di Vigilanza nella determinazione del quantum sanzionatorio obbligandola ad avere riguardo nella determinazione della pena a una serie di circostanze quali la gravità e la durata della violazione, il grado di responsabilità, la capacità finanziaria del responsabile, l’entità del vantaggio ottenuto, i pregiudizi cagionati a terzi, il livello di cooperazione del responsabile nell’ambito del procedimento, la recidività e le potenziali conseguenze sistemiche della violazione.

[6] A conferma di ciò, si veda V. Calandra Buonaura, Commentario breve al Testo Unico della Finanza, Vicenza, 2020, 1296, secondo il giudizio di opposizione può avere solo tre possibili esiti: “la Corte d’Appello può rigettare l’opposizione dell’incolpato, accoglierla totalmente (annullando tout court la sanzione irrogata) ovvero accoglierla parzialmente (annullando il provvedimento sanzionatorio in parte qua, riducendo l’entità o la durata della sanzione)”. Tra gli scenari è dunque escluso l’inasprimento della pena inflitta dall’Autorità di Vigilanza.

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