1.- Nel fissare il tetto massimo del «prezzo» dovuto dal debitore a fronte dei mutui coperti dal Fondo per le PMI (crediti di fascia più bassa e garantiti per il 100%), il decreto liquidità ha prescritto l’applicazione di un «tasso di interesse che tiene conto della sola copertura dei soli costi di istruttoria e di gestione dell’operazione finanziaria e, comunque, non superiore al tasso di Rendistato con durata residua da 4 anni e 7 mesi a 6 anni e 6 mesi, maggiorato della differenza tra il CDS banche a 5 anni e il CDS ITA a 5 anni, come definiti dall’accordo quadro per l’anticipo finanziario a garanza pensionistica di cui all’art. 1, commi da 166 a 178 della legge 11 dicembre 2016, n. 231, maggiorato dello 0,20 per cento» (art. 13, comma 1, lett. m.).
Data una simile articolazione, la formula è stata ovviamente giudicata «complicatissima e involuta», «oggettivamente comprensibile solo in ambienti fortemente iniziatici e invece muta per gli altri»[1]. Si è anche aggiunto che, a ben vedere, la formula risulta di traduzione pratica quasi impossibile – ovvero vaga (specie in punto di parametro spread Cds) -, astratta dal parametro dei costi di istruttoria e gestione, a cui pure la legge la collega, nonché dalla concreta durata dei crediti a cui si riferisce. Nei fatti, la formula è apparsa un riuscito esercizio di non competenza del legislatore (inteso, per l’appunto, nei termini di persona fisica e redattore tecnico della frase normativa).
Quest’ultimo, peraltro, ha un poco corretto il tiro in sede di conversione in legge del decreto, adottando una diversa formula, che – tenuto fermo il necessario riscontro ai soli costi di istruttoria e di gestione – è andata a fissare il cap del prezzo dei crediti in discorso sul «tasso del rendimento medio dei titoli pubblici (Rendistato) con durata analoga al finanziamento, maggiorato dello 0,20 per cento».
La nuova formula è più semplice – non v’è dubbio -, sia in punto di comprensione, che in punto di calcolo. Risulta anche coerente con la durata temporale dei crediti a cui si applica. Resterebbe da capire, tuttavia, che nesso possa correre tra il recupero delle «sole» attività di istruttoria e gestione e un tasso di interessi, poi assunto in termini di cap: e prima di ogni altra cosa capire, anzi, la ragione per cui è stata adottata, per un riguardo del genere, la forma tecnica del «tasso» (e non già, per dire, quella della commissione mensile)[2].
2.- Sotto il profilo immediatamente operativo, comunque, il transito normativo appena richiamato non pone, all’evidenza, nessun problema per i mutui stipulati dopo l’entrata in vigore della legge di conversione, che risultano integralmente soggetti al regime introdotto dalla legge.
Nemmeno problemi possono presentarsi per i contratti conclusi prima della conversione, in relazione al periodo successivo a quest’evento. Un diverso orientamento significherebbe – pure a volere andare al di là di ogni rilievo sulla manifesta, quanto ingiustificata, disparità di trattamento che si verrebbe altrimenti a creare – assoggettare queste operazioni a una disciplina «non esistente» (non già perché semplicemente abrogata, ma proprio) perché non convertita[3]: a una regola, dunque, introdotta (solo) per motivi di urgente necessità dall’esecutivo e poi senz’altro respinta dal legislativo, una volta messo nella condizione di (potere) intervenire.
Maggiore attenzione – e più ampia trattazione – sembra occorrere, peraltro, per la frazione temporale di questi contratti che si è svolta prima dell’entrata in vigore della legge di conversione.
Come si vede, il punto concerne un’estensione temporale contenuta e per crediti di modesto ammontare: di circa due mesi, al massimo e per capitale non superiore ai 25 mila euro (vista la loro anteriorità alla conversione). Non per questo, tuttavia, la questione va definita come modesta. Per constatarlo, basta osservare la cosa nella prospettiva dell’attività di impresa e annotare che, secondo i dati che vengono riportati, il tasso massimo tratto dalla conversione è più basso di mezzo punto percentuale (almeno) di quello raggiungibile con la formula del decreto[4].
3.- Per la verità, una simile questione non dovrebbe, secondo il mio avviso, trovare uno spazio particolare per porsi in termini reali.
Come appena rilevato, il potere dell’esecutivo di esercitare la funzione legislativa (senza previa delega delle Camere) è istituzionalmente precario e per definizione «provvisorio» (art. 77, comma 2, Cost.): comunque subordinato alla condizione (risolutiva) della conversione da parte del legislativo. Che nella specie, per l’appunto, non c’è stata. Di conseguenza, la norma – fissata in decreto dall’esecutivo, ma non convertita dal legislativo – si manifesta, secondo quanto è consentaneo alla natura del diritto, come regola non mai esistita[5].
In questa prospettiva, sembra anzi da sottolineare come nel caso in esame le Camere non abbiano negato la sussistenza di un problema di urgente necessità o l’opportunità dell’impostazione adottata dall’esecutivo per risolverlo, così respingendo il decreto in toto o in via di amputazione di sue parti effettivamente sostantive. Nei fatti, hanno respinto solo puntuali regole di disciplina, quale appunto quella del «prezzo del credito garantito» che in concreto era stata scelta dall’esecutivo. Si tratta, in definitiva, di un rifiuto specificamente targato.
4.- Ciò fermato, va peraltro riconosciuto che – nell’affrontare il tema generale delle norme poste in decreto legge, ma non convertite dal legislativo – la Corte di Cassazione delinea un percorso argomentativo diverso da quello appena accennato.
In quest’ambito è infatti emerso un orientamento che ritiene si debba distinguere a seconda si tratti di «emendamenti soppressivi o sostitutivi» ed emendamenti invece solo «modificativi»: nel primo caso, la norma del legislativo prende tratto dal tempo del decreto; nel secondo, la norma scritta nel decreto è invece assunta come vigente sino al tempo della pubblicazione della legge di conversione.
Occorre, dunque, esaminare il problema portato dai testi dell’art. 13 lett. m. anche da questa distinta prospettiva. E, per farlo, appare opportuno passare a meglio precisare i termini di questo orientamento: senza fermarsi, cioè, a formule che potrebbero anche rivelarsi delle semplici etichette. In effetti, la pronuncia di Cass., 10 maggio 2016, n. 9386 – da ritenere senz’altro centrale nel contesto dell’orientamento in discorso[6] -, è venuta, nello svolgimento della sua motivazione, a esprimere la concreta serie di regole che si viene a riferire.
E’ dunque da stimare modificativa – così si puntualizza – la norma di conversione che «aggiunge o sottrae soltanto alcuni elementi costitutivi», mentre è sostitutiva quella che viene a governare la fattispecie secondo un criterio «diverso». L’applicazione della detta regola suppone la verifica che la legge di conversione non adotti un «regolamento implicito» per la materia che risulti di specifico interesse. La soluzione adottata deve comunque non sollevare problemi di compatibilità costituzionale.
5.1.- Anche esaminata secondo la diversa prospettiva appena indicata, la questione non sembra, a me pare, destinata a ricevere diversità di soluzione: comunque i mutui contratti prima della conversione sono soggetti – anche per la frazione temporale anteriore alla pubblicazione della legge – al regime introdotto da quest’ultima e non già a quello scritto nel decreto originario.
5.2.- In proposito, va prima di tutto ricordato che la legge di conversione contiene, in relazione alle operazioni di credito concretamente in discorso, una regola di diritto transitorio, per cui, nel caso appunto di mutui «concessi fino alla data di entrata in vigore della legge di conversione», il mutuatario può chiedere, «con riguardo all’importo finanziato e alla durata, l’adeguamento alle nuove condizioni introdotte dalla legge» (lett. m bis).
Ora, tale norma appare ictu oculi estranea alla problematica qui in discorso: il punto del prezzo del credito essendo evidentemente cosa diversa tanto da quella relativa alla durata del rapporto (nell’oggi, estensibile sino a dieci anni), quanto da quella della somma capitale che viene data a credito (adesso, sino a € 30 mila). D’altro canto, la norma transitoria si focalizza sulla facoltà rimessa ai mutuatari di decidere – a seconda delle loro specifiche esigenze – se avvalersi, oppure no, delle maggiori opportunità stabilite dalla legge di conversione in punto di massimale di credito e di tempi del rimborso: una simile facoltà non avrebbe senso alcuno, ove la si ritenesse riferita pure al prezzo del credito relativo a un periodo di tempo, che nei fatti risulta già trascorso (in quanto relativo al periodo anteriore alla conversione).
E’ quindi senz’altro da escludere che la legge di conversione abbia provveduto a dettare una «disciplina implicita» per la regolamentazione del prezzo del credito. Non appare oggettivamente ipotizzabile, in effetti, che la norma dell’art. 13 lett. m bis sia venuta a escludere ogni ulteriore rilievo della legge di conversione sui mutui già in essere: per potere dare un qualche (ed eventuale) peso all’argomento a contrario, occorrerebbe quantomeno che i temi della quantità di credito erogabile, dei tempi del rimborso e del prezzo del credito stessero sopra un medesimo piano; ciò che, per contro, si è appena visto essere escluso.
In assenza di una simile condizione di fondo, discorrere di argomento a contrario può venire solo a rappresentare un’evidente petizione di principio.
5.3.- Non credo sia oggettivamente discutibile, poi, che la formula normativa adottata dalla legge di conversione non si esaurisca nel determinare una semplice modifica in addizione o in sottrazione, bensì cambi ab intrinseco il criterio di determinazione del cap del prezzo del finanziamento[7].
Nei fatti, la norma della legge sostituisce entrambe le componenti che erano state scelte dalla norma del decreto. In luogo del parametro dato dal c.d. Rendistato puntuale viene adottato quello coerente con la durata del finanziamento che in concreto è stata eletta dalle parti. In luogo della maggiorazione data da un complesso (e complicato: v. nel n. 1) calcolo basato su plurimi criteri «definiti dall’accordo quadro per l’anticipo finanziario a garanza pensionistica» viene ora prescelto un semplice, e diretto, criterio numerico (lo 0,20%).
5.4.- Né la soluzione della applicazione del regime della legge di conversione sin dal tempo di inizio dell’operazione, né quella opposta, per cui la prima frazione temporale è regolata dalla disposizione non convertita, pongono, mi sembra, problemi di compatibilità con i principi costituzionali. Tuttavia, anche da quest’angolo visuale la prima opzione si lascia nettamente preferire: sia perché è «naturalmente» coerente con la norma dell’art. 77 Cost. (v. sopra, il n. 3); sia pure perché essa meglio risponde (dell’altra) al principio di solidarietà costituzionale a cui il complesso normativo approntato con il plesso normativo c.d. della liquidità risulta sostanzialmente ispirato[8].
6.- La disciplina relativa al prezzo massimo del finanziamento, di cui all’art. 13 lett. m., entra direttamente a fare parte del contenuto negoziale dell’operazione: il patto sovrabbondante è dunque automaticamente sostituito da quello ex lege, ai sensi dell’art. 1419, comma 2, e 1339 c.c.[9]; ogni somma, che per qualunque motivo risulti in esubero rispetto al tetto massimo, si manifesta senz’altro non dovuta.
Non v’è nessuna ragione per cui tale struttura rimediale non si applichi pure con riferimento alla fase del rapporto svoltasi prima della pubblicazione della legge di conversione e al superamento determinato dall’applicazione del regime previsto dal decreto, ma non convertito e quindi da valutare come «non esistente».
Le somme versate in eccedenza costituiranno pagamenti indebiti e sono quindi ripetibili. Nel concreto, le stesse andranno a deconto del debito nei confronti della banca, che attualmente grava sul mutuatario e via via che questo diventa esigibile[10]. Con un’avvertenza, peraltro: trattandosi di pagamenti in sé stessi non dovuti, le somme in questione andranno comunque imputate secondo il criterio più favorevole al solvens (e, quindi, alla linea capitale).
[1] Cfr. il mio Prospettive e problemi del credito pandemico coperto da garanzia statale, in Riv. dir. banc., 2020, p. 272 s.
V. pure URSINO, Nuovo tasso massimo applicabile anche ai prestiti già erogati, il Sole – 24 ore, 21 giugno 2020 e Quel doppio vincolo per stabilire i tassi agevolati, ivi, 4 luglio 2020.
[2] Cfr., così, per la commissione di istruttoria veloce la norma dell’art. 117 bis, comma 2, TUB.
[3] Il fenomeno risulta ancora più grave, cioè, da quello che si verifica nel caso della c.d. ultrattività di norme abrogate (: di applicazione di norme di legge che risulta continuata pure dopo l’avvenuta loro eliminazione dal sistema positivo).
[4] Cfr. URSINO, opp. citt.
[5] Nel caso previsto dal comma 3 dell’art. 77 Cost., di apposita regolamentazione transitoria da parte del legislativo, non viene (in ipotesi) data posticcia sopravvivenza alla norma non convertita; trattasi, piuttosto, di una regola nuova, che viene dotata di efficacia (solo) retroattiva.
[6] Ivi pure ulteriori riferimenti.
Perplessa appare, in proposito, la successiva pronuncia di Cass., 22 novembre 2018, n 30246, la quale, se da un lato dichiara di aderire e dar seguito all’orientamento adottato dalla giurisprudenza della Corte, dall’altro adotta, nel concreto, la soluzione propriamente opposta. Peraltro, considerato pure che questa pronuncia si rifà in modo espresso ai dicta di Cass. n. 9386/2016, non è forse da escludere l’eventualità di un fraintendimento (dei contenuti effettivi dell’orientamento seguito in Corte).
[7] Questo avviso sembrerebbe essere accolto, tra l’altro, dalla Circolare ABI del 6 giugno 2010, che in proposito osserva come in sede di conversione sia stata «sostituita e semplificata la formula per determinare l’attuale tasso massimo applicabile».
[8] Cfr. Prospettive e problemi, cit., p. 261 ss.
[9] Cfr. sempre Prospettive e problemi, cit., p. 273.
[10] Con interessi a fare tempo dal giorno in cui è avvenuto il pagamento indebito: (se non altro) la qualità di creditore professionale delle banche interessate all’applicazione della normativa dettata dalla legge c.d. di liquidità esclude in radice, a me pare, l’eventualità di individuare posizioni di buona fede rispetto alla questione esaminata in queste pagine.