Certamente Georg Wilhelm Friedrich Hegel non pensava al diritto tributario quando, scrivendo la Fenomenologia dello Spirito, usò un’immagine molto comune nella lingua tedesca. Per converso, è questa la prima rappresentazione che sembra emergere dalle misure fiscali tratteggiate nel cd. “Piano Italia 2020 – 2022” redatto dalla Task Force “Colao” (e che le prime indiscrezioni dai cd. “Stati generali” sembrano rafforzare).
A mano a mano che l’Italia prosegue nella sua traiettoria lungo la Fase 2 del Virus, emerge con sempre maggior nettezza che la Fase 1, dal punto di vista economico, non è ancora passata: anzi il peggio deve ancora venire.
La strategia governativa è stata animata, in queste settimane, da un approccio ad ampio spettro nell’attuazione di misure di sostegno, caratterizzato da un deficit spending non certo generoso in quanto condizionato da vincoli europei ben noti, e dalla dimensione (ragguardevole) del debito pubblico domestico.
Nelle prime misure adottate (di carattere eminentemente emergenziale) l’intervento fiscale (intendendo per tale quello orientato a modulare il prelievo in modo diverso rispetto al passato) è mancato del tutto. L’irrompere della pandemia aveva necessitato maggiori risorse da spendere (da promettere, come nel caso dei crediti d’imposta), o più elevate garanzie da attivare nel tentativo di assicurare una adeguata espansione del credito bancario.
Le proposte tributarie della Task Force governativa sono orientate tratteggiare i confini del nuovo diritto tributario italiano in modo coerente con le linee guida del progetto nel suo complesso: un insieme di iniziative “per migliorare la sostenibilità economica, sociale ambientale” del paese, e dunque per avere un’Italia “più forte, resiliente ed equa”.
L’attenzione al fisco, pur pervadendo l’intero progetto, emerge in particolare alla pag. 17 del rapporto e in 11 schemi di lavoro (su 121). Qui si individuano quattro assi di intervento: la codificazione, la riforma della giustizia tributaria, la modifica della regolamentazione premiale per la dirigenza dell’Amministrazione finanziaria, la costante attenzione ai lavori OCSE in materia di fiscalità internazionale. Le schede di lavoro sviluppano ulteriormente queste riflessioni suggerendo diverse misure immediate (come la lotta al contante e una variazione ai meccanismi di compensazione delle imposte) e altre di lungo periodo (come la promozione di start-up, il reshoring di imprese italiane migrate all’estero).
Si tratta di un piano d’azione “tra terra e cielo”: da un lato ancora figlio della cultura emergenziale che ha contraddistinto le scelte governative da gennaio in avanti, e dall’altro limitato ad indicare priorità d riforma o specifici settori di intervento. Tutte le misure quantitative sono a debito (tranne la voluntary sul contante), e le coperture non vengono indicate.
Quello che manca al piano di lavoro sono misure di fiscalità non soltanto premiale, ma anche di recupero di gettito: che vadano ad interessare basi imponibili sin qui neglette (o non sufficientemente considerate), e che permettano di recuperare risorse senza deprimere ulteriormente i tentativi di recupero dell’economia nazionale.
Prima dell’intervento di salvifici fondi europei (tutti ancora da immaginare e variamente nominati) l’uscita dalla crisi sia in termini di rilancio dell’economia che di sostenibilità del futuro, immenso, debito pubblico passa attraverso la capacità di modulare il prelievo delle risorse negli anni a venire.
Mai, come in questo periodo, tale necessità assume importanza vitale per il paese, sia nel senso di reperire risorse per i bisogni pubblici (come è sempre stato) ma anche in una logica, per così dire, comunicativa nei confronti dei partner europei. Si deve dimostrare che il debito pubblico italiano non solo è (ancora) sostenibile, ma che l’ltalia è pronta al suo “whatever it takes” per restare nell’Eurozona. Se questa è la volontà, naturalmente. Vero è che ancora oggi, come molti osservano, il risparmio privato supera il debito pubblico, ma è anche vero che le due traiettorie di crescita non sono parallele, e che i cd. “mercati” giudicano sui tendenziali.
Le incentivazioni più o meno effettive a pioggia e su una platea indiscriminata di potenziali utenti rafforzano essenzialmente la convergenza fra le due curve innescando (o rafforzando) una spirale secondo la quale è vero che l’Italia ha risorse per fronteggiare la sua esposizione, ma che non sarà mai in grado di attivarle. Non, almeno, spontaneamente e attraverso meccaniche decisionali interne di natura democratica. Il corollario allora diventa sin troppo evidente quanto sinistro.
L’uscita dalla notte che ha reso “tutte le vacche nere” passa attraverso lo spostamento del baricentro tributario: non più “dalle persone alle cose”, come in un libro bianco degli anni ‘90, ma “dai redditi ai patrimoni”. Si tratta di un cambiamento che dovrebbe prendere le mosse dai fenomeni successori.
Il primo, più drammatico, effetto della pandemia è stato evidentemente il passaggio generazionale accelerato in diverse zone del paese, con patrimoni che sono transitati da una generazione a un’altra con prelievi in genere trascurabili o pari a zero. Al netto della comprensibile emotività, non può essere taciuto che si tratta di ricchezze accumulate in momenti storici in cui la traiettoria di crescita del paese era ben diversa da quella attuale: e non solo. I patrimoni che passano in questi anni ‘20 sono stati accumulati mediante forme di distribuzione asincrona della ricchezza, delle quali le conseguenze si registrano oggi. Nei “trente glorieuses” italiani, e soprattutto nel periodo che ne è seguito, si è assistito a una forma di riparto della ricchezza che non ha inciso solo in un preciso momento storico (da “chi ha di più” a “chi ha di meno”), ma che ha anche impattato in chiave prospettica (da “chi avrà” a “chi ha”). Diacronicamente, è stata distribuita ricchezza appartenente a generazioni future. Una nuova imposta sulle successioni dovrebbe farsi carico di recuperare questo equilibrio, prima che le disuguaglianze di perpetuino irreversibilmente.
La seconda conseguenza, per così dire, disruptive, della pandemia, ha interessato le catene del valore, falsificando paradigmi, come quello della globalizzazione e della competitività fiscale, mettendo in luce problemi pluridecennali dell’amministrazione del fisco in Italia. Questi ultimi non sono necessariamente quelli messi evidenziati dal Piano d’Azione e riguardano la filosofia, lato sensu militare, che ancora inspira l’attività di controllo e repressione.
Non possono che essere salutate con piacere le proposte finalizzate alla codificazione del fisco italiano e al miglioramento della macchina giudiziaria fiscale. Salvo osservare che i rapporti tra fisco e contribuente andrebbero regolati fin dove possibile dal Codice che già c’è e che funziona, nonostante tutto, meglio di tutti gli altri: quello civile.
Nella stessa linea dovrebbe essere affrontato ogni afflato riformista della giustizia tributaria, le cui criticità altro non sono che la cartina al tornasole di un problema più profondo: il rapporto (anch’esso disfunzionale) tra fisco e contribuente. Oggi, nelle agenzie fiscali, coesistono diverse anime e altrettanto diverse professionalità: v’è chi è vocazionalmente è orientato ai servizi al contribuente, chi alla repressione degli illeciti, chi al controllo statistico, e così via. Le agenzie non solo contrastano forme di elusione ed evasione fiscale, ma producono regole alla luce delle quali quei fenomeni sono combattuti: in lessico aziendalista sono diventate vere e proprie multiutility.
Nel mondo dell’impresa, le multiutility operano al meglio solo in situazioni di mercato particolari, e sovente si esauriscono in rent seekers, per usare una terminologia cara a un membro della Task force: estraggono maggior valore di quello creato. Un ripensamento del fisco italiano dovrebbe prendere le mosse da una rifondazione degli attori sulla scena, separando i ruoli ricoperti funzionali delle agenzie fiscali e valorizzando così le distinte mission.
La direzione presa dal Rapporto e, a quanto emerge, dagli “Stati generali” sembra andare in direzione diversa, nel segno di una continuità di interventi indiscriminati (e quindi necessariamente insufficienti) nel tentativo di “spostare la notte più in là”. Una notte in cui ancora le vacche sembrano tutte nere, e per la quale (paradossalmente, proprio per questo) l’alba è ancora lontana.