Sommario: 1. La ricostruzione dei fatti di causa da parte dei ricorrenti. – 2. Il giudizio di Cassazione: gli obblighi informativi e l’adeguatezza dell’operazione. – 3. Il benchmark e la teoria della c.d. “gestione contro benchmark”. – 4. Conclusioni.
1. La ricostruzione dei fatti di causa da parte dei ricorrenti
La vicenda processuale – giudiziale oggetto del presente commento[1], durata circa 13 anni, ha per oggetto un contratto di investimento sottoscritto dal padre dei ricorrenti, imprenditore operante nel settore metalmeccanico (di seguito anche indicato come “investitore”), purtroppo deceduto prima dell’instaurazione del procedimento di primo grado, da uno dei figli e della moglie (di seguito anche indicati come “ricorrenti” o “eredi”).
Nell’agosto del 2000 l’investitore era stato contattato da un promotore finanziario che gli aveva proposto di accedere al servizio di gestione di portafogli di investimento di cui al d. lgs. n. 58/1998 offerto da un intermediario finanziario, garantendo la sicurezza e la bontà dell’investimento stesso.
Il promotore aveva formulato una proposta personalizzata illustrandola come la meno rischiosa e come quella che avrebbe avuto una “elevata probabilità”, pari o superiore al 91%, di raggiungere l’obbiettivo. Nello specifico, era stato prospettato un benchmark pari “al rendimento dell’indice di capitalizzazione MTS riferito ai B.O.T., aumentato di 2,7 punti percentuali, in ragione d’anno …”, ovvero un 2,7% in più rispetto al benchmark.
Agli inizi del 2003 il capitale investivo nella GPI si era sensibilmente ridotto evidenziando una perdita apparente (stando ai conteggi effettuati dalla banca) pari a -27,16% a fronte di un benchmark, dichiarato dalla banca stessa, pari a + 16% (in sostanza 43 punti percentuali in meno).
A fronte delle perdite subite, e dell’intervenuta morte del padre, gli eredi hanno promosso il contenzioso giudiziale. In primo e in secondo grado le domande di parte attrice sono state rigettate in quanto i Giudici avevano ritenuto adempiuto il dovere da parte dell’intermediario finanziario di fornire informazioni adeguate all’investitore (ex. art. 28, co. 2 Reg. Consob 11522/1998), affermando che essendo quest’ultimo rappresentante legale di svariate società di considerevoli dimensioni, sarebbe stato in grado di programmare investimenti in strumenti finanziari, concludendo per una sostanziale adeguatezza dell’operazione di cui all’art. 29 Reg. Consob 11522/98.
2. Il giudizio di Cassazione: gli obblighi informativi e l’adeguatezza dell’operazione
Gli eredi hanno presentato ricorso per Cassazione, reiterando le proprie pretese, in particolare in merito all’inadempimento ad opera dell’intermedio degli obblighi informativi e all’errata interpretazione della normativa sul benchmark.
I Giudici con la sentenza n. 17290 del 24 agosto 2016, hanno accolto il ricorso ritenendo fondate le censure ex. art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., in merito alla violazione degli obblighi informativi e all’inadeguatezza delle operazioni di investimento rispetto al profilo e alla propensione al rischio dell’investitore, oltre alla mancata indicazione del grado di rischio per ciascuna linea di gestione da parte dell’intermediario, cassando la sentenza appellata con rinvio alla Corte di appello di Bologna in diversa composizione.
Nello specifico, la Corte di legittimità ha richiamato la recente sentenza della Corte di Cassazione n. 8089 del 2016[2] la quale ha sancito importanti principi in merito agli obblighi informativi posti in capo all’intermediario. Entrambe le sentenze in questa sede richiamate, pubblicate a pochi mesi di distanza, presentano elementi di comunanza sia dal punto di vista fattuale, sia dal punto di vista degli argomenti trattati e delle doglianze sollevate nei rispettivi giudizi, ragion per cui pare opportuno un esame congiunto dei due arresti giurisprudenziali, seppur senza alcuna pretesa di esaustività.
In primo luogo la pronuncia richiamata (n. 8089/2016), cassando a sua volta con rinvio la sentenza impugnata alla Corte di Appello in diversa composizione, ha puntualmente affermato che gli obblighi informativi posti in capo all’intermediario hanno natura “attiva”, poiché quest’ultimo è tenuto a “fornire” le informazioni necessarie per ogni singolo investimento e “acquisire” dall’investitore le informazioni opportune per valutare il profilo di rischio e l’adeguatezza delle operazioni prospettabili a ciascun investitore, come risulta chiaramente dalla lettura degli art. 21 del TUF e 28 del Reg. Consob 11522 del 1998, la cui formulazione non è pertanto equivocabile, indicando doveri di natura “attiva” posti in capo all’intermediario abilitato.
La Corte ha poi chiarito che nel valutare se un cliente sia o meno “operatore qualificato” (unico caso in cui l’intermediario potrebbe legittimamente limitare i propri doveri informativi), elementi quali l’appartenenza dell’investitore ad un “gruppo” di dimensioni tali da essere (presuntivamente) in grado di programmare investimenti finanziari per importi rilevanti (nella fattispecie si trattava di circa 25 milioni di euro) e dotato di organi quali il collegio sindacale e la società di revisione, impegnati nell’esame della gestione del patrimonio societario, non sono idonei ad integrare la qualificazione del cliente come investitore “qualificato o professionale”, dal momento che «in tema di contratti di intermediazione finanziaria, la caratteristica di operatore qualificato ha un preciso contenuto tecnico – giuridico, espressamente disciplinato dall’art. 31, comma 2, del regolamento Consob 1° luglio 1998, n. 11522, e non integrato dal mero riferimento all’entità del patrimonio dell’investitore ed alle sue attitudini imprenditoriali»[3].
Nella valutazione dell’adeguatezza dell’operazione, continua la Corte, viene certamente in gioco il profilo dell’investitore, che tuttavia non può legittimamente escludere il dovere informativo posto in capo all’intermediario, che non può ridursi alla riconduzione entro mere clausole di stile, dovendo al contrario estrinsecarsi in un contenuto “oggettivo” ed uno “soggettivo”, essendo essenziale valutare l’assolvimento di tali obblighi in relazione alla natura e all’entità dell’investimento; alla tipologia e alla rischiosità del medesimo. Il “contenuto oggettivo” delle informazioni relative all’investimento, inoltre, non può essere determinato esclusivamente alla stregua del profilo soggettivo dell’investitore, a meno che quest’ultimo non sia operatore professionale, ma deve essere anche caratterizzato da un nucleo di dati oggettivamente riferibili agli investimenti che si intendono proporre all’investitore stesso.Il riferimento alla sola modulistica fornita al cliente, osserva la Suprema Corte, consente la delimitazione “esterna” del rischio connesso agli investimenti, privo di qualsiasi indicazione relativa al contenuto intrinseco delle informazioni relative agli investimenti stessi.[4]
L’indicazione del limite estremo del rischio connesso alla gestione patrimoniale può essere uno dei criteri della preventiva valutazione dell’adeguatezza degli investimenti che compongono la gestione patrimoniale ma è del tutto inidoneo, se considerato isolatamente, ad integrare l’obbligo di assumere le informazioni necessarie al fine di formulare proposte d’investimento adeguate.[5]
Ha chiarito poi la Corte che non è condivisibile l’affermazione per cui sarebbe impossibile fornire un’indicazione specifica relativa al grado di rischio di ciascuna linea di gestione patrimoniale, in ragione della presunta assenza di limiti imposti all’intermediario da parte dell’investitore, in una gestione assolutamente flessibile nella quale l’intermediario poteva discrezionalmente spaziare nell’ambito di numerosi variegati comparti d’investimento tipici di una SICAV multi compartimentale Interfund. Tale affermazione si fonda sull’erronea equiparazione tra la descrizione delle gestioni e l’indicazione relativa al grado di rischio di ciascuna linea di gestione, omettendo di considerare che la descrizione della natura giuridica degli investimenti (azionaria, obbligazionaria, con indicazione del mercato di riferimento) e della maggiore o minore sensibilità alla variazione dei tassi d’interesse, non contiene una diretta esplicitazione del grado di rischio richiesta invece dal testo integrato dell’art. 42 con l’allegato 3 sub c) della sezione IV del Reg. Consob.
La Corte di Cassazione nella sentenza n. 17290 del 2016 ha fatto proprie le argomentazioni svolte nella sentenza n. 8089 del 2016 affermando, anche in questo caso, che l’obbligo informativo posto a carico dell’intermediario è un obbligo “attivo”, composto da un nucleo di dati oggettivi relativi all’investimento prospettato ed un contenuto soggettivo, che condiziona la valutazione dell’assolvimento dell’obbligo ma certamente non lo esaurisce[6]. Nel caso specifico, hanno affermato i Giudici, la Corte di Appello non ha adempiuto al proprio dovere informativo avendo erroneamente ritenuto che l’investitore, imprenditore nel settore metalmeccanico, avesse le competenze necessarie per poter comprendere in autonomia la rischiosità dell’investimento, per il solo fatto di essere titolare di un’azienda e di aver investito una cifra molto ingente nella gestione patrimoniale prospettatagli[7].
Anche in tale occasione la Corte ha ribadito che l’indicazione del solo limite estremo del rischio connesso all’investimento può rappresentare unicamente uno dei criteri della preventiva valutazione in merito all’adeguatezza dell’operazione ma non può, se considerato isolatamente, essere idoneo ad assolvere l’obbligo informativo. Dovendosi di contro indicare per iscritto nel contratto quadro il grado di rischio di ciascuna linea di gestione patrimoniale, sancendo in tal modo l’erroneità delle argomentazioni avanzate dalla Corte di Appello a giustificazione di tale omissione[8].
Dalla lettura delle citate sentenze (Cass. 17290 del 2016 e Cass. 8089 del 2016) emerge un altro elemento comune ad ambedue i contenziosi, ovvero il fatto che i ricorrenti di entrambi i giudizi avevano contestato anche il mancato rispetto del benchmark ad opera della banca, la quale aveva loro prospettato un margine di rischio predefinito attraverso il ricorso a tale indice riconosciuto dalla normativa Consob. A tal proposito entrambi i ricorrenti avevano rilevato l’erronea interpretazione, ad opera delle due Corti di Appello, della normativa sul benchmark, di cui agli artt. 37, 38 e 42 del Regolamento Consob 11522/1998. I Giudici di entrambi i procedimenti hanno ritenuto di trattare congiuntamente sia i motivi di doglianza relativi al benchmark, sia i motivi vertenti sul contenuto degli obblighi informativi gravanti sull’intermediario, statuendo, sostanzialmente, cosa il benchmark “non è”, ma senza chiarire appieno “cosa è” e quale funzione dovrebbe ricoprire. La questione è in realtà di particolare rilievo poiché se ad oggi la normativa Consob n. 11522/98, cui fanno riferimento i fatti di causa, è stata abrogata, la disciplina attuale prevede ancora la sussistenza di indici di rischio sostanzialmente equiparabili a quanto previsto in precedenza attraverso il benchmark[9]. Pertanto, come verrà meglio evidenziato nel successivo paragrafo, anche se la dicitura espressa “benchmark” non compare nell’attuale delibera Consob (ma viene ancora comunemente utilizzato) il suddetto indice e parametro di riferimento è tutt’ora utilizzato e la normativa di settore[10] richiede espressamente che venga comunicato all’investitore. Pertanto, le considerazioni svolte in questa sede in tema di benchmark non costituiscono un puro esercizio teorico su un istituto ormai anacronistico[11].
3. Il benchmark e la teoria della c.d. “gestione contro benchmark”
In finanza il benchmark è il parametro oggettivo di riferimento, utilizzato dal sistema finanziario per confrontare le performance di un portafoglio rispetto all’andamento del mercato. E’ un indice, o un insieme di indici, che chiarisce al risparmiatore l’identità del prodotto offerto. L’obiettivo del benchmark è quello infatti di offrire uno strumento utile per valutare il rischio tipico del mercato in cui il portafoglio investe e supportare l’investitore nella valutazione dei risultati ottenuti dalla gestione di un certo portafoglio titoli, fornendo un importante contributo alla trasparenza e nella fase di valutazione precontrattuale oltre che nel corso della successiva fase di gestione.
Nella sentenza n. 17290 del 2016, la Corte di Cassazione, come ricordato poc’anzi, ha sostanzialmente affermato che non si deve erroneamente equiparare la descrizione delle gestioni e «l’indicazione relativa al grado di rischio di ciascuna linea di gestione, omettendo di considerare che la descrizione della natura giuridica (azionaria, obbligazionaria, con indicazione del mercato di riferimento) e della maggiore o minore sensibilità alla variazione dei tassi di interesse non contiene una diretta esplicitazione del grado di rischio richiesta invece dal testo integrato dell’art. 42 con l’allegato 3, sub. c). E tale indicazione non era certamente ritraibile dal parametro oggettivo di riferimento (benchmark) che, come affermato nella sentenza impugnata, non costituisce un indicatore diretto del grado di rischio, né la leva finanziaria»[12].
Ora, nel pieno rispetto di quanto statuito dalla Cassazione, ci si chiede allora quale sia la corretta natura giuridica del benchmark e che utilizzo debba essere fatto del medesimo indice se esso “non costituisce un indicatore diretto del grado di rischio, né della leva finanziaria”, poiché tale assunto non pare trovare puntuale riscontro nella normativa di riferimento in quanto il regolamento Consob n. 11522/1998, adottato in attuazione del TUF, prevedeva agli artt. 37, 38, 42 l’obbligo per gli intermediari di indicare sempre un benchmark nei contratti di gestione, come viene sostanzialmente indicato anche dall’attuale del. Consob n. 16190/07.
Pertanto il benchmark parrebbe essere, per espressa disposizione normativa, un indice, o una composizione di indici, che chiarisce al risparmiatore l’identità del prodotto offerto e la valutazione del rischio connessa a quel tipo di portafoglio o investimento grazie all’utilizzo di parametri di riferimento oggettivi[13]. E’ la Consob stessa che ha definito il benchmark[14] precisando che come parametri di riferimento possono essere scelti solo indicatori finanziari di “… comune utilizzo…” e di provata affidabilità che consentano all’investitore una razionale valutazione dell’intermediario gestore e svolge varie funzioni in base alla normativa esaminata ed alle interpretazioni fornite dall’Organo di Vigilanza[15].
Come affermato dalla Consob, pertanto, il benchmark è considerato anche uno strumento per misurare sia l’andamento della gestione ex post, sia le capacità stesse del gestore poiché attraverso il raffronto sintetico tra le performance ottenute del fondo e quelle del benchmark, l’investitore sarà in grado di valutare la qualità della gestione realizzata nel tempo dal gestore cui si è affidato o intende affidarsi[16]. In gergo bancario si dice anche che è possibile verificare la capacità del gestore di “battere l’indice”, cioè di verificare se il gestore sia o meno in grado di realizzare risultati migliori rispetto a quelli registrati nel mercato di riferimento.
Il benchmark costituisce inoltre un importante contributo alla trasparenza, in quanto permette di chiarire all’investitore in quale mercato il gestore (in questo caso specifico la banca) ha deciso di investire e con quale grado di rischio si appresta ad impegnare il denaro destinato all’investitore stesso[17].
Tutto ciò esposto e considerato, sembrerebbe che scopo specifico del benchmark sia proprio quello di consentire al potenziale investitore nella fase precontrattuale, quindi prima di sottoscrivere l’operazione, di comprendere il rischio connesso all’investimento suddetto, oltre che fornire un parametro di valutazione dell’operato del gestore in corso d’opera. Tale interpretazione sembra tuttavia non trovare puntuale riscontro in quanto affermato sul punto dalle due sentenza rese dalla Suprema Corte pochi mesi fa, secondo cui il benchmark indicato nei contratti «non costituisce un indicatore diretto del grado di rischio, né la leva finanziaria»[18].
Un ulteriore aspetto che merita di essere menzionato è la c.d. tesi della “gestione contro benchmark”[19], secondo la quale il compito assunto dal gestore non integrerebbe una mera obbligazioni di mezzi bensì, in taluni casi, potrebbe assumere le vesti di una obbligazione di risultato. Secondo tale impostazione sul mercato esisterebbero proposte contrattuali effettuate da parte degli intermediari che si caratterizzano per il fatto di “trasformare” l’obbligazione di mezzi del gestore (che dovrebbe sempre comunque rispettare il profilo di rischio concordato con il cliente per tutte le ragioni esposte e ricordate dalla Cassazione) in una sorta di obbligazione di risultato. Alla luce di tale teoria l’intermediario abilitato, nelle gestioni che potremmo definire “classiche” (o “con benchmark”), si libera provando di aver agito con “la specifica diligenza richiesta” (ad esempio, di aver rispettato il profilo di rischio rappresentato dal benchmark prescelto, la tipologia di investimenti identificata dal benchmark, ecc….). Nelle gestioni “contro benchmark”, viceversa, il gestore dovrà dimostrare di aver riprodotto il benchmark, mediante la comparazione fra le rendicontazioni periodiche inviate all’investitore e l’andamento dei titoli ricompresi nel benchmark. Ciò in quanto il gestore non si sarebbe impegnato alla realizzazione di una performance in termini assoluti, aleatoria nell’an e nel quantum, bensì ad una attività di natura più strettamente tecnica, delineata all’interno di un parametro preciso che funge da parametro dell’operato del gestore, il quale dovrà tendere a risultati superiori al benchmark id riferimento[20].
Nel caso sottoposto all’attenzione della Corte di Cassazione (sent. n. 17290/16), nelle comunicazioni intervenute con l’investitore la banca precisava quanto segue: “…il Benchmark, di cui al punto 5.7 delle “Condizioni generali di contratto” è pari al rendimento dell’indice di capitalizzazione MTS riferito ai B.O.T., aumentato di 2,7 punti percentuali, in ragione d’anno …”[21]. Quindi il benchmark non è stato predeterminato con precisione, ma si è rinviato alle condizioni generali con aggiunta di una percentuale di aumento del 2,7. La percentuale in aumento rappresentava, per le ragioni ricordate, una anomalia nella indicazione di un benchmark e ha contribuito a creare aspettative sulla resa dell’investimento stesso.
Volendo aderire alla teoria dottrinale riportata, nel caso specifico sembrava trattarsi proprio di una gestione “contro benchmark” e per tali ragioni il gestore pareva aver assunto un preciso impegno contrattuale. Tale impegno appariva idoneo a trasformare l’obbligazione di mezzi in obbligazione di risultato attraverso una sorta di “personalizzazione” del contratto, con l’obbligazione di migliorare il benchmark di alcuni punti percentuali (….”2,7 punti percentuali, in ragione d’anno…” in più del benchmark).
In ogni caso, anche non volendo aderire alla tesi della c.d. “gestione contro benchmark”, la banca aveva indicato all’investitore un benchmark che faceva espresso riferimento ai titoli di Stato. Sembrerebbe pertanto logico affermare che la gestione, per tutti i motivi esposti poc’anzi, avrebbe dovuto rispecchiare fedelmente il profilo rischio/rendimento dell’investimento che era quello prescelto dall’investitore stesso.
4. Conclusioni
Come più volte ricordato le due pronunce richiamate, hanno il merito di aver sancito in sede di legittimità importanti principi in relazione ai doveri informativi gravanti sull’intermediario, che si compongono di un contenuto “oggettivo” e uno “soggettivo”, oltre al dovere di rispettare il principio di adeguatezza degli investimenti rispetto al profilo di rischio dell’investitore, che richiede una valutazione globale della posizione del cliente stesso, sulla base della quale determinare l’effettivo profilo del cliente e la sua propensione al rischio. Il cliente deve ricevere puntuale e dettagliata informativa sulla tipologia di prodotto prospettato, sui rischi ad esso connessi e sulle alternative disponibili sul mercato. Allo stesso modo, l’intermediario è tenuto ad effettuare una compiuta valutazione della situazione economico – finanziaria del cliente e della sua propensione al rischio, al fine di individuare la tipologia di investimento più adeguata al medesimo.
Come ricordato nelle pronunce in esame tali doveri informativi possono essere ridotti solo in caso di operatore qualificato di cui all’art. 31 del. Consob 11522/98 (ora definito “cliente professionale” ad opera della c.d, MIFID), che ha un contenuto chiaro e specifico su quali siano gli elementi che consentono di attribuire tale qualifica. La dimensione aziendale e/o il patrimonio di un investitore non sono indici sufficienti per ridurre la tutela normativamente prevista.
Anche se alcune delle disposizioni normative e regolamentari oggetto dei due contenziosi in questa sede ricordati sono state ad oggi sostituite (es. del. Consob 11522/98 è stata sostituita dalla citata del. Consob. 16190/07 per effetto dell’introduzione della direttiva MIFID), i principi affermati hanno certamente rilevanza e attualità poiché nelle disposizioni odierne si rinvengono norme di contenuto analogo agli articoli qui richiamati, e le disposizioni normative nel loro complesso dovrebbero essere ispirate alla massima tutela dell’investitore e della stabilità del mercato. Inoltre gli artt. 21 e 23 TUF, ripetutamente richiamati dalle citate sentenze sono tutt’ora vigenti e, pertanto, quanto espresso dalle due sezioni della Suprema Corte è da ritenersi certamente attuale. Allo stesso modo è pienamente vigente il concetto di benchmark, anche alla luce dei recenti interventi a livello europeo, a testimonianza dell’attualità e della sensibilità legislativa, anche a livello sovranazionale, verso tale problematica.
Ci si permette di evidenziare che forse i due giudizi sarebbero stati un momento importante anche per comprendere la posizione della Suprema Corte in merito al benchmark, che oggi può anche essere conosciuto con terminologie diverse, senza tuttavia mutare nella sostanza la propria funzione. Ciò in quanto, come già evidenziato, le due Sezioni della Cassazione hanno affermato cosa a loro avviso “non è” il benchmark, senza tuttavia chiarire appieno “cosa sia”. A tal proposito ci si permette sommessamente di rilevare come forse i due giudizi richiamati nel presente contributo potessero rappresentare, in un certo qual modo, l’occasione per fornire chiarimenti a livello di Corte di legittimità sull’effettiva natura e funzione di tale indice, che secondo la lettera delle norme richiamate parrebbe corretto qualificare anche quale indice e parametro di riferimento della rischiosità e della natura di un investimento.
[1] Cassazione Civ., sez. I, n. 17290 del 24 agosto 2016.
[2] Cfr. Cassazione Civ., sez. I, n. 8089 del 21 aprile 2016, in www.dirittobancario.it
[3] Cassazione Civile, Sez. I, 31 agosto 2015, n. 17333, in www.dirittobancario.it.
[4] Nello specifico si è fatto riferimento a clausole del seguente tenore, secondo le quali il sottoscrittore prendeva atto «che il menzionato servizio di gestione non offre garanzia di mantenere invariato il valore degli investimenti»; oppure che «il cliente non ha alcuna garanzia di mantenere invariato il valore degli investimenti effettuati né di ottenere il raggiungimento dei propri obiettivi d’investimento». La Suprema Corte ha osservato che anche questa indicazione contrattuale svolge l’esclusiva funzione di definire il limite contrattuale non oltrepassabile delle perdite contrattualmente realizzabili ma è priva di contenuto descrittivo e informativo in ordine agli investimenti.
[5] Cfr. sul punto Cassazione Civ., sez. I, n. 8089 del 21 aprile 2016, cit. La Corte ha ricordato che nello specifico caso, trattandosi di una linea di gestione, la sezione IV del Reg. Consob (dedicata specificamente alle gestioni patrimoniali), l’art. 42, comma 1, da integrarsi con l’allegato 3 (Documento Rischi) sub lettera c) del predetto testo normativo, prevede che debba essere indicato per iscritto nel contratto quadro il grado di rischio di ciascuna linea di gestione patrimoniale. A tale riguardo, hanno affermato i Giudici, deve evidenziarsi che l’allegato sub 3, costituisce parte integrante del Regolamento citato, come espressamente indicato nell’art. 28 comma 1 lettera B, ed in particolare costituisce il modello prescrittivo dell’assolvimento degli obblighi informativi specifici relativi alla trasparente e comprensibile rappresentazione dei rischi connessi alle singole gestioni così come prescritto in via generale dal primo coma dell’art. 42.
[6] Cfr. anche Cass. Civile, Sez. I, 15 marzo 2016, n. 5089 e Cass. Civile, Sez. I, 26 agosto 2016, n. 17356, entrambe in www.dirittobancario.it.
[7] A dimostrazione della inesperienza dell’investitore nel settore finanziario sono inoltre gli investimenti effettuati in precedenza, tutti a bassissimo rischio (principalmente giacenze in conto corrente; obbligazioni/titoli di stato; e solo un modestissimo importo investito in Azioni), oltre al grave stato di salute in cui da tempo versava che lo aveva indotto ad effettuare sempre scelte tese alla conservazione del patrimonio.
[8] Cfr. Corte di Cassazione n. 17290 del 24 agosto del 2016, pag. 16., la quale ha ribadito nuovamente che non si deve erroneamente equiparare la descrizione delle gestioni e l’indicazione del livello di rischio di ciascuna di esse, poiché la descrizione della natura giuridica degli “investimenti” (azionaria, obbligazionaria, con indicazione del mercato di riferimento) e della maggiore o minore sensibilità alla variazione dei tassi di interesse non contiene una diretta esplicitazione del grado di rischio richiesta invece dal testo integrato dell’art. 42 con l’allegato 3, sub. c).
[9] Cfr. art. 29 Del. Consob. n. 16190 del 29 ottobre 2007 (e successivi aggiornamenti), in www.consob.it.
[10] S.V. Commentario al Testo Unico della Finanza, a cura di M. Fratini e G. Gasparri, tomo I, Torino, 2012, p. 26 e ss. secondo cui oggi il benchmark sarebbe individuato con un parametro “significativo” e costituisce «in altre parole il metro di paragone in base al quale valutare l’operato del gestore e consente di fornire all’investitore un elemento chiave di valutazione critica del servizio che gli è stato offerto. Il benchmark è dato da indicatori finanziari, espressi sotto un valore numerico che consentono all’investitore una razionale valutazione dell’operato del gestore».
[11] Anche a livello europeo, inoltre, è riconosciuto l’utilizzo dell’espressione “benchmark” riferendosi agli indici utilizzati nel sistema finanziario per indicare i parametri di riferimento relativi a contratti e strumenti finanziari, o per valutare la performance di un investimento. Cfr. il recente Regolamento (ue), 2016/1011 dell’8 giugno 2016, in www.eur-lex.europa.eu.
[12] Cfr. Corte di Cassazione n. 17290 del 24 agosto del 2016, pag. 16. Di contenuto sostanzialmente analogo è quanto affermato anche da Cassazione n. 8089 del 2016 in relazione alla presunta natura giuridica del benchmark, ove i Giudici paiono aver affermato cosa “non è” senza chiarire appieno “cosa sia” e quale scopo o funzione debba ricoprire.
[13] Cfr. art. 42, Del. Consob 11522 del 1998, in www.consob.it.
[14] Cfr. Comunicazione Consob DIN/5076376 del 17-11-2005, in www.consob.it, secondo cui «il benchmark è costituito da un predefinito portafoglio di attività finanziarie, “costruito facendo riferimento a indicatori finanziari elaborati da soggetti terzi e di comune utilizzo” (art. 42, comma 2, del regolamento CONSOB n. 11522/1998), rappresentativo dei rischi di mercato cui tipicamente è esposto il patrimonio gestito; esso deve, pertanto, essere coerente con la politica e gli obiettivi della gestione di portafoglio, nonché accettato dal gestore come strategia neutrale di investimento».
[15] Cfr. Comunicazione Consob n. DIN/5076376 del 17-11-2005, cit. secondo cui «(…)Tale parametro deve essere “coerente con i rischi a essa connessi” (art. 42, comma 1, del regolamento CONSOB n. 11522/1998) agevolando, per tal via, ex ante, la scelta di investimento e, ex post, la valutazione dei risultati prodotti dall’attività gestoria».
[16] Cfr. fra gli altro Tutti gli strumento di tutela del risparmio, a cura di M. Liera, Milano, 2007, 22 e ss.
[17] In altre parole un gestore che indichi come benchmark un indice “obbligazionario” non potrà che investire in obbligazioni, consentendo quindi al risparmiatore di avere un’idea più chiara circa l’identità del prodotto o servizio e svolge anche la funzione di misurare il rischio dell’investimento. Quindi l’investitore può, misurando la rischiosità del benchmark, valutare la rischiosità della gestione stessa. D’altro canto il gestore (spesso la Banca) deve scegliere come benchmark indicatori finanziari che possano essere rappresentativi, in considerazione delle singole tipologie di valori mobiliari, delle modalità di gestione e dei fattori di rischio. «Il benchmark contribuisce anche a determinare il c.d. stile gestionale: nel caso di stile “passivo” ci si limiterà a replicare la composizione del parametro prescelto, mentre nel caso di stile “attivo” la composizione del portafoglio differirà, in modo più o meno marcato, da quella del parametro in relazione ai criteri di selezione degli strumenti finanziari adottati», cfr. Comunicazione Consob n. DIN/5076376 del 17-11-2005, cit.
[18] Cfr. Corte di Cassazione n. 17290 del 24 agosto del 2016, pag. 16 cit. e Corte Cass. 8089 del 21 aprile 2016, cit.
[19] G. Falcone – G. Greco – G. Rotondo, La responsabilità nella prestazione dei servizi di investimento, Milano, 2004, 96 e ss.
[20] A. Santangelo, La responsabilità dell’intermediario finanziario per la gestione di portafogli mobiliari, in MB, 1999, 67 ess. In tale ultima ipotesi, in caso di inadempimento del gestore sarebbe più agevole quantificare il danno subito dall’investitore. Infatti nelle gestioni “contro benchmark “il danno sarebbe misurabile in un importo pari all’eventuale scarto tra il rendimento ottenuto dall’investitore e la “sovraperformance” conseguita dal benchmark.
[21] Sigla MTS: Mercato telematico dei titoli di stato (M.T.S.)sul quale i titoli di Stato venivano trattati per grossi quantitativi. Lo scopo primario era quello di garantire la liquidazione degli investimenti in titoli di Stato assicurando trasparenza nella formazione dei prezzi.