La qualificazione giuridica delle valute virtuali rappresenta una tematica molto complessa, ad oggi non ancora definitivamente risolta mediante una soluzione giuridica univoca. In proposito, innumerevoli sono stati e sono tutt’oggi i tentativi di trovare una definizione puntuale di valute virtuali[1], per ora mai sfociati in una soluzione capace di cogliere il fenomeno nella sua interezza, complice anche la vocazione sovranazionale e la rapida mutevolezza di questo mercato. Il legislatore, sia italiano sia europeo, si è limitato ad intercettare il fenomeno, inquadrando, di volta in volta, a seconda del settore che si intende regolare, gli aspetti maggiormente rilevanti. In proposito, merita senz’altro menzione la definizione generica ed onnicomprensiva di cripto-valuta fornita dal legislatore europeo – e fatta propria dal legislatore italiano – in materia di antiriciclaggio, finalizzata a rendere la relativa disciplina più pervasiva ed efficace, combattendo l’anonimato delle transazioni[2].
A riconferma dell’incertezza definitoria che caratterizza il fenomeno delle valute virtuali, si pone la sentenza n. 01077/2020 del 27 gennaio 2020, con la quale il TAR del Lazio ha rigettato il ricorso proposto da due associazioni di categoria, relativo all’estensione – da parte dell’Agenzia delle Entrate – degli obblighi rientranti nel c.d. “monitoraggio fiscale”, introdotto attraverso la Direttiva 88/361/CEE e recepito in Italia con il d.l. 28 giugno 1990, n. 167, anche alle “valute virtuali”. La vicenda trae origine dalla pubblicazione da parte dell’Agenzia delle Entrate, delle “Istruzioni per la compilazione del modello 2019 per la dichiarazione dei redditi delle persone fisiche”, con le quali è stato previsto l’obbligo di inserire all’interno del quadro RW del Modello Redditi delle persone Fisiche, accanto alla voce relativa ai “redditi finanziari di provenienza estera”, proprio le valute virtuali.
Tra i motivi addotti dai ricorrenti per l’annullamento degli atti impugnati rientra, inter alia, la contestazione delle predette “Istruzioni”, con le quali l’Agenzia delle Entrate avrebbe, de facto, ritenuto imponibili i proventi derivanti dalle valute virtuali, sulla base dell’erronea equiparazione delle stesse agli investimenti in attività finanziarie estere e della loro consequenziale assimilazione a redditi di natura finanziaria.
Senza soffermarsi sulle tematiche strettamente fiscali ripercorse nella sentenza, vale la pena analizzare, nel proseguo, le considerazioni del giudice amministrativo relative alla natura e alla qualificazione delle valute virtuali. Rileva anzitutto sottolineare come il giudice amministrativo, in primo luogo, prenda atto del fatto che, a supporto dell’elaborazione giurisprudenziale – che non è ancora pervenuta ad un quadro consolidato ed univoco – si siano proposte, in dottrina, diverse soluzioni volte ad individuare la natura giuridica delle “criptovalute”. L’organo giudicante ripercorre, quindi, alcune impostazioni dottrinali riferite alle monete virtuali: richiama, da un lato, una prima tesi che riconduce il fenomeno delle valute virtuali al novero dei “beni immateriali” ex art. 810 cod. civ., in quanto tali suscettibili di formare oggetto di diritti reali ed obbligatori[3]. Prosegue esponendo una seconda tesi che assimila l’impiego delle valute virtuali all’impiego degli strumenti finanziari[4]. Tale ultima qualificazione, appare funzionale a valorizzare la componente di “riserva di valore” che, almeno in parte, può caratterizzare le “cripto-valute” e che consente di attribuire a queste ultime una finalità d’investimento[5]; impostazione che, peraltro, si pone anche a protezione dei consumatori e dell’integrità dei mercati[6]. A supporto di tale tesi vi è, altresì, la circostanza che la nozione di “prodotto finanziario” – nella quale rientrano proprio gli strumenti finanziari – appare astrattamente capace di abbracciare ogni strumento idoneo alla raccolta del risparmio, comunque denominato o rappresentato, purché rappresentativo di un impiego di capitale[7]. A tal proposito, non sembra rilevare l’art. 1, co. 4, del TUF, secondo cui “i mezzi di pagamento non sono strumenti finanziari”, il quale osterebbe alla sola equiparazione generale ed astratta delle criptovalute agli strumenti finanziari, ma non alla riconduzione a tale nozione di quelle operazioni che risultano connotate da utilizzo di capitale, assunzione di un rischio connesso al suo impiego ed aspettativa di un rendimento di natura finanziaria[8].
Il giudice amministrativo prosegue la propria analisi richiamando la citata normativa antiriciclaggio, che propone una definizione di valuta virtuale intesa come “mezzo di scambio”[9]. Inoltre, le modifiche recentemente apportate (a cura del d.lgs. n. 125/2019) al decreto antiriciclaggio hanno introdotto la definizione di “mezzi di pagamento”[10] e la definizione di “prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale”[11], contribuendo così a definire un inquadramento formale delle operazioni effettuate mediante l’utilizzo di valute virtuali, almeno ai fini del monitoraggio e della prevenzione del riciclaggio. Tale regime non può essere ignorato, in quanto, a parere del giudice amministrativo, comporta evidenti ricadute anche in termini di trattamento fiscale. La nozione di valuta virtuale concepita nell’ambito della normativa antiriciclaggio, infatti, non si limita a qualificare la stessa quale “mezzo di scambio”, ma contempla espressamente la possibilità che tramite il suo impiego si possano effettuare operazioni di “acquisto beni e servizi”, nonché operazioni con “finalità di investimento”, recependo così l’intrinseca natura flessibile del fenomeno delle “rappresentazioni digitali di valore”che consente a queste ultime di veicolare diverse tipologie di operazioni di scambio.
Alla luce di quanto sopra esposto, il giudice amministrativo conclude rigettando il ricorso e riconducendo l’impiego delle valute virtuali alle forme di tassazione esistenti. Ciò, basando la propria decisione su una definizione di valuta virtuale di natura meramente “funzionale” che pone l’attenzione sulla portata del loro utilizzo piuttosto che sulla natura delle stesse.
[1] In questo senso si veda S. Capaccioli, Criptovalute e bitcoin: un’analisi giuridica, Giuffré, Milano, 2015, pp. 6-7., secondo il quale le criptovalute non cadono in un vuoto giudico, applicandosi ad esse le normali regole giuridiche. L’Autore contesta anche la possibilità di introdurre una legge speciale per i bitcoin, attesa la natura “anarchica, decentralizzata e polimorfa di questa nuova tecnologia informatica, nata per esistere senza una regolamentazione specifica”.
[2] L’art. 1, co. 2, lett. qq) del d.lgs. 231/2007, così come da ultimo modificato dal d.lgs. 125/2019, definisce la valuta virtuale come: “la rappresentazione digitale di valore, non emessa, né garantita da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente”.
[3] Cfr., Trib. Firenze, Sez. Fall., sent. n. 18 del 21 gennaio 2019.
[4] Cfr., Trib. Civ. Verona, sent. n. 195 del 24 gennaio 2017.
[5] Si veda, in tal senso, la definizione di valuta virtuale dettata in materia antiriciclaggio dall’art. 1, co. 2, lett. qq) del d.lgs. 231/2007.
[6] In questo senso, vale la pena evidenziare che la menzionata pronuncia del Tribunale di Verona (sent. n. 195 del 24 gennaio 2017) ha ritenuto applicabile alle fattispecie in esame il Codice del Consumo ed il regolamento CONSOB n. 18592 del 26 giugno 2013, dettato in materia di raccolta di capitali tramite portali on-line.
[7] L’art. 1, co. 1, lett. u) del d.lgs. n. 58/1998 – il Testo Unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria -, infatti, stabilisce che sono prodotti finanziari “gli strumenti finanziari e ogni altra forma di investimento di natura finanziaria […]”.
[8] In questo senso viene richiamato nella sentenza anche l’orientamento della CONSOB sotteso a più recenti delibere, evidenziate in dottrina, come la n. 19866/2017, avente ad oggetto la sospensione dell’attività pubblicitaria per l’acquisto di pacchetti di estrazione di criptovalute, oppure la n. 20207/2017, divieto dell’offerta di portafogli di investimento in cripto-monete e, infine, le delibere nn. 20720/2018 e 20742/2018, riguardanti l’ordine di porre termine alla violazione dell’art. 18 del TUF.
[9] Cfr. nota 2 che riporta la definizione di valuta virtuale dalla quale si evince che la stessa è “utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento”.
[10] Art. 1, co. 2, lett. s) del d.lgs. 231/2007, secondo il quale sono mezzi di pagamento “il denaro contante, gli assegni bancari e postali, gli assegni circolari e gli altri assegni a essi assimilabili o equiparabili, i vaglia postali, gli ordini di accreditamento o di pagamento, le carte di credito e le altre carte di pagamento, le polizze assicurative trasferibili, le polizze di pegno e ogni altro strumento a disposizione che permetta di trasferire, movimentare o acquisire, anche per via telematica, fondi, valori o disponibilità finanziarie”.
[11] Art. 1, co. 2, lett. ff) del d.lgs. 231/2001, secondo il quale è prestatore di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale “ogni persona fisica o giuridica che fornisce a terzi, a titolo professionale, servizi funzionali all’utilizzo, allo scambio, alla conservazione di valuta virtuale e alla loro conversione da ovvero in valute aventi corso legale”.