Può l’imprenditore che abbia fondato motivo di ritenere che taluno dei propri dipendenti abbia asportato e/o stia per sottrarre beni o merci dai magazzini dell’azienda installarvi strumenti di video sorveglianza per procurarsi la prova della condotta illecita di costoro, anche senza il previo accordo con le rappresentanze sindacali e/o l’autorizzazione dell’ispettorato del lavoro? La logica dovrebbe suggerire immediatamente una risposta affermativa: l’esigenza di tutelare il patrimonio aziendale di fronte al sospetto di illecite aggressioni da parte di dipendenti infedeli comporta la necessità di realizzare iniziative a sorpresa da parte del datore di lavoro, all’evidenza incompatibili con i tempi necessari a trovare l’intesa con le rappresentanze sindacali o ad ottenere l’autorizzazione dell’Ispettorato del Lavoro. Non sempre, purtroppo, la giurisprudenza ha fornito sul tema soluzioni in linea con la logica, ritenendo talvolta che anche in ipotesi (estreme) come questa il diritto alla privacy del lavoratore debba avere rilievo preminente e non possa soccombere di fronte alla pur legittima esigenza del datore di lavoro di tutelare il patrimonio aziendale da illecite aggressioni. Di qui talune (per la verità, isolate) pronunce, successive al c.d. “Jobs Act”, secondo le quali l’imprenditore che effettui videoriprese a fini difensivi (del patrimonio aziendale) nei locali dell’azienda in assenza del preventivo assenso sindacale non solo non potrà utilizzare le immagini captate per finalità probatorie nell’eventuale processo a carico del dipendente infedele, ma potrà essere financo sanzionato penalmente per la violazione dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori.
Uno sguardo alle pronunce rese in materia dalla Corte di Cassazione nell’ultimo decennio documenta come il tema delle videoriprese all’interno dei locali dell’azienda per tutelare l’impresa da indebite aggressioni al proprio patrimonio da parte di dipendenti infedeli sia stato ampiamente dibattuto anche (e specie) sul fronte penalistico, e come la posizione assunta dal Giudice di legittimità non sia sempre stata lineare e priva di contraddizioni nel tentativo di fornire una soluzione al delicato bilanciamento tra il diritto alla riservatezza in capo al lavoratore e quello dell’imprenditore alla tutela dell’integrità del patrimonio societario.
Prima della riforma introdotta con la legge 81/2015 (il c.d. “Jobs Act”), la norma all’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori prevedeva che gli impianti audiovisivi dovessero essere installati all’interno dei locali dell’impresa previo accordo stipulato con le rappresentanze sindacali, laddove fossero richiesti da esigenze organizzative, produttive e per la sicurezza del lavoro. Nessun riferimento conteneva invece la predetta norma all’installazione di sistemi di videosorveglianza per esigenze diverse da queste ultime, quali – ad esempio – la tutela del patrimonio aziendale. La giurisprudenza si orientò così a sostenere che i c.d. “controlli difensivi” (volti appunto ad accertare condotte illecite dei lavoratori e non semplici inadempimenti della prestazione lavorativa) si ponessero al di fuori dell’ambito applicativo delle disposizioni dello Statuto dei Lavoratori e che, pertanto, le videoriprese all’interno dei luoghi di lavoro effettuate con tali finalità potessero essere legittimamente realizzate dal datore di lavoro anche in assenza di un accordo collettivo con le rappresentanze sindacali e/o dell’autorizzazione dell’Ispettorato del Lavoro (si vedano, a titolo esemplificativo, Cassazione penale sez. V, 12/07/2011, n.34842; Cassazione penale sez. V, 18/03/2010, n.20722; Cassazione penale sez. II, 16/01/2015, n.2890).
Una radicale inversione di rotta nell’insegnamento della Suprema Corte in materia si ebbe con l’entrata in vigore del Jobs Act e la modifica dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, prevedendo espressamente la nuova formulazione della predetta norma che anche l’installazione delle telecamere finalizzata alla tutela del patrimonio aziendale dovesse essere subordinata all’accordo collettivo stipulato con le rappresentanze sindacali o all’autorizzazione dell’Ispettorato del Lavoro. A fronte di tale novità legislativa, il Giudice di legittimità non poté che prenderne atto, ed affermare la prevalenza del diritto alla riservatezza del lavoratore rispetto al diritto alla tutela del patrimonio aziendale da parte del datore di lavoro, statuendo che i controlli difensivi all’interno dei luoghi di lavoro fossero legittimi (e non penalmente sanzionabili) solo a condizione che il datore di lavoro si fosse procurato il consenso delle rappresentanze sindacali o l’autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro. Espressiva di tale nuovo orientamento nella giurisprudenza di legittimità è la sentenza n. 4564 pronunciata il 10/10/2017 dalla III sezione penale della Corte di Cassazione, che ritenne illegittima e penalmente sanzionabile l’installazione di telecamere all’interno dei locali dell’impresa, senza accordo con i sindacati e senza previa autorizzazione dell’I.L., a seguito di accertata sottrazione di documentazione sensibile da parte di taluni dipendenti dell’azienda. Per il Giudice di legittimità, dunque, alla stregua dell’orientamento ora messo in luce, l’imprenditore che abbia il fondato sospetto che all’interno della propria azienda vengano poste in essere illecite condotte ai danni dell’impresa da parte di uno o più dipendenti, non solo non potrà utilizzare per fini probatori le riprese operate con i sistemi di videosorveglianza interni, ma, ove privo delle autorizzazioni richieste dall’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, rischia financo penalmente sanzionato.
L’incongruità di simile risultato è sotto gli occhi di tutti, e non necessità di particolari commenti, ed è per tale ragione che va salutata con favore la recentissima, “rivoluzionaria” sentenza n. 3255 della (stessa) III Sezione Penale della Suprema Corte pubblicata il 17/3/2021. Vi è da augurarsi che il principio di diritto ivi enunciato venga confermato dalle pronunce che di qui in avanti seguiranno in materia. In breve, secondo tale ultima pronuncia, anche alla luce del nuovo disposto normativo dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, così come novellato dal Jobs Act, l’installazione di strumenti di videosorveglianza all’interno dell’azienda deve ritenersi legittimo ove lo stesso sia realizzato dal datore di lavoro al fine di proteggere il patrimonio aziendale, a fronte di ipotizzate gravi condotte illecite da parte di alcuno dei dipendenti, anche in assenza di accordo con le rappresentanze sindacali. Ne consegue che anche il relativo materiale (le riprese effettuate con la videosorveglianza) possa essere legittimamente utilizzato nel processo penale eventualmente instauratosi a carico dell’autore delle condotte illecite ai danni dell’azienda.La pronuncia in discorso, in sostanza, innovando rispetto al precedente orientamento, esclude che – ove la videosorveglianza all’interno dei locali della società sia strumentale a finalità di tutela del patrimonio societario – il datore di lavoro incorra, pur in assenza di accordo con le rappresentanze sindacali, nella violazione, penalmente sanzionata, della norma di cui all’art. 4 L. 20/5/1970 n. 300. La Suprema Corte ha ritenuto – invero – che la successione di discipline normative non abbia apportato variazioni significative alla fattispecie incriminatrice, in quanto la norma, sia nella vecchia che nella nuova formulazione, prevede la preventiva autorizzazione dell’Ispettorato del Lavoro o l’accordo con le rappresentanze sindacali, solo quando dall’attività di video sorveglianza derivi “anche” la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei dipendenti e della loro prestazione lavorativa. Ove le riprese interne non siano finalizzate a tale attività di controllo ma alla raccolta di prove dell’illecita condotta di taluno dei dipendenti ai danni dell’impresa non sono richieste le autorizzazioni previste dall’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori.
È evidente che la recente pronuncia della Suprema Corte non legittimi l’utilizzo indiscriminato dei sistemi di videosorveglianza all’interno dei locali dell’impresa, ma laddove simile attività non volga al controllo della prestazione lavorativa del lavoratore ma all’accertamento di condotte infedeli ed illecite non sarà necessario alcun previo accordo con la rappresentanza sindacale e/o alcuna previa autorizzazione con l’Ispettorato del Lavoro. Viene così proposta una soluzione finalmente ragionevole ed equilibrata ad un annoso e sin qui irrisolto problema. La speranza degli operatori economici è che simile orientamento venga d’ora in avanti confermato sino a diventare norma del diritto vivente.