[*] I periodi di crisi economica innescano sempre fenomeni di regolamentazione o di deregolamentazione. La prima segue alla percezione che più regole avrebbero meglio coordinato gli agenti economici, evitando i fenomeni a cui si ascrive la crisi. La gigantesca regolamentazione successiva agli scandali contabili di inizio millennio (tra cui, in Italia, Parmalat) e alla crisi del 2007-2008 sono esempi recenti di questo processo. La deregolamentazione segue alla percezione che un numero eccessivo di regole vincoli gli agenti economici, asfissiando la crescita economica del sistema. Un esempio recente di questo fenomeno è l’introduzione della disciplina della startup innovativa in Italia, avvenuta con il d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, sulla scia della crisi del debito sovrano di Grecia, Portogallo, Spagna e Italia e del bisogno del nostro paese di rassicurare i propri finanziatori circa la propria capacità di favorire l’imprenditorialità e rendere sostenibile l’enorme debito pubblico.
La disciplina portata dal d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, ha liberalizzato le regole applicabili ad una categoria di società di nuova creazione legislativa (“startup innovativa”) all’interno dei diversi tipi previsti dall’ordinamento. L’impatto maggiore di tale liberalizzazione si è prodotto sulla società a responsabilità limitata, cui è stata riconosciuta la libertà di: (1) emettere categorie di quote, anche con diritti di voto esclusi, e strumenti finanziari; (2) offrire le proprie quote al pubblico (una vera rivoluzione rispetto alle ragioni che avevano portato alla nascita della s.r.l.); (3) effettuare operazioni sulle proprie partecipazioni in attuazione di piani di incentivazioni di dipendenti, amministratori o prestatori d’opera (“work for equity”). Lo scopo della riforma era di consentire ai giovani innovatori di avere, per la prima volta, un tipo di società di capitali priva di significativi costi di costituzione e allo stesso tempo utilizzabile per poter accedere, dopo la primissima fase di vita, al finanziamento esterno tramite business angels, fondi di venture capital, portali di crowdfunding. La liberalizzazione avviata con la riforma del 2012 è stata poi estesa, nel 2015, alle s.r.l. PMI innovative e infine, nel 2017, con un limite relativo alla possibilità di emettere strumenti finanziari, alle s.r.l. PMI, cioè alla quasi totalità delle s.r.l. italiane.
L’ultimo rapporto del MISE al 31 marzo 2020 indica in 11.206 il numero delle startup innovative italiane e alcune fonti sbandierano il numero come una prova di successo della riforma; ma ovviamente non è così. Lo scopo della disciplina è quello di favorire la nascita di nuove imprese che possano svilupparsi e crescere sui rispettivi mercati in modo significativo e tangibile per l’economia. Perché ciò avvenga, è fondamentale che almeno una piccolissima percentuale di quelle startup riesca ad accedere a finanziamenti esterni che consentano di superare la prima fase e di avviare la fase di industrializzazione e crescita; e poi che alcune di esse si affermino sui mercati internazionali, magari diventando degli “unicorni” (società di valore superiore al miliardo di dollari) e così un esempio per tutti i team di innovatori.
Dopo otto anni non si vedono molti unicorni all’orizzonte; nel frattempo, la crisi avviata da Covid-19 ci riporta, in altro modo, agli anni 2010-2012. Si prospetta un gravissimo peggioramento del quadro economico e occorre trovare misure capaci di consentire lo sviluppo di nuova, significativa imprenditorialità in Italia. Come nel 2012 vi furono le proposte del piano “Restart Italia!”, nel 2020 sono arrivate le più ampie proposte del c.d. “Piano Colao”.
Alcune delle proposte del Piano Colao tornano sulla disciplina della s.r.l.: risulta evidente che la liberalizzazione del 2012 non è stata sufficiente ad innescare i processi in cui si sperava; occorre di più. Il piano propone dunque di consentire l’aumento di capitale a pagamento con esclusione del diritto di opzione deliberato a maggioranza, escludendo perciò il diritto di recesso del socio dissenziente; inoltre, suggerisce di eliminare i limiti all’emissione e collocamento di titoli di debito posti dall’art. 2483 c.c. Si tratta di due indicazioni che colgono nel segno. La rimozione del diritto di recesso del socio in caso di aumento di capitale a pagamento con esclusione del diritto di opzione elimina problemi di hold up individuabili nella possibilità per il socio di dissentire “strategicamente”, minacciando il recesso per dettare, a proprio vantaggio, nuove condizioni alla propria permanenza in società (c.d. “extortion premium”). La rimozione del divieto relativo ai titoli di debito consentirebbe anche in Italia di emettere convertible note destinate ai business angels.
Tuttavia, se questa è la risposta alla crisi, si tratta di una risposta ancora troppo timida e frammentata. Il diritto delle società di capitali va profondamente liberalizzato. In particolare, con riguardo alla s.r.l., l’obbligo di non dare attuazione a nuovi aumenti di capitale sinché per i precedenti non siano stati interamente eseguiti i conferimenti impedisce di articolare round di finanziamenti destinati a diversi soggetti beneficiari (dipendenti, business angels, venture capitalist). Va facilitato il conferimento di opere e servizi per meglio sviluppare il “work for equity”. La disciplina del recesso va modificata liberalizzando maggiormente i criteri di determinazione della quota di liquidazione. Occorre eliminare del tutto il rischio che le preferenze di liquidazione garantite ex ante ai finanziatori (venture capitalist) portatori di quote di categoria speciale (A, B, C ecc.) possano essere additate ex post, in caso di esito del tutto negativo della vicenda imprenditoriale per i portatori di quote di categoria ordinaria (founders), quali esempio di violazione del divieto di patto leonino (un’autentica mina vagante del nostro diritto societario). Più in generale, il legislatore dovrebbe con coraggio optare, almeno per la s.r.l., per una chiara enunciazione di un principio di “counter-Satzungsstrenge”, per cui tutto ciò che non è espressamente vietato è consentito all’autonomia statutaria. Se non liberalizziamo il diritto societario, continueremo ad asfissiare con schemi del secolo scorso la nostra imprenditorialità, soprattutto giovanile.
[*] Abbiamo sviluppato con Peter Agstner questi temi, in prospettiva europea, in un articolo destinato al mercato internazionale: P. Giudici-P. Agstner, Startups and Company Law: The Competitive Pressure of Delaware on Italy (and Europe?), in Eur. Bus. Org. Law Rev., 2019, 597 ss.; il working paper si trova ad accesso libero su ssrn.com. Abbiamo chiuso in questi giorni insieme ad Antonio Capizzi dell’Univ. Sapienza un ampio articolo destinato al mercato nazionale, dove affrontiamo estesamente tutti questi temi.