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Editoriali

Il fascino (in)discreto della burocrazia: radici e rimedi

19 Giugno 2020

Umberto Morera

Professore ordinario di diritto dell’economia, Università di Roma “Tor Vergata”

Il drammatico espandersi della burocrazia nel nostro paese è sotto gli occhi di tutti. La recente crisi sanitaria ha reso il fenomeno ancor più evidente e insopportabile; così come peraltro è sempre avvenuto ogni qual volta la Pubblica Amministrazione si sia dovuta confrontare con un’emergenza. Gli aiuti tardano ad arrivare e la lievitazione delle regole, troppo spesso di difficile interpretazione e applicazione, rende la ripresa economica faticosa e incerta.

A ben vedere, la burocrazia, di per sé, potrebbe anche essere utile. Ce lo insegnava Max Weber (“la burocrazia è il nostro destino”), il quale, pur nella percezione della sua pericolosità, la considerava un indispensabile strumento di razionalizzazione, imparzialità, stabilità, produttività e, non ultimo, legalità.

Ma il patologico sviluppo del “potere dell’ufficio” ha finito per tramutare la burocrazia in uno strumento di oppressione, di inefficienza, di lentezza e, financo, di … incentivo all’illegalità.

In Italia, questi caratteri negativi si sono nel tempo sempre più amplificati e, nonostante i continui (anche recentissimi) proclami politici in favore di una decisa riduzione dei livelli di burocrazia, questa è invece soltanto aumentata, sino a raggiungere vette oggi insopportabili (tornano qui in mente i “necroburi”, descritti da Valerio Magrelli quali “portatori di morte attraverso un perverso impiego dei meccanismi amministrativi”).

Da ultimo, ne costituiscono prova evidente le misure governative assunte per l’emergenza Covid, la cui macchinosità e inefficienza applicativa non debbono essere certo qui dimostrate.

L’eccesso di burocrazia e le tante difficoltà che si incontrano nel ridurla costituiscono un problema di non facile soluzione; ma per provare a risolverlo occorre innanzitutto individuarne le radici.

Queste sono ben più profonde di quanto forse immaginiamo, immergendosi nel terreno delle scelte collettive che sono alla base del funzionamento stesso della nostra complessa società.

A ben riflettere, la burocrazia che ci soggioga quotidianamente forse non costituisce soltanto la “causa” del nostro malessere, rappresentando anche, se non soprattutto, l’“effetto” delle nostre scelte di fondo, delle nostre stesse concezioni del vivere, della nostra recondita indole sociale.

In un suo recente e lucido scritto (“Siamo noi che vogliamo la burocrazia”, 2020), l’economista Fabio Colasanti ha tentato di redigere una sorta di inventario dei reali fattori che sono alla base del pervasivo livello di burocrazia in Italia. Vale qui darne conto, cogliendoli, commentandoli e offrendoli così alla riflessione di una più ampia platea di persone.

Un primo e importante fattore alla base della burocrazia è rappresentato dall’odierna nostra continua richiesta di protezione contro qualsiasi tipo di rischio.

La nostra società è ormai anziana e agiata, assai poco disposta a rinunciare agli ampi ombrelli protettivi di cui è riuscita a dotarsi negli ultimi 50 anni: la tutela della salute, dell’ambiente, del risparmio, della famiglia, dei dati personali, del lavoro, della sicurezza e di molti altri interessi protetti. Le scelte politiche riflettono ormai costantemente tale diffusa propensione alla tutela onnipervasiva.

Ove poi le norme necessarie a tutelarci in detta amplissima prospettiva finiscono inevitabilmente per essere strutturate in maniera assai complessa e articolata: disciplinando ogni possibile fattispecie di dettaglio; richiamando ogni altra disciplina connessa e parallela; prevedendo complessi iter autorizzativi per evitare frodi e infiltrazioni da parte della malavita; e così via.

Tutto questo “produce” molta burocrazia. Per ridurla, dovremmo avere coraggio e iniziare a concepire meno discipline e regole di tutela, in cambio di una società più semplice ed efficiente.

Un altro significativo fattore che alimenta la burocrazia è dato dallo smisurato proliferare delle “competenze”. Troppo spesso un atto pubblico viene emanato soltanto all’esito di decine di pareri, licenze, autorizzazioni, permessi, nulla osta. In Italia, paese che prevede un numero molto elevato di “voci” necessarie, la c.d. “Conferenza dei servizi”, nata per semplificare i procedimenti formativi a più voci, ha dimostrato di funzionare poco e male, quando a sedersi in conferenza erano troppi soggetti.

Anche il proliferare delle competenze “produce” burocrazia. Ma per ridurla dovremmo rinunciare, anche qui avendone il coraggio politico, a filtri, pareri e controlli, mantenendo soltanto le competenze davvero indispensabili; a costo di mettere in gioco la stessa sopravvivenza degli enti senza più “voce”.

Un terzo fattore generante burocrazia, invero assai insidioso e preoccupante, è costituito dall’aspettativa sociale che ogni attività produttiva e ogni procedimento amministrativo non debbano poter sfuggire al vaglio della magistratura contabile e penale. In Italia, tale aspettativa risulta poi aggravata dal fatto che le indagini e i provvedimenti cautelari compiuti dall’Autorità giudiziaria sono sovente accompagnati da un’eco mediatica talmente forte che finisce per distruggere la vita e la reputazione dell’indagato ben prima che venga accertata la sua eventuale colpevolezza (“la vera pena è il processo, non la sanzione”, ammoniva Francesco Carnelutti).

L’opinione pubblica appare sempre più “forcaiola” e giustizialista e la politica finisce spesso per cavalcare tale malsana indole sociale.

Inevitabilmente, il timore delle inchieste e del relativo clamore mediatico finisce per “paralizzare” chi amministra il bene pubblico e quello produttivo, rallentando i procedimenti e aumentando la quantità delle consulenze (spesso inutili) finalizzate soprattutto alla futura protezione di chi, in quel momento, ha la responsabilità dell’azione. In tale contesto, ogni agire è rallentato, se non addirittura “bloccato”, per il timore di vedersi coinvolti in possibili inchieste e responsabilità contabili o penali (è quanto è successo negli ultimi anni all’interno del Comune di Roma e oggi sembra stia accadendo nei comparti dell’erogazione degli aiuti disposti dal Governo post Covid).

Per raggiungere la desiderata semplificazione occorrerebbe intervenire in maniera radicale anche su questo fronte, con riforme radicali della giustizia (intervenendo soprattutto a tutela dell’indagato); ma appare assai difficile che la politica se ne faccia concreto carico …

Un quarto fattore alla base della burocrazia è rappresentato dalla diffusa carenza di pragmatismo che caratterizza la nostra società. Abbiamo sistemi sanzionatori troppo ancorati soltanto all’osservanza giuridico-formale delle norme, senza alcuna attenzione al contesto e al risultato.

Vi sono situazioni in cui l’applicazione della legge – seppur in principio dovuta – sarebbe sconsigliabile alla luce del rapporto costi-risultati. Spesso i costi derivanti dell’osservanza della legge sono di molto superiori ai vantaggi derivanti (alla collettività) dalla sua inosservanza.

Dovremmo operare un vero e proprio salto culturale, arrivando a privilegiare quei meccanismi finalizzati a premiare il raggiungimento di un risultato globalmente soddisfacente, senza intervenire (acriticamente), e a sanzionare, ogni qual volta venga infranta una regola qualsiasi. Sarebbe un notevole passo avanti verso la semplificazione dei nostri adempimenti e dei tanti meccanismi procedurali che ne sono alla base.

Un ulteriore fattore che alimenta la burocrazia in Italia è la mancanza di quella che Colasanti chiama “manutenzione delle leggi”. Le leggi hanno bisogno di manutenzione come ogni altra cosa: una verifica della loro utilità, della loro concreta applicazione e della loro reale efficienza è periodicamente necessaria.

La normativa sui certificati antimafia ne costituisce un esempio emblematico. È ormai diffusa opinione che tali certificati non servano a nulla; essendo il Sistema financo arrivato al paradosso di prevedere normativamente che le gare di appalto possano terminare anche nel caso in cui tali certificati non siano ancora disponibili … . Ma, ammettiamolo, quale forza politica avrebbe il coraggio di abolire tali certificati? Quale reazione “scandalizzata” si produrrebbe nell’opinione pubblica se ciò davvero avvenisse? Questo è soltanto un esempio, ma se ne potrebbero fare diversi. L’utilità e l’efficienza delle norme non viene testata abbastanza spesso; e questo non fa che produrre ulteriore ruggine negli ingranaggi, già affaticati, della burocrazia.

Un’efficace manutenzione delle leggi dovrebbe poi anche comportare sia un periodico controllo delle normative e un riordino delle stesse nel caso in cui finiscano per sovrapporsi nel tempo, disciplinando i medesimi fenomeni in maniera ripetitiva, frammentaria o addirittura contraddittoria (al riguardo, lo strumento principale è il c.d. “testo unico”), sia l’utilizzo delle tecniche pensate per migliorare la qualità delle nuove leggi (al riguardo, lo strumento principale è la c.d. “analisi di impatto”).

Il vero problema resta tuttavia quello per cui l’opinione pubblica non riconosce alcun valore agli sforzi compiuti per migliorare la “qualità” delle normative vigenti; sicché la politica finisce per non impegnarsi più di tanto al riguardo, così contribuendo a mantenere la farraginosità del sistema burocratico.

Un ultimo fattore, invero affatto marginale, è costituito dalla circostanza che vede ormai molte leggi emanate (nonché poi … sbandierate come trofei di successo politico) senza minimamente preoccuparsi del fatto che la loro applicazione non sarà in concreto possibile a causa della mancanza di risorse (troppo spesso infatti le nuove normative contengono la previsione “di stile” che le stesse non debbono gravare sul bilancio dello Stato e che la P.A. vi dovrà far fronte soltanto con le risorse di cui dispone … ).

Ciò comporta l’evanescenza dei risultati promessi, che restano di fatto sulla carta, senza alcuna concreta applicazione pratica, contribuendo poi a cristallizzare patologicamente il sistema burocratico nel suo complesso.

I danni prodotti dalla burocrazia in Italia sono evidenti; principalmente: disincentivo allo sviluppo delle attività economiche interne; disincentivo agli investimenti esteri in Italia; incentivo alla delocalizzazione delle attività di impresa; incentivo alla fuga di cervelli dal nostro paese; aumento diffuso dell’illegalità e dell’evasione.

Ora, se le ragioni di fondo che hanno prodotto il patologico espandersi della burocrazia sono, fondamentalmente, tutte quelle sopra elencate, la soluzione al problema non appare invero impossibile; ma occorre un deciso cambio di passo e di direzione, uno sviluppo di strategie a lungo termine, una visione ampia e lungimirante da parte del governo e del legislatore parlamentare.

Soprattutto, come giustamente osserva Colasanti, occorre il coraggio di adottare scelte impopolari e non demagogiche, non remunerative sul piano del ritorno elettorale.

Bisogna convincersi che delle tante regole introdotte nel tempo contro la corruzione, l’abusivismo, l’evasione, il riciclaggio, così come delle altrettanto numerose (troppe) regole a tutela dei molti diritti oggetto di protezione, soltanto alcune (forse la minor parte) servono davvero: le altre producono soltanto burocrazia, appesantiscono la macchina, incentivano la disapplicazione della legge, soprattutto inibiscono l’efficacia di quelle (poche) regole che funzionano.

Occorre sfoltire decisamente, e senza paura, le regole, accettando anche compromessi significativi sul piano della protezione degli interessi.

Tutelare tutto e tutti significa spesso non tutelare nessuno.

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