L’assenza di una specifica menzione alla beneficial ownership clause ai fini convenzionali non è idonea a porre nel nulla il fondamentale rilievo antiabuso che tale clausola possiede nell’ordinamento fiscale internazionale: pertanto, anche in presenza di un trattato bilaterale – stipulato dall’Italia in un periodo antecedente all’introduzione nella prassi internazional-tributaria della nozione di “beneficiario effettivo” – che preveda per un soggetto la possibilità di invocare i benefici convenzionali in quanto mero percettore (ovvero “recipient”, nella versione in lingua inglese) del flusso di reddito transnazionale, l’interpretazione del termine non può derogare dal ruolo di clausola anti-treaty shopping volta a prevenire l’interposizione di un soggetto terzo tra il beneficiario finale del reddito e il debitore.
A tali conclusioni è pervenuta la Corte di Cassazione, Sez. V (Presidente – Cirillo, Relatore – Giudicepietro) con le sentenze n. 24287, 24288, 24289, 24290 e 24291 dello scorso 30 Settembre, in una controversia riguardante il silenzio-rifiuto formatosi sull’istanza di rimborso presentata da un ente pensionistico giapponese per le maggiori ritenute subite alla fonte in relazione a dividendi corrisposti nel 1998 da società italiane ad alcuni Special Purpose Vehicles (SPV) di diritto statunitense (in forma di Limited Partnerships), nell’ambito di uno schema di amministrazione fiduciaria che prevedeva che gli attivi confluiti in un fondo pensionistico nazionale fossero gestiti tramite istituti di credito giapponesi (Trustees) i quali, con la costituzione di uno o più SPV all’estero, affidassero l’amministrazione delle disponibilità ad una società di gestione patrimoniale (non residente in Italia). Quest’ultima, a sua volta, avrebbe investito in azioni di società italiane: la gestione di tali attivi avveniva per il tramite di una società di servizi finanziari e bancari (Guardian), che provvedeva a riscuotere i dividendi in Italia e a retrocederli alle varie SPV, che, a loro volta, li retrocedevano agli istituti di credito giapponesi in qualità di Trustees del fondo pensione.
La ricorrente presentava quindi istanza di rimborso della differenza fra la maggiore ritenuta domestica applicata alla fonte (32,4%) e la ritenuta convenzionale[1] (15%), con le seguenti motivazioni: (i) l’ente pensionistico si configurava quale beneficiario effettivo dei dividendi, come da certificato emesso dalle autorità fiscali locali, (ii) allo stesso soggetto era riconosciuta l’effettiva residenza fiscale in Giappone, (iii) le SPV di diritto statunitense svolgevano un ruolo di intermediari nello schema di gestione e amministrazione delle disponibilità derivanti dalla partecipazione dei lavoratori dipendenti al programma pensionistico nazionale, (iv) in ogni caso, la Convenzione bilaterale fra Italia e Stati Uniti richiamava la possibilità di tassare per trasparenza il reddito delle Limited Partnerships qualora i soci non fossero stati soggetti passivi di imposta in uno dei due Paesi, sicché sarebbe comunque venuta in rilievo la norma convenzionale posta dall’art. 10 del trattato fra Italia e Giappone.
All’esito del giudizio di primo grado, favorevole al contribuente, proponeva appello l’Agenzia delle Entrate.
I giudici della CTR del Piemonte ritenevano quindi che i benefici convenzionali potessero essere invocati solo nei casi in cui i dividendi di fonte domestica fossero stati pagati “immediatamente e direttamente” a soggetti fiscalmente residenti in Giappone (e non, come nel caso di specie, a Limited Partnerships statunitensi), accogliendo così la tesi dell’Amministrazione finanziaria.
Con ben altro spirito, la Corte di Cassazione ha ritenuto invece fondate le motivazioni di parte ricorrente, condividendo il principio secondo cui “laddove l’art. 10 della Convenzione parla di ‘dividendi pagati’, intende ‘dividendi effettivamente e definitivamente percepiti’, ossia il beneficio effettivo dei pagamento dei dividendi, restando inapplicabile il beneficio convenzionale ai soli soggetti interposti”.
Pur tuttavia, i Giudici di Piazza Cavour si sono in parte discostati dal procedimento logico-interpretativo che ha condotto a tale conclusione, nel momento in cui parte ricorrente sosteneva che la versione del modello di Convenzione OCSE del 1963, cui era ispirato il trattato fra Italia e Giappone, intendesse già ricomprendere nel termine “repicient of the dividends[2]“ il titolare effettivo e finale degli stessi, quando, invero, la qualifica prescindeva ancora dal fatto che il percettore fosse anche il beneficiario da un punto di vista legale ed economico. Tanto è vero che solo con la versione del 1977 è stata introdotta una prima nozione di “beneficiario effettivo”, mentre il corrispondente Commentario agli artt. 10, 11 e 12 non forniva neanche una definizione precisa del termine.
Seguendo le conclusioni dei Giudici, questi hanno inteso ripercorrere il solco tracciato da consolidata giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. Civ. n. 25281/2015, riguardante l’applicazione del trattato fra Italia e Cipro[3]) – ma anche di merito, possiamo aggiungere (cfr. CTR Lombardia n. 1068/2018, CTR Lazio n. 3535/2018 e CTR Piemonte n. 1778/2017[4], sull’applicazione del trattato fra Italia e Ungheria) – riconoscendo che la mancanza di un’esplicita previsione all’interno della convenzione non è idonea a porre nel nulla la funzione della beneficial ownership clause quale norma di contrasto a (specifiche e non generali, è bene ricordare) forme di treaty shopping[5], dal momento in cui l’interpretazione dell’art. 10 del trattato fra Italia e Giappone deve svilupparsi in aderenza ai canoni ermeneutici contenuti negli artt. 31 e 32 della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati, che porterebbe a ritenere che “la nozione di ‘beneficiario’ coincida con quella di ‘beneficiario effettivo’”.
Di talché, in linea più generale, l’interpretazione del termine non deve avvenire secondo un’accezione tecnica e restrittiva quanto piuttosto alla luce dell’oggetto e dello scopo della pertinente convenzione contro le doppie imposizioni sottoscritta fra Stati contraenti, quello cioè di prevenire (anche) l’evasione o l’elusione fiscale in ambito internazionale. Fra l’altro, queste conclusioni sono ulteriormente rafforzate alla luce dell’aggiornamento al Titolo e al (nuovo) Preambolo del modello di Convenzione OCSE nella versione 2017 (si veda anche il par. 16.1 dell’Introduzione al Commentario OCSE[6]), cui si richiama l’interpretazione del contesto del trattato ex art. 31, comma 2, primo periodo della Convenzione di Vienna[7] (si veda il par. 16.2 dell’Introduzione al Commentario OCSE[8]).
In considerazione di ciò, i Giudici hanno concordato per l’irrilevanza delle SPV (cui i dividendi venivano corrisposti in prima battuta) nello schema di amministrazione fiduciaria, aprendo alla possibilità che l’ente pensionistico potesse qualificarsi come l’unico soggetto legittimato ad invocare i benefici convenzionali in quanto titolare, da ultimo, del diritto cui si ricollegava il pagamento dei dividendi.
Questo approccio sostanziale, teso a riconoscere l’effettività del beneficio in capo al soggetto titolare del diritto giuridico ed economico sul flusso transnazionale anche se non diretto percettore del pagamento, richiama alla mente una posizione già nota in giurisprudenza. La CTP di Torino aveva infatti affrontato il tema con la sentenza n. 14/7/2010, in un caso riguardante il recupero a tassazione di ritenute su canoni corrisposti nell’ambito di un contratto di sub-licenza sottoscritto da una società italiana con una società tedesca, che scontavano l’aliquota ridotta del 5% in luogo del 30% per norma domestica. Ciò in quanto, secondo l’Agenzia delle Entrate, la società tedesca non avrebbe avuto titolo per essere considerata beneficiaria effettiva delle royalties corrisposte dalla ricorrente, spettando tale status unicamente ad una società americana (tra l’altro, diretta controllante della società italiana) quale unico soggetto titolare del diritto giuridico ed economico sui beni immateriali dati in concessione. Dunque, pur riconoscendo che nel corso del procedimento non erano stati forniti elementi atti a riconoscere lo status di beneficiario effettivo in capo alla società tedesca, secondo i giudici torinesi “essendo pacifico che ITA risulta controllata da USA, la quale, come asserito dall’Ufficio ed in assenza di prova contraria, appare come l’effettiva beneficiaria delle royalties, deve concludersi che queste non avrebbero dovuto essere assoggettate alla ritenuta del 5% prevista dalla Convenzione Italia Germania. Trattandosi di transazione economica in realtà intercorsa tra ITA e USA, appare equo ritenere applicabile alla fattispecie la ritenuta nella misura del 10% di cui all’art. 12 della Convenzione Italia-USA”. in tal modo, la qualifica di “beneficiario effettivo” veniva riconosciuta in capo alla controllante americana, pur se non diretta percettrice del pagamento.
Sulle medesime posizioni si è attestata la stessa prassi amministrativa con la Risoluzione Ministeriale n. 86/E del 12 luglio 2006: il caso analizzato riguardava il trattamento fiscale applicabile a royalties corrisposte da sub-licenziatari italiani ad una società residente negli Stati Uniti, che operava in qualità di intermediaria nella concessione di sub-licenza a terzi soggetti (residenti in altre giurisdizioni). La Risoluzione ha infatti chiarito che, nonostante la società americana fosse intestataria delle licenze per lo sfruttamento dei brevetti, la circostanza che questa si limiti a svolgere la funzione di mera intermediaria e, segnatamente, la mancata tassazione negli Stati Uniti sulle royalties ad essa corrisposte dai sub-licenziatari italiani, impedivano di qualificare la società come “beneficiario effettivo” dei redditi in questione. Conseguentemente, al ricorrere dei requisiti previsti per fruire dell’agevolazione convenzionale, sarebbe stato possibile per la società italiana valutare la pertinenza e l’attendibilità della documentazione presentata dai beneficiari effettivi dei redditi ad essi corrisposti, al fine di applicare direttamente le Convenzioni tra l’Italia ed i Paesi di residenza dei principal licensors.
[1] Convenzione contro le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito con protocollo e scambio di note, conclusa il 20 marzo 1969, tra Italia e Giappone. Si veda, per quanto qui di interesse, l’art. 10, co. 1 e 2, i quali prevedono che:
“1. I dividendi pagati da una società residente di uno Stato contraente ad un residente dell’altro Stato contraente sono tassabili in detto altro Stato contraente.
2. Tuttavia, tali dividendi possono essere tassati nello Stato contraente di cui la società che li paga è residente, ed in conformità alla legislazione di detto Stato contraente, ma l’imposta così applicata non può eccedere:
a) il 10 per cento dell’ammontare lordo dei dividendi se il beneficiario è una società che possiede almeno il 25 per cento delle azioni con diritto di voto della società che paga tali dividendi durante i sei mesi immediatamente precedenti la fine del periodo contabile per il quale ha luogo la distribuzione degli utili;
b) il 15 per cento dell’ammontare lordo dei dividendi, in ogni altro caso.
Questo paragrafo non riguarda la tassazione della società per gli utili con i quali sono stati pagati i dividendi”.
[2] Il testo in lingua inglese (art. 10) prevede che:
“1. Dividends paid by a company which is a resident of a Contracting State to a resident of the other Contracting State may be taxed in that other Contracting State
2. However, such dividends may be taxed in the Contracting State of which the company paying the dividends is a resident, and according to the law of that Contracting State, but the tax so charged shall not exceed:
a) 10 per cent of the gross amount of the dividends if the recipient is a company which owns at least 25 per cent of the voting shares of the company paying such dividends during the period of six months immediately before the end of the accounting period for which the distribution of profits takes place;
b) in all other cases, 15 per cent of the gross amount of the dividends.
This paragraph shall not affect the taxation of the company in respect of the profits out of which the dividends are paid”.
[3] I fatti della causa riguardano l’applicabilità della normativa CFC nei rapporti tra una società italiana e la sua controllata estera residente a Cipro, la cui costituzione era stata necessaria per rispondere agli obblighi di regulatory interni posti dall’Autorità di vigilanza cipriota, che imponevano – quale condizione necessaria per l’acquisizione della partecipazione in una società locale – la residenza a Cipro del soggetto diretto titolare della posizione di controllo. Nello svolgimento del processo, i Giudici, analizzando la compatibilità fra la disciplina CFC e le norme convenzionali, hanno infatti richiamato il principio generale che riconosce il ruolo delle convenzioni contro le doppie imposizioni quale strumento di prevenzione da fenomeni di doppia imposizione giuridica nonché di evasione fiscale, cosicché anche la mancanza di un’esplicita menzione della beneficial ownership clause all’interno della convenzione bilaterale non è idonea a far perdere di efficacia il generale rilievo antiabuso che tale strumento assume nell’ordinamento fiscale internazionale.
[4] I tre casi possono essere analizzati unitariamente, facendo parte di un unico filone giurisprudenziale in cui veniva contestata ad una società italiana l’omessa effettuazione di ritenute sugli interessi corrisposti ad una società ungherese, a sua volta controllata da società (holding) residente nelle Bermuda. I Giudici regionali della Lombardia, del Lazio e del Piemonte hanno quindi concluso che le disposizioni convenzionali devono essere interpretate alla luce della clausola generale implicita nell’ordinamento fiscale, con lo scopo di prevenire l’evasione fiscale e un uso distorto dei benefici convenzionali (treaty shopping).
[5] Contro tale principio si rileva anche dottrina di segno opposto, tesa a ritenere che “l’attribuzione alla nozione del beneficiario effettivo della funzione di ‘clausola generale dell’ordinamento fiscale internazionale generalmente riconosciuta’ contrasti con il principio pacta sunt servanda, che impone agli Stati contraenti di un trattato di concedere i benefici pattizi anche se considerati ‘impropri’, in assenza di un’esplicita norma antiabuso” (P. Piantavigna e P. Ronca, Il sostituto d’imposta non deve investigare sul reale beneficiario degli interessi passivi – I riflessi della clausola convenzionale del beneficiario effettivo sul regime di responsabilità del sostituto d’imposta, GT – Rivista di Giurisprudenza Tributaria, 7/2018, p. 618).
[6] OECD Model Tax Convention on Income and on Capital, qui di seguito nella versione da ultimo aggiornata il 21 Novembre 2017: “As a result of work undertaken as part of the OECD/G20 Base Erosion and Profit Shifting Project, in 2014 the Committee decided to amend the title of the Convention and to include a preamble. The changes made expressly recognise that the purposes of the Convention are not limited to the elimination of double taxation and that the Contracting States do not intend the provisions of the Convention to create opportunities for non-taxation or reduced taxation through tax evasion and avoidance. Given the particular base erosion and profit shifting concerns arising from treaty-shopping arrangements, it was also decided to refer expressly to such arrangements as one example of tax avoidance that should not result from tax treaties, it being understood that this was only one example of tax avoidance that the Contracting States intend to prevent”.
[7] Vienna Convention on the laws of the treaties, conclusa il 23 Maggio 1969: “The context for the purpose of the interpretation of a treaty shall comprise, in addition to the text, including its preamble and annexes […]”.
[8] “Since the title and preamble form part of the context of the Convention and constitute a general statement of the object and purpose of the Convention, they should play an important role in the interpretation of the provisions of the Convention. According to the general rule of treaty interpretation contained in Article 31(1) of the Vienna Convention on the Law of Treaties , ‘[a] treaty shall be interpreted in good faith in accordance with the ordinary meaning to be given to the terms of the treaty in their context and in the light of its object and purpose’”.